Pagine di rilievo

Ecumenismo: definizione, evoluzione

Continuo nell'esame di alcuni dei punti controversi del concilio. Per la riflessione comune e per capire le dinamiche attuali, in attesa, di un futuro necessario riequilibrio.
Il testo che segue è tratto dal libro: Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI Rieti 2012. Indice consultabile qui
Disponibile a Roma presso la Libreria Leoniana Via dei Corridori, 28, - Telefono: 06 6869113 - Fax 06 683 3854 - e-mail: leoniana@tiscali.it - Oppure può essere richiesto all'autrice maria.guarini@gmail.com
Testo aggiornato in base agli eventi succedutisi più di recente.

Unità o aggregazione?
L'ultimo documento magisteriale, che sancisce la dottrina tradizionale sull’ecumenismo prima del Decreto conciliare Unitatis Redintegratio, è la Instructio de motione oecumenica (Santo Officio, 20 dicembre 1949: in AAS, 31 gennaio 1950) che riprende l’insegnamento di Pio XI nell’enciclica Mortalium animos.
Primo: «la Chiesa cattolica possiede la pienezza del Cristo» e non deve perfezionarla ad opera delle altre confessioni.
Secondo: non si deve perseguire l’unione per via di una progressiva assimilazione delle varie confessioni di fede né mediante un’accomodazione del dogma cattolico ad altro.
Terzo: l’unica vera unione delle Chiese può farsi soltanto con il ritorno (per reditum) dei fratelli separati alla vera Chiesa di Dio.
Quarto: i separati che si ricongiungono alla Chiesa cattolica non perdono nulla di sostanziale di quanto appartiene alla loro particolare professione, ma anzi lo ritrovano identico in una dimensione completa e perfetta («completum atque absolutum»).
Nell’Unitatis redintegratio l’Instructio del 1949 non è mai citata e non lo è neppure il vocabolo ritorno (reditus). Dunque alla reversione è subentrata la conversione.
Afferma in proposito Romano Amerio: « Le confessioni cristiane, compresa la cattolica, non devono volgersi l’una all’altra, ma tutte insieme gravitare verso il Cristo totale che trovasi fuori di esse (non più nella Chiesa cattolica, quindi) e in cui esse devono convergere ».[1]

Ne consegue il cambiamento dottrinale: la Chiesa di Roma non è più il fondamento e il centro dell’unità cristiana e la vita storica della Chiesa, che è la persona collettiva di Cristo, converge intorno a più centri (le varie confessioni cristiane) il cui centro più profondo sussiste al fuori di ciascuna di esse; il cambiamento implica che i separati non devono muovere verso il centro immobile che è la Chiesa guidata da Pietro. L'unità quindi non è più considerata già nella storia e  cade la necessità di rifarsi ad essa escludendo a priori qualunque pluralismo paritario. Viene meno quindi la « riaffermazione della trascendenza del Cristianesimo il cui principio, che è [il] Cristo, è un principio teandrico vicariato storicamente dal ministero di Pietro ». [2]

L’argomentazione di Amerio spicca per la sua adamantina chiarezza e semplicità:
« Veramente nel discorso inaugurale del secondo periodo Paolo VI ripropose la dottrina tradizionale asserendo che i separati «mancano della perfetta unità che solo la Chiesa cattolica può loro dare». Il triplice vincolo di tale unità è costituito dall’identica credenza, dalla partecipazione agli identici sacramenti e dalla «apta cohaerentia unici ecclesiastici regiminis», anche se questa unica direzione rispetterà una larga varietà di espressioni linguistiche, di forme rituali, di tradizioni storiche, di prerogative locali, di correnti spirituali, di situazioni legittime. Ma nonostante le dichiarazioni papali il decreto Unitatis redintegratio respinge il reditus dei separati e professa la tesi della conversione di tutti i cristiani. L’unità non deve farsi per ritorno dei separati alla Chiesa cattolica, bensì per conversione di tutte le Chiese nel Cristo totale, il quale non sussiste in alcuna di esse ma va reintegrato mediante la convergenza di tutte in uno. Dove gli schemi preparatorii definivano che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, il Concilio concede soltanto che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, adottando la teoria che anche nelle altre Chiese cristiane sussiste la Chiesa di Cristo e che tutte devono prendere coscienza di tale comune sussistenza nel Cristo. Le Chiese separate, come scrive in OR, 14 ottobre, un cattedratico della Gregoriana, sono riconosciute dal Concilio come «strumenti di cui lo Spirito Santo si serve per operare la salvezza dei loro aderenti» [UR, nn. 21-23 - ndR]. Il cattolicismo, in questa veduta paritaria di tutte le Chiese, non ha più nessun carattere di preminenza e di esclusività ».
La variazione nella dottrina consiste dunque nel fatto che l’unione di tutte le Chiese si faccia anziché nella Chiesa cattolica, nella cosiddetta Chiesa di Cristo e per un moto di convergenza di tutte le confessioni verso un centro che è fuori di ciascuna. Da una variazione del genere del concetto di unione dei cristiani consegue inevitabilmente anche la variazione nel concetto di missione: le religioni non cristiane devono entrare nell’unità religiosa dell’umanità e, esattamente come per i fratelli separati, ciò avviene non già per effetto della loro conversione al Cristianesimo, ma è già presente nei loro intrinseci valori che basta approfondire, ritrovando così quella più profonda verità che soggiace a tutte le religioni.

I discorsi e i documenti di Giovanni Paolo II e soprattutto la sua Enciclica Ut unum sint, disegnano l’impegno ecumenico come una strategia del dialogo, piuttosto che come espressione di una profonda e inalienabile esigenza dell’unità e unicità della Chiesa. E, così pure Benedetto XVI ha più volte ribadito:  “L’impegno ecumenico della Chiesa cattolica nella ricerca dell’unità cristiana è irreversibile”. Ora, un conto è riconoscere e affermare l’ecumenicità del Chiesa nel senso della sua costitutiva proprietà insita nella cattolicità proiettata su tutta la terra e su tutta l’umana famiglia (Καθ’όλον), un conto è fondare l’impegno ecumenico sulle strategie umane, senza più avere come punto di partenza l’ontologia della Chiesa e la sua implicita tensione all’unità, che non può discendere da comportamenti contingenti, ma nella fedeltà al Signore che si esprime nella sua missione universalistica.

Ciò significa che l’ecumenismo non è stato una scoperta del Concilio, ma esso è da sempre nell’autocoscienza ecclesiale. « Vi è, tuttavia, con una sua configurazione, diametralmente opposta a quella attuale. Mentre questa si distacca dalla “politica del ritorno” e talvolta irride ad essa, talaltra la demonizza. L’ecumenismo che accompagna l’incedere spazio-temporale della Chiesa è al servizio della sua unità/unicità, alla quale sollecita il ritorno dei lontani e dei separati »[3].  Non a caso, nella Mortalium animos Pio XI insegna che la tendenza pancristiana al falso ecumenismo sfocia in una « falsa religione cristiana, assai diversa dall’unica Chiesa di Cristo ». La Tradizione ci consegna il dato che alla Rivelazione Apostolica corrisponde la Chiesa una unica ed immutabile. Chi e da qualunque pulpito la rende diversa nella Dottrina, si autoesclude dall’unica vera Chiesa.

In tutte le discussioni, l'articolato dialogo e gli sviluppi pastorali che se ne traggono, l'unico dato che dovrebbe essere essenziale, ma non emerge, è che per un ecumenismo autentico non valgono tanto le commissioni, gli incontri i proclami e le dichiarazioni congiunte, quanto la preghiera la penitenza, l'impegno nel rinnovamento nella piena fedeltà alla Tradizione e alla Parola; il che significa fedeltà al Signore.

Infatti l'“Ut unum sint” per il quale il Signore ha pregato ed ha donato se stesso, la vera unità - che non è né pragmatica né organizzativa né di assenso della ragione, ma comunione in Cristo nella Sua Chiesa - non sono le cosiddette buone volontà umane a realizzarla, ma essa stessa si realizza come dono Soprannaturale che si invera in chi “rimane” e in chi “ritorna” nella Chiesa così come il Signore l'ha voluta e istituita: l'Una, Santa, Cattolica, Apostolica e anche Romana.

Sovviene l’Apostolo Paolo, che nella fedeltà a Pietro, non fu cieco, di fronte a quella che era una condizione di mero “errore materiale” a proposito di quel comportamento, per cui forse oggi lo si direbbe “ecumenico”, « quando si conformava ai costumi dei circoncisi stando con i giudeo-cristiani circoncisi e se ne discostava quando pregava coi cristiani incirconcisi provenienti dal gentilismo (Gal. II, 11,14) ».[4]
Come Paolo, così oggi e sempre debbono fare tutti i cattolici resistenti all’indifferentismo, alle ambiguità dottrinali, ai rischi di sincretismo: essere vedenti e aprire gli occhi perché altri vedano. Certo nessun cattolico resistente è un San Paolo, ma è sufficiente la condizione di « essere fedeli discepoli dell’Apostolo delle Genti – fedele a Pietro ma a lui resistente anche in faccia – nella comune resistenza. Se si è suoi discepoli si è suoi figli: ebrei in lui, sapienti in lui […] così assumendo di lui tutte le potenze e tutte le attualità, compreso il desiderio di vedere in Cristo i superiori pasturare la verità ai fedeli con soprannaturale rettitudine ».[5]

Alcune notazioni, che diventano seri interrogativi, infatti, non possono non sorgerci spontanee: che fine ha fatto il valore incommensurabile della “Comunione”, unico elemento davvero trasformatore della realtà, sostituita, in base ad una logica solo umana, da una prassi che prende come fondamento i cosiddetti “valori” e non il Principio che ne è il Fondamento? Davvero si può pensare che se, in luogo della comunione, si mette in campo un' “alleanza strategica” pragmatica, le cose possano cambiare? E neppure una parola sul vero unico Artefice di ogni Bene e di ogni Salvezza dell'uomo e del mondo, in cui l'uomo respiri, agisca e viva secondo la Volontà del suo Creatore, cioè sul Signore Gesù, al quale - se ci diciamo cristiani - dovremmo professare la nostra appartenenza e dare ragione di essa?

È il trito e superficiale “guardiamo a ciò che unisce” di questo falso ecumenismo, che coinvolge anche un movimento dalle prassi e dagli insegnamenti anomali e “altri” come il Cammino neocatecumenale che sta inquinando intere diocesi, senza tenere in alcun conto l'ortodossia che sola può garantire una ortoprassi veramente salvifica e trasformante secondo le finalità del Padre per ognuno e per tutti i suoi figli, nel Figlio. Ortodossia, che non è un dato meramente giuridico, ma identitario, dove identità sta per “autentica immagine del Padre, secondo somiglianza, da realizzare nel Figlio per opera dello Spirito Santo”.

Dobbiamo pensare che la Chiesa è permeata dell'“antropocentrismo” illuminista che caratterizza questo nostro momento storico e che purtroppo è stato fatto proprio, laddove si è lasciata inquinare dal ‘modernismo’? Davvero possiamo pensare e credere che i “valori morali” di cui tanto si parla, se non sono il frutto delle azioni di cuori Redenti dal Signore, non degenerino ben presto nella loro vuota inconsistenza rivestita di buone intenzioni? Si può davvero pensare di combattere il degrado morale e le divisioni senza difendere e diffondere in primis le verità di Fede, ormai così oscurate?

Il cristianesimo non è un'etica, ma ha un'etica, che discende dalla sequela del Signore Nato Morto Risorto Asceso al Cielo datore del Suo Spirito per noi e per la nostra Salvezza. E non è il dialogo o la prassi che salva, altrimenti siamo sempre alle “opere della legge”, ma la retta Fede, diffusa e difesa, che ha già in sé il seme dell'eternità e che genera la vera ortoprassi, e la vera comunione, che è un dono Soprannaturale e non è opera di nessun uomo per quanto di buona volontà egli possa essere.

Col concilio si è caduti nell'inganno che le verità parziali possano essere la porta d'accesso alla verità totale e si è perso il senso del reditus cioè del ritorno delle altre confessioni, dimenticando che in esse gli errori all'interno dei quali sono costretti i frammenti di verità, distorcono la verità e ne falsano la vera portata. Come diceva p. Garrigou Lagrange « In una dottrina globalmente falsa la verità non è l'anima della dottrina, ma la schiava dell'errore [6]

Questo vale anche per tutti gli esiziali ‘inclusivismi’ ai quali abbiamo assistito nell’ultimo periodo anche con le porte sempre più spalancate al cammino neocatecumenale, per portare uno sconcertante esempio di realtà ecclesiale accolta senza averne prima operate e necessarie ‘purificazioni’.[7]

Dobbiamo registrare, nell’approssimarsi del 2017 e del 500.mo anniversario delle tesi di Lutero il documento congiunto Dal conflitto alla comunione, scaturito dagli esiti del dialogo cattolico-luterano, che il Vaticano ha fatto proprio avendolo reso ufficiale con la pubblicazione sul sito della Santa Sede. Esso reca le firme di Karlheinz Diez, Vescovo ausiliare di Fulda co-presidente cattolico e di Eero Huovinen, Vescovo emerito di Helsinki co-presidente luterano. Ed inoltre si è perfino arrivati a promuovere un "ordinamento liturgico" comune [qui].

Non tocco diversi punti su cui ci sarebbe molto da dire. Si tratta di un documento molto complesso e articolato, che riprende tutte le novae conciliari e post, sulle quali molte riflessioni si potranno ricavare dai testi di cui ai link inseriti nell'introduzione sopra. Mi soffermo solo sulle conclusioni riguardanti l'Eucaristia, che è il centro e il culmine di tutto, come prioritaria e inalienabile funzione della Chiesa: da essa tutto parte e in essa tutto confluisce. E dunque tutto il resto non è che conseguenza.

Dal documento Dal conflitto alla comunione :
Convergenza nella comprensione del sacrificio eucaristico[...]
157. Riguardo alla questione che per i riformatori era della massima importanza – il sacrificio eucaristico – il dialogo luterano-cattolico ha dichiarato come principio basilare: «Cattolici e luterani riconoscono insieme che Gesù Cristo nell’eucaristia “è presente come crocifisso, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione, come vittima offerta una volta per sempre per i peccati del mondo”. Questo sacrificio non può essere né continuato né ripetuto né sostituito né completato; ma può e deve diventare operante in modo sempre nuovo in mezzo alla comunità. Sul modo e la misura di questa efficacia esistono fra di noi diverse interpretazioni» (L’eucaristia, n.56; EO 1/1263).
158. Il concetto di anamnesis ha contribuito a risolvere la controversa questione di come porre il sacrificio unico e sufficiente di Gesù Cristo nel giusto rapporto con la Cena del Signore: «Attraverso il memoriale degli atti salvifici di Dio nel culto, questi atti stessi diventano presenti nella potenza dello Spirito, e la comunità celebrante è connessa con gli uomini e le donne che in precedenza sperimentarono gli atti salvifici stessi. Questo è il senso in cui s’intende il comando espresso da Cristo nella Cena del Signore: nella proclamazione, con le sue stesse parole, della sua morte salvifica e nella ripetizione delle sue proprie azioni compiute durante la Cena, viene in essere la “memoria” in cui la parola e l’azione salvifica stesse di Gesù diventano presenti».[liv]
159. Il risultato decisivo è stato il superamento della separazione del sacrificium (il sacrificio di Gesù Cristo) dal sacramentum (il sacramento). Se Gesù Cristo è realmente presente nella Cena del Signore, allora anche la sua vita, passione, morte e risurrezione sono veramente presenti insieme al suo corpo, così che la Cena del Signore è «il rendersi veramente presente dell’evento della croce».[lv] Non solo l’effetto dell’evento della croce, ma anche l’evento stesso è presente nella Cena del Signore senza che questa Cena sia una ripetizione o un completamento di esso. Questo unico evento è presente in una modalità sacramentale. La forma liturgica della santa Cena deve, comunque, escludere tutto quello che potrebbe dare l’impressione di ripetizione o completamento del sacrificio sulla croce. Se la comprensione della Cena del Signore come vero memoriale viene costantemente presa sul serio, le differenze nella comprensione del sacrificio eucaristico sono accettabili per cattolici e luterani.Da notare il linguaggio di questo testo, che veicola, attraverso un abile uso dei termini, nuovi significati e corrispondenti atteggiamenti interiori.
Mi soffermo sul passaggio riguardante la separazione tra sacrificium e sacramentum. Non che il termine sacramento di per sé sia sbagliato; ma mentre la Santa Messa è la riattualizzazione incruenta del Sacrificio di Cristo e come tale di questo è anche Sacramento, separando artatamente il Sacrificio dal Sacramento si può arrivare a dire: le differenze nella comprensione del sacrificio eucaristico sono accettabili per cattolici e luterani.
È evidente poi la confusione tra Sacrificio di lode - che l'Eucaristia è - e Sacrificio di Espiazione (termine decisamente espunto da ogni formulazione post-conciliare), che essa non è da meno. L’offerta sacrificale di Gesù e la sua espressione sacramentale ricapitola e compie l’economia dell'Antico Testamento: è nello stesso tempo olocausto; sacrificio di comunione (alleanza) e di lode; kippur (offerta espiatrice). Tra i due Testamenti non c'è cesura ma superamento, perché l’offerta del Figlio è perfetta, così come universale è la sua efficacia.

C'è da notare, inoltre, nell'anamnesis, il rovesciamento del soggetto : piuttosto che l'actio di Cristo che ad ogni celebrazione si fa realmente presente, viene sottolineata la compresenza della "comunità celebrante" (mentre il vero celebrante è il Signore) agli "atti salvifici del culto" (l'atto è uno solo: l'offerta al Padre, da cui derivano tutte le grazie a partire dalla Redenzione espiatrice per culminare nella Risurrezione rigenerativa) e "a tutti coloro che li hanno sperimentati". Non che i fedeli singolarmente e comunitariamente non siano resi presenti con la partecipazione, ma scopo della celebrazione non è questo, che è piuttosto la conseguenza della presenza e dell'azione di Colui che ripresenta il suo fiat al Padre (vero scopo e fulcro del culto) consegnandolo alla Sua Chiesa fino alla fine dei tempi. E non che non ci sia, nella Comunione dei Santi, la compresenza della Chiesa di ieri di oggi e di domani ad ogni atto di culto. Ma espressi in quei termini, concetti così sublimi risultano fumosi e imprecisi.
Riprendo qui dalla Mediator Dei:
Cristo Signore, «sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec»  che, «avendo amato i suoi che erano nel mondo», «nell'ultima cena, nella notte in cui veniva tradito, per lasciare alla Chiesa sua sposa diletta un sacrificio visibile - come lo esige la natura degli uomini - che rappresentasse il sacrificio cruento, che una volta tanto doveva compiersi sulla Croce, e perché il suo ricordo restasse fino alla fine dei secoli, e ne venisse applicata la salutare virtù in remissione dei nostri quotidiani peccati, ...offrì a Dio Padre il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e ne diede agli Apostoli allora costituiti sacerdoti del Nuovo Testamento, perché sotto le stesse specie lo ricevessero, mentre ordinò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, di offrirlo».
L'augusto Sacrificio dell'altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. «Una... e identica è la vittima; egli medesimo, che adesso offre per ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l'offerta». 
Ed ora, senza mezzi termini si vuole abbracciare l'eresia protestante che sostituisce la riattualizzazione del Sacrificio di Cristo con un revival della Cena Pasquale. Cena e Sacrificio sono due cose diverse; così come ripetizione o revival e riattualizzazione sono due cose diverse. L'Eucaristia non ripete la Cena ma riattualizza il sacrificio del Calvario. Tutto il resto è eresia.

È vero che la Messa nasce nell'Ultima Cena, come ci viene ricordato anche dal papa. È lì l'istituzione dell'Eucaristia. Tuttavia essa non riproduce e non ricorda la Cena, ma ciò che il Signore ha compiuto e ci ha consegnato: è lì ch'Egli porta i Suoi direttamente sul Calvario, dove a breve si compirà il Sacrificio. Il che è desumibile anche dall'uso del futuro nella formula consacratoria effundetur = sarà versato - e non versato al participio passato -  riferito al Sangue già transustanziato da Gesù durante l' Ultima Cena, che non è solo un convivio (Cena Pasquale ebraica), ma trasporta appunto al Calvario, il luogo del Sacrificio del vero Agnello. È questo il Novum, l'inedito, che dobbiamo custodire e vivere e che rende possibile il riscatto e la risurrezione nobis e per i molti [sul 'pro multis' qui] che faranno questo in Sua memoria.

È questo che non è più significato pienamente nella liturgia, nella quale come segno più che eloquente, persino l'Altare è sostituito da una mensa mentre quel versato, usato al passato nella traduzione in lingua volgare, sembra narrare più che compiere.
Inoltre Gesù nella Cena non proclama la sua morte salvifica, la anticipa, introducendo a ciò che sta per compiersi sul Calvario e che rimane come eterno presente in ogni presente della storia della salvezza che è la nostra storia.

A questo punto siamo già perfino oltre quanto evidenziato sull'oltrepassamento della Mediator Dei da parte della Sacrosanctum Concilium [qui]. Francamente la situazione appare grave e poco recuperabile con chi non condivide le stesse coordinate fondamentali.

Per completezza si deve aggiungere che di recente il Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede Card. Gerhard Ludwig Müller, ha fatto dichiarazioni [qui] in relazione al fatto che fra qualche mese verrà celebrato il primo mezzo millennio dalla Riforma. Fra l’altro, il Pontefice si recherà in Svezia a ottobre prossimo per una commemorazione ecumenica insieme con i rappresentanti della Federazione Luterana mondiale e altre confessioni cristiane. Afferma il card. Müller:
“Noi cattolici non abbiamo nessuna ragione per celebrare il 31 ottobre 1517 la data che è considerata l’inizio della Riforma che avrebbe condotto alla rottura della cristianità occidentale”.
“Se siamo convinti che la divina rivelazione è custodita intera e immutata nella Scrittura e nella Tradizione, nella dottrina della Fede, nei sacramenti, nella costituzione gerarchica della Chiesa per diritto divino, fondato sul sacramento dei sacri ordini, non possiamo accettare che esistano ragioni sufficienti per separarsi dalla Chiesa”.
Il cardinale ricorda che molti esponenti della Riforma definirono il papa come Anticristo per “giustificare la separazione” dalla Chiesa cattolica.
Una voce sana in mezzo a tante altre dissonanti ampiamente ricordate sopra [qui l'indice ell'excursus dei nostri articoli per chi ha interesse ad approfondire].
Maria Guarini

[1] Romano Amerio, Iota unum, Lindau 2009, pag. 492
[2] Ibid, pag 491
[3] Brunero Gherardini, L’ecumene tradita, Fede e Cultura 2009, pag. 24
[4] Enrico Maria Radaelli, Il mistero della Sinagoga bendata, Effedieffe, Milano 2002
[5] Ibidem, pag. 98
[6] «In doctrina simpliciter falsa, veritas non est ut anima doctrinæ, sed serva erroris» (R. Garigou Lagrange, op, De Revelatione, Gabalda, Paris, 1921, II, p 436
[7] Il discorso è sviluppato e approfondito in questo Sito

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