Pagine di rilievo

domenica 27 dicembre 2020

La falsa dignità. Riflessioni su un volume che demolisce l’equivoca ideologia della “dignità dell’uomo”.

Paolo Pasqualucci si era accinto a recensire il libro La dignité humaine. Heurs et malheurs d’un concept maltraité. Sous la direction de Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Ed. Pierre-Guillaume de Roux, 2020. L'impresa, strada facendo, si è rivelata più impegnativa del previsto e il risultato è un lavoro di circa 300 pagine. Ne pubblico l'inizio e la fine, per agevolarne la presa d'atto: le parti qui riprese danno già un'idea chiara e netta della tematica. Dunque di seguito trovate: Titolo e Sommario, molto denso + Introduzione (con un importante brano di Kant incluso e relativo commento critico) + Conclusione e relative note.
Per chi vuole approfondire aggiungo il testo integrale in pdf consultabile e/o scaricabile qui.

Paolo Pasqualucci
La falsa dignità. Riflessioni su un volume che demolisce l’equivoca ideologia della “dignità dell’uomo”.

S o m m a r i o : 1. Introduzione: i cinque temi oggetto del presente saggio. 2. La dignità della persona: qualità da intendersi sempre in rapporto alla nostra natura razionale. 2.1 La dignità dell’uomo fondata sulla libera scelta razionale per “aspirare alle cose celesti”: Pico della Mirandola e Giannozzo Manetti. 3. La dignità umana secondo la teologia cattolica ortodossa. 4. La “mutazione” della nozione cattolica di “dignità dell’uomo” provocata dal cattolicesimo liberale e dall’americanismo --- Maritain e Murray SI: 4.1 La percezione della decadenza della Nazione, nella Francia del Primo Dopoguerra. 4.2 La sagra degli umanesimi fabbricati a tavolino, da quello “integrale” di Maritain a quello “marxista”, costruito sui manoscritti giovanili di Marx, scoperti negli anni Trenta. 4.3 L’indebita esaltazione della “antropologia” marxiana. 4.4 Il mito dell’ideologia marxista capace di costituire il rimedio per “l’alienazione” dello homo oeconomicus della società citalista. 5. John C. Murray SI innesta sull’ errore “americanista” l’umanesimo integrale ovvero la democrazia “personalista” di tipo americano. 6. Il “clericalismo” emerso dal Concilio Vaticano II ha propugnato l’idea non cattolica di uno Stato neutrale rispetto ai valori fondamentali, in nome della “dignità dell’uomo”: 6.1 Lo Stato fascista più cattolico della laica Repubblica democratica, largamente condivisa dalle forze cattoliche: l’educazione di massa della gioventù dal “culto della Patria” al “culto della Persona” al tracollo del Sessantotto; 6.2 L’ambiguo compromesso del Concilio con il principio laico della coscienza unica fonte della moralità: 6.2.1 La contraddizione dell’art. 16 di ‘Gaudium et spes’, che fa affiorare un concetto evolutivo della verità, la cui ricerca è condizionata dal rispetto della “dignità umana” intesa come valore assoluto. 6.2.2 Applicazioni nei testi stessi del Concilio del concetto della verità come ricerca della verità. 7. Come l’idea della “dignità dell’uomo”, diventata il valore supremo nei sistemi giuridici occidentale, sia stata applicata in modo anomalo e si sia rivelata inane nella difesa dei princìpi etici fondamentali, venendo anzi usata per distruggerli. 8. Conclusione: la dignità non appartiene all’essenza, all’essere dell’uomo ma al suo m o d o di essere --- è una qualità del nostro comportamento, che ci merita rispetto quando è d e g n o della nostra natura razionale, rimproveri e disprezzo quando i n d e g n o .
1. Introduzione: i cinque temi oggetto del presente saggio.
Che la “dignità dell’uomo” sia ridotta oggi ad uno pseudo-concetto buono a tutti gli usi, si ricava senza ombra di dubbio dalle precise e sottili analisi contenute in questo recentissimo, denso volume collettaneo apparso recentemente in francese: La dignità dell’ uomo. Fatti e misfatti di un concetto bistrattato.[1] Il volume contiene sette saggi, preceduti da una Presentazione e seguiti da una Conclusione generale, entrambe ad opera dei tre curatori.

Nella Presentazione, dopo aver ricordato che “la dignità dell’ uomo o della persona umana” è diventata concetto che gode, dalla fine della II g.m., di un consenso addirittura “debordante”, essi rilevano in primo luogo che tale concetto si è originato sia “dalla filosofia d’ ispirazione greco-latina che dalla teologia cristiana”. Tuttavia, nel senso nel quale è laicamente inteso oggi “non designa la medesima realtà del suo antesignano”. Si deve anzi dire che il rapporto tra “dignità in senso moderno” e “dignità in senso cristiano” è diventato “equivoco” perché inteso come se esprimesse per entrambi un identico giudizio di valore. Infatti, dopo il Concilio Vaticano II è sembrato che la Chiesa e il mondo laico parlassero lo stesso linguaggio, proprio a causa dell’ uso in comune di termini quali “dignità dell’ uomo”. Ciò ha realizzato gli auspici e gli sforzi di intellettuali cattolici dal taglio fortemente liberale come Jacques Maritain e il gesuita americano John Courtney Murray, per citare i più rappresentativi. Ci troviamo in realtà di fronte ad un equivoco che occorre dissipare, anche perché l’evoluzione stessa della modernità (in realtà – postillo – la sua discesa nel nichilismo radicale) è stata tale da “render caduchi i tentativi di conciliazione” tra il Sacro e il Profano. Per “uscire dalla confusione” occorre quindi per prima cosa “tornare alle fonti originarie”.[2]

Ciò permetterà di ristabilire la differenza tra il concetto classico e cristiano della dignità umana e quello moderno, primo indispensabile passo per poter ricostruire il concetto stesso su fondamenti sicuri e veritieri. Il volume è diviso in tre parti. Nella prima, intitolata Stato della questione, si espone la nozione classica della dignità, “anteriore alla ‘rivoluzione copernicana’ attuata dalla filosofia moderna, in particolare nella sua formulazione kantiana, tuttora prevalente, anche se la maggioranza non se ne serve per accettare la rivoluzione stessa” (cap. 1, prof. Sylvain Luquet). Si completa poi il quadro ponendosi dal punto di vista della teologia cattolica, “vera chiave di lettura della nozione, sia nella sua accezione classica che in quella moderna” (cap. 2, prof. R.P. Serafino Lanzetta). Un terzo capitolo riflette sinteticamente sulla storia moderna della nozione (cap. 3, prof. Guilhem Golfin).[3]

La seconda parte si intitola Il moltiplicatore cattolico ed è dedicata alla “mutazione” fatta fare alla nozione cattolica di dignità della persona dalle correnti di pensiero personaliste e “americaniste”, rappresentate in particolare da Maritain e J. C. Murray SI: Mutazione della nozione di dignità nel cattolicesimo del XX secolo: il ruolo particolare di Jacques Maritain (cap. 4, prof. Jon Kirwan); Mutazione nella nozione di dignità nel cattolicesimo del XX secolo: l’influenza di John Courtney Murray (cap. 5, prof. Julio Alvear Télles).[4]

La terza parte infine si intitola Aporie di un concetto incerto. Consta anch’ essa di due saggi che mettono efficacemente in rilievo le “contraddizioni e le variazioni” nelle quali si è impantanata oggi l’ invocazione della dignità umana, sia nel discorso ecclesiale che nella normativa giuridica statuale: Modernità e ‘ clericalismo’ : metodologia di una disfatta (cap. 6, prof. Danilo Castellano); La dignità nel diritto positivo: una nozione strumentalizzata (cap. 7, prof. Nicolas Huten).[5]   Segue la “conclusione generale”, nella quale si tirano le somme, proponendo i criteri per una “giusta comprensione della dignità umana”, nozione che deve essere ricostruita, non gettata alle ortiche, come pretenderebbe qualcuno, o perché stanco della confusione che attualmente la circonda o perché, all’opposto, insofferente della pur minima tutela dei più deboli che a volte tale principio riesce ad esercitare (vedi infra, § 8). La “giusta comprensione”, concludono gli autori, è comunque quella che sia capace di ricondurre il principio della “dignità dell’uomo” nell’alveo della autentica nozione cristiana dello stesso.

Approfondirò tre aspetti del tema principale, seguiti da due excursus sul contributo del Concilio alla deriva personalista e sul rapporto tra fascismo e cattolicesimo: 
  1. la differenza, al momento smarrita, tra la concezione autenticamente cattolica della “dignità dell’uomo” e quella laico-democratica attualmente dominante;
  2. La “mutazione” della nozione cattolica di “dignità dell’uomo” causata dal cattolicesimo liberale e dall’americanismo, ovvero il ruolo negativo svolto da Maritain e P. Murray SI. Si tratta di prospettive che credo poco note al pubblico più vasto, particolarmente in Italia.
  3. La “strumentalizzazione” del concetto nel diritto positivo ovvero il suo mancato o improprio uso, in ossequio al “politicamente corretto” dominante, in relazione appunto al principio della “dignità dell’uomo”.
  4. Il compromesso della dottrina della Chiesa con il mondo, la sua secolarizzazione all’insegna di un concetto evolutivo della verità, funzionale alla “dignità dell’uomo” laico-democratica e tipico del pensiero moderno, penetrato nei testi del Vaticano II (§ 6).
  5. Il fatto singolare che lo Stato fascista sia stato formalmente più cattolico della laica Repubblica italiana e abbia tentato di integrare il cattolicesimo nel suo bellicoso culto della Nazione, in particolare mediante l’educazione “totalitaria” della gioventù, alla quale è seguita, dopo la II g.m., l’educazione di massa nell’Azione cattolica, ma all’insegna di un universalismo inquinato dal personalismo di Maritain, con il suo visionario e astratto culto della dignità della persona, naufragata infine l’educazione cattolica (al pari di quella laica) nella rivoluzione studentesca del Sessantotto, data di inizio del tracollo della scuola in Occidente e della stessa gioventù (§ 6.1). 
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La concezione kantiana della dignità dell’uomo, risultato di una visione etica costruita sul razionalistico imperativo categorico, viene giustamente anche se sinteticamente criticata più volte nel volume. La libertà, per Kant, si realizza soprattutto quando si obbedisce alla legge che ci si è prescritta, quale è appunto la legge della ragione che ci impone di obbedire all’imperativo categorico, il cui comando ci ordina di compiere una determinata azione unicamente perché buona in sé. L’idea che l’uomo, in quanto essere razionale, debba obbedire solamente alla legge che si è prescritta lui stesso, viene tuttavia a Kant da Jean-Jacques Rousseau, che la applica nella sfera politica, nel costruire il modello di uno Stato fondato sul Patto di tutti con tutti, in posizione di assoluta uguaglianza (il Contratto Sociale), e in quella etica, grazie alla coscienza che saprebbe individualmente tradurre nell’osservanza del dovere e della legge morale naturale i sentimenti buoni che l’Essere Supremo avrebbe allocato in ciascuno di noi, immune (si ritiene) dal peccato originale. Non viene dato particolare rilievo in questo volume al ruolo svolto da Rousseau nell’edificazione di un’idea di dignità dell’uomo fondata sulla libera e razionale volontà del soggetto, ragion per cui la vera sua dignità risulterebbe dall’obbedire liberamente alla legge che egli stesso si è prescritta. 

Sia Rousseau che Kant esaltarono l’uomo come libera volontà e cercarono di fondare l’etica in modo da poter prescindere dalla Rivelazione, ossia dal Cristianesimo e, in verità, da ogni prospettiva trascendente, autenticamente religiosa. Ma entrambi, uno di formazione calvinista l’altro luterana, finirono per far dipendere la legge morale dall’intuizione della coscienza individuale, eletta a “giudice infallibile” del vero e del giusto emananti dall’ineffabile Essere Supremo (Rousseau) o dal comando di una ragione, la cui imperatività in campo etico presuppone l’esistenza di Dio quale garante o fondamento di validità di quest’etica: un Dio-idea della ragione, sulla cui effettiva esistenza la ragione però nulla è in grado di dire (agnosticismo kantiano, che inficia la sua costruzione etica).

In un testo dell’ultimo e incompiuto lavoro di Kant il suo agnosticismo emerge con estrema chiarezza. “Un essere che ha potere illimitato su natura e libertà sotto leggi razionali è Dio. Dio, dunque, per il suo concetto è un essere non semplicemente naturale, ma anche morale. Considerato soltanto sotto la prima delle due qualità è creatore del mondo (demiurgus), e onnipotente; sotto la seconda, santo (adorabilis); e tutti i doveri umani sono, al tempo stesso, suoi comandi. Egli è ens summum, summa intelligentia, summum bonum.

Frattanto se quest’idea, prodotto della nostra propria ragione, abbia realtà o sia semplicemente un ente di ragione (ens rationis), par essere ancora un problema; e a noi non rimane che il rapporto morale con codesto soggetto, che è semplicemente problematico, e che lascia sussistere soltanto la formula della conoscenza di tutti i doveri umani come (tanquam) comandi divini, quando l’imperativo categorico del dovere fa risuonare la sua ferrea voce tra tutti gli allettamenti di sirena degli stimoli sensibili, o anche tra i timori che ci minacciano.[6]”

La ragione deve dunque ammettere la legittimità dell’idea di Dio come “ente di ragione”. Non potendo secondo Kant dimostrarne l’esistenza, deve ammettere tuttavia che il “rapporto morale”, l’obbedienza ai comandi dell’imperativo categorico, che ci ordina un’azione perché buona in sé, si giustifica in ultima analisi solo sulla base dell’idea di Dio come garante e in sostanza come se fosse l’ autore di questo rapporto. Ma, osservo, l’idea di questo Dio come garante della morale deve ammettere l’esistenza di Dio e non limitarsi alla pensabilità della sua legittimità in quanto idea, dato che non si comprende come possa essere il fondamento dell’imperativo categorico un Dio che esiste solo come idea della nostra mente ossia unicamente nella nostra mente e quindi come realtà spirituale che è solo umana, allo stesso modo di una qualsiasi rappresentazione della nostra mente. Se siamo costretti ad ammettere che l’idea di Dio come garante della morale implica l’esistenza effettiva di questo Dio, altrimenti non si avrebbe nessuna garanzia concreta in atto, non si vede allora perché questo Dio che esiste effettivamente per garantire la nostra dimensione morale non possa esistere anche come Dio creatore, di noi stessi, del mondo, dell’universo. Se siamo costretti ad ammettere che Dio esiste come autore della nostra dimensione etica, del tutto spirituale, non possiamo separare questo suo predicato da quello dell’onnipotenza, qualità che implica l’ammissione dell’esistenza di un Dio creatore del mondo e dell’uomo, in tutte le sue caratteristiche. La garanzia divina del nostro comportamento morale, esercitandosi in un’azione ineffabile e invisibile, può esser solo il risultato di un operare sovrannaturale di Dio, rinviabile quindi alla sua onnipotenza, caratteristica della sola natura divina e non della natura in senso stretto, tantomeno umana. Ma l’onnipotenza che agisca effettivamente nella nostra mente può esser solo quella di un ente che ha effettiva realtà (sovrannaturale) fuori di noi.

Né Rousseau né Kant individuano la dignità dell’uomo nell’ uomo in quanto tale, alla maniera della Dichiarazione universale dei diritti umani, avutasi nell’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948, a San Francisco --- “art. 1 tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali in dignità e diritti” ---, cioè a prescindere dalla qualità della sua humanitas, come se si potesse togliere al concetto della nostra dignità la caratteristica di essere un valore confermato o negato dalle nostre azioni; come se si potesse ridurla a una nozione solo descrittiva, da attribuirsi a ciascuno di noi per il solo fatto di essere uomini, a prescindere da come ci comportiamo. Anch’essi, come i loro predecessori umanisti, vedono nella libera volontà razionale del soggetto, nella quale si riflette il divino, il modo di essere nel quale si manifesta autenticamente l’umano : tuttavia, il deismo dell’uno e l’agnosticismo dell’altro fanno naufragare la dignità dell’uomo nel sentimentalismo della coscienza narcisisticamente ripiegata su se stessa o nel volontarismo di una ragion pratica priva di un vero ubi consistam trascendente. 

Ma l’approfondimento che questo tema, a mio avviso, meriterebbe, proprio come esempio emblematico sia del fascino che del fallimento del tentativo, tra i più rigorosi, di fondare la morale unicamente sulla presa di coscienza e sulla autocoscienza razionale dell’ individuo scioltosi dal trascendente rappresentato dalla Rivelazione, ci porterebbe troppo lontano. Mi dedicherò, quindi, soprattutto all’analisi dei temi sopra indicati, di per se stessi già piuttosto corposi, come si suol dire. [7]

In relazione alla presente, infinita e sempre grave crisi della Chiesa cattolica, mi sembra necessario e doveroso cercare di render in primo luogo coