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lunedì 5 agosto 2019

Vultum Dei quaerere, cercare il volto di Dio: è ancora lecito?

Purtroppo il nuovo documento Vultum Dei quaerere è la conferma dei timori da me espressi [qui] quando si cominciò a parlare di una “rifondazione” della vita religiosa, scoprendo che tra i cambiamenti rivoluzionari in atto, in un'intervista pubblicata da L'Osservatore Romano il 1 agosto 2014, il card. João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, affermava che Bergoglio lo aveva incaricato di rivedere la costituzione Sponsa Christi di Pio XII perché preconciliare (discorso collegato con quanto stava accadendo alle Francescane dell'Immacolata). 

Vultum Dei quaerere: una Costituzione apostolica per il “rinnovamento” della vita claustrale.

Porta la data del 29 giugno 2016 ed è stata resa nota, passando quasi inavvertita, il 22 luglio scorso, ma è destinata ad avere una profonda incidenza su quello stato di vita che rappresenta la punta di diamante della Chiesa, quella vocazione che nel Corpo mistico esprime e realizza nel modo più estremo e radicale l’amore per Dio, senza il quale – è santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Doctor Ecclesiae, ad affermarlo – gli Apostoli non avrebbero annunciato il Vangelo e i Martiri non avrebbero versato il loro sangue, in quanto esso solo spinge all’azione i membri della Chiesa.
La posta in gioco dal punto di vista soprannaturale (l’unico adeguato da cui valutare la reale portata delle decisioni ecclesiastiche) è quindi altissima.

Chi, suo malgrado, si è familiarizzato con l’ecclesialese post-conciliare fiuta subito nel testo idee, intenti e movenze tipici di quel “rinnovamento” della vita religiosa che, di fatto, ne ha provocato quasi ovunque la scandalosa decadenza, avendo avuto per effetto la sua riduzione ad un genere di vita piccolo-borghese che si differenzia dal corrispettivo secolare solo per una comoda esenzione dalla necessità di lavorare e di assumersi responsabilità effettive. Non è il caso di infierire, insistendo su quel che è diventata la pratica concreta dei voti: quello di povertà (che esclude il possesso non solo nominale, ma anche di fatto), quello di castità (che esige la continenza perfetta) e quello di obbedienza (che comporta la rinuncia alla propria volontà individuale).

Veniamo al documento in questione. Ci sia consentita, per cominciare, qualche osservazione di carattere generale, nella speranza che non suoni irriverente a motivo dell’esigenza di obiettività e di franchezza da cui scaturisce. Innanzitutto, la vita monastica sembra concepita in funzione di qualcos’altro (testimonianza, segno, profezia...), piuttosto che per Dio solo e poi, di riflesso, come esempio per gli altri e sorgente di fecondità apostolica. È forse tramontato, nella Chiesa, il primato assoluto di Dio, unica giustificazione legittima e plausibile delle vocazioni contemplative?
A partire da questa prospettiva distorta vengono date disposizioni spesso vaghe o astratte, miranti a risolvere problemi per lo più non reali, ma sollevati per ragioni di sapore ideologico, derivate da ideali irrealistici ed eventualmente idonee a far da copertura a intenti surrettizi.

Occorre altresì rilevare che le citazioni inserite nel testo (Scrittura, Padri, Magistero) sono spesso forzatamente piegate a conferma del discorso, di tono tipicamente modernista: siccome la vita claustrale è una sfida per il nostro tempo, bisogna cambiarla. Si fatica a comprendere la logica di tale tacito assunto, a meno che non si voglia snaturare la vocazione che fin dalle origini costituisce il più efficace antidoto contro la corruzione e l’intiepidimento del popolo cristiano. Il sospetto è confermato dall’insistenza del decreto sulla necessità di formazione permanente, collaborazione tra monasteri, appartenenza a federazioni: è difficile non pensare ad una volontà di ingerenza nella vita monastica e a un metodo di indottrinamento, visti i bei risultati prodotti sui religiosi in genere dallo studio della cattiva teologia e dall’influenza degli organismi associativi…

Per non rimanere nell’astratto, a mo’ di esemplificazione citiamo alcuni passi della Costituzione apostolica apponendovi rispettosamente delle correzioni sulla base dell’immutabile dottrina e prassi propria della tradizione cattolica.
Al paragrafo 3 si parla di ricerca sempre incompiuta di Dio: ciò è ammissibile solo a livello soggettivo, non a livello oggettivo, dato che la Rivelazione divina si è compiuta in Cristo. Al numero 4 si legge poi: «Le comunità di oranti, e in particolare quelle contemplative, […], non propongono una realizzazione più perfetta del Vangelo ma, attuando le esigenze del Battesimo, costituiscono un’istanza di discernimento e convocazione a servizio di tutta la Chiesa». La prima parte della proposizione, contenente la negazione, è in modo evidente falsa, dato che la vita religiosa è sempre stata considerata via di perfezione evangelica; la seconda parte (quella affermativa) è semplicemente incomprensibile.
§ 6: si evoca «l’unico Signore che offre pienezza alla nostra esistenza». Si intende solo la vita terrena? E la vita eterna? Et exspecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi!
§§ 7-8: rinnovamento adeguato alle mutate condizioni dei tempi; mutate condizioni socio-culturali: la perfezione evangelica non va bene a tutti i tempi e luoghi? Visto che gli attuali tempi e condizioni sono segnati dall’ateismo pratico di massa, i contemplativi dovrebbero forse adeguarsi ad esso?
§ 8: «Questo tempo ha visto un rapido progresso della storia umana: con essa è opportuno intessere un dialogo». Bisogna precisare di quale tipo di progresso si parli, dato che al progresso tecnologico non corrisponde un progresso morale. Ci chiediamo inoltre in che consista il dialogo con la storia, a meno che non si intenda ciò che la Chiesa ha sempre fatto: interpretare e giudicare eventi e processi storici alla luce del Vangelo.
§ 13: la configurazione al Signore Gesù è un obiettivo che si è sempre perseguito con l’ascesi, la preghiera e l’esercizio della carità, non anzitutto con la formazione intellettuale, che nelle suore suscita spesso, al contrario, accese ambizioni e rivendicazioni. Si auspica altresì un’integrazione delle dimensioni umana, culturale, spirituale e pastorale: quale sarebbe, di grazia, la dimensione pastorale della vita claustrale?
§ 15: si richiedono tra nove e dodici anni di formazione prima della professione definitiva. Ci vuole il dottorato per farsi suora di clausura? Non risulta che santa Teresa d’Avila avesse studiato a Salamanca, pur valendosi di dotti direttori spirituali.
§ 16: si mette in guardia dal ripiegamento su sé stessi. Ma può l’autentica vita contemplativa correre questo rischio? Non è piuttosto il modo più efficace, in senso soprannaturale, di sovvenire alle necessità della Chiesa e del mondo? Ignorato il dovere primario della lode di Dio, inoltre, si slitta subito sull’intercessione per le “periferie”…
§ 18: si richiede una «spiritualità che vi faccia diventare figlie del cielo e figlie della terra, discepole e missionarie». Figlie della terra le monache lo sono già per natura; non si è mai sentito, peraltro, che la spiritualità serva a diventarlo di più. Come, poi, diventare missionari in clausura, se non con l’intercessione ed eventualmente con l’irradiazione di una vita crocifissa che attiri le anime a Dio?
§ 20: ermeneutica esistenziale della Sacra Scrittura: è proprio quella che ha portato tanti cristiani e religiosi a ripiegarsi su di sé, respingendone l’interpretazione tradizionale e magisteriale.
§ 22: spezzare insieme il pane: non è il sacerdote che celebra la Messa? Che cosa “spezzano” gli altri? Bisogna seguire quel gesuita che ingiungeva ai fedeli di condividere l’ostia consacrata con il vicino? O allora l’Eucaristia è semplice “pane” e non il Corpo e Sangue di Cristo? «Nell’Eucaristia lo sguardo del cuore riconosce Gesù»: non era la fede teologale a riconoscerlo?
§ 25: mutua appartenenza: il consacrato, per definizione, appartiene a Dio solo.
§ 31: «La pluralità di modi di osservare la clausura all’interno di uno stesso Ordine deve essere considerata una ricchezza e non un impedimento alla comunione, armonizzando sensibilità diverse in una unità superiore. Tale comunione potrà concretizzarsi in diverse forme di incontro e di collaborazione, soprattutto nella formazione permanente e iniziale». È uno dei punti più sovversivi. Le diverse forme di incontro e collaborazione comportano di fatto la fine della clausura stretta. In che cosa consiste poi l’unità superiore in cui si armonizzano sensibilità diverse? Cosa bisogna fare, concretamente, se nello stesso Ordine non vige la medesima prassi, in barba alla Regola e alle Costituzioni? Non si tratta di idee, ma di diverse scelte di vita e dei frutti che ne conseguono.
§ 32: occorre «trovare un rapporto equilibrato tra la tensione verso l’Assoluto e l’impegno nelle responsabilità quotidiane, tra la quiete della contemplazione e l’alacrità nel servizio». I monaci non sono forse tesi verso l’Assoluto in ogni istante e non praticano la contemplazione anche nel lavoro? C’è forse opposizione tra i due aspetti della loro vita? Si avverte un’insufficiente comprensione della contemplazione e una visione materialistica del lavoro.
§ 35: tutti i mezzi che la Chiesa propone per il dominio di sé e la purificazione del cuore: sarebbe interessante sapere quali sono e quando oggi la Chiesa li propone. «L’ascesi è anche mezzo per prendere contatto con la propria debolezza»: non era un mezzo per superarla? Basta l’esperienza quotidiana dei propri peccati per prendere abbondantemente contatto con essa…
§ 36: partecipazione alla costruzione di un mondo più umano e quindi anche più evangelico. Lo scopo della vita contemplativa è celeste, come quello di tutta la Chiesa: preparare la Gerusalemme di lassù. Inoltre, basta che il mondo sia più umano perché sia anche più evangelico?
La Conclusione dispositiva del documento (ossia la parte che dovrebbe contenere le disposizioni di legge) suona per molti versi incomprensibile e risulta inapplicabile sul piano giuridico. Esempi:
Art. 1: non è affatto chiaro quali siano i canoni del Codice che rimangono derogati in quanto risultano direttamente contrari a qualsiasi articolo della presente Costituzione. Inoltre la deroga agli Statuti generali delle monache stabiliti da Pio XII (deroga che è di fatto un’abrogazione) tocca l’essenza stessa della vita claustrale, in quanto essi riguardano la rigida disciplina regolare, la legittima autonomia dei monasteri e i diversi tipi di clausura in relazione alla professione semplice o solenne.
Art. 4: come si fa a valutare se il Signore è il centro della giornata e se le celebrazioni comunitarie sono incontro vivo con Lui? Esiste un criterio applicabile dall’esterno? E, nel caso, quale sarebbe?
Art. 7: le superiore, oltre a curare la propria formazione, devono essere «guidate da un reale spirito di fraternità e di servizio, per favorire un clima gioioso di libertà e di responsabilità». Lo “spirito” con cui si fa qualcosa è oggetto del diritto? Come si verifica questo? Inoltre: la vita monastica non si fonda forse sull’obbedienza?
Art. 8: i requisiti per una reale autonomia di vita di un monastero indicati nel testo sono vaghi e privi di rilevanza giuridica; sono pertanto inadeguati rispetto al fine di «mettere in atto un processo di accompagnamento per una rivitalizzazione del monastero, oppure per avviarne la chiusura». La preoccupazione espressa ha lo stesso sapore della sollecitudine per la rimozione di vescovi che non avrebbero preso provvedimenti sufficienti nei casi di pedofilia nel clero.
Art. 9: «Inizialmente tutti i monasteri dovranno far parte di una federazione». La costituzione di federazioni, solo raccomandata da Pio XII (Cost. Ap. Sponsa Christi [21 novembre 1950], art. 7), sembra resa obbligatoria, almeno inizialmente: cioè fino a quando? Arrivato l’ipotetico termine, un monastero ne può fuoriuscire? Le confederazioni di diversi Ordini, invece, vanno solo favorite.
Art. 10: «Ogni monastero […] chieda alla Santa Sede quale forma di clausura vuole abbracciare, qualora si richieda una forma diversa da quella vigente». È il punto più rivoluzionario: si introduce surrettiziamente il principio che un monastero possa cambiare tipo di clausura, pur «rispettando la propria tradizione e quanto esigono le Costituzioni». Oltre questa contraddizione latente, non è chiaro chi e come possa decidere il cambiamento, mentre è del tutto illogico chiedere ad un’istanza superiore che cosa si vuole fare (a meno che non sia la Santa Sede stessa a dover abbracciare la clausura…).
Art. 13: «Ogni monastero preveda nel suo progetto comunitario i mezzi idonei attraverso i quali si esprime l’impegno ascetico della vita monastica». Tali mezzi sono già previsti dalla tradizione; basta ricuperarla, senza alcun bisogno di elaborare farraginosi progetti comunitari.
In sintesi, è del tutto assente la prospettiva dei diritti di Dio e del servizio disinteressato che Gli è incondizionatamente dovuto. Manca altresì una chiara distinzione tra il livello giuridico e quello spirituale, tra il foro esterno e il foro interno, che assicura la libertà interiore di un religioso. Le disposizioni hanno generalmente un carattere non pertinente ad un testo legislativo, il quale, non essendo una predica né un fervorino, deve contenere unicamente norme applicabili e verificabili nella prassi. 
Le uniche disposizioni concrete toccano la formazione, la clausura e l’autonomia dei monasteri, ciò che fa fiutare un intento dissimulato di manipolazione, destrutturazione e controllo. Dato che la vita claustrale femminile gode di buona salute, generalmente, solo nei monasteri sui iuris di tendenza tradizionale, è difficile rimuovere il sospetto che li si voglia “normalizzare”, ossia appiattire sul desolante scenario dell’odierna vita consacrata e piegare a quella visione illuministica che la ammette soltanto in funzione di scopi sociali e umanitari.

Idee vecchie di quasi tre secoli; il nuovo, in realtà, è nel ritorno all’antico. Non per nulla i monasteri e i conventi di più rigida osservanza rigurgitano di vocazioni, senza bisogno di pseudo-spiegazioni psicologizzanti.
Com’è tristemente noto, però, gli istituti che non si adeguano ai capricci del regime sono condannati, uno dopo l’altro, al rullo compressore del commissariamento.

Ma anche questa tempesta passerà e tutti gli aguzzini, uno dopo l’altro, dovranno presentarsi al giudizio divino. Chi invece, come ai tempi della rivoluzione francese, avrà perseverato nonostante e contro tutto potrà crescere in santità e ricevere la ricompensa dei fedeli servitori e amici di Dio.
29 agosto 2016

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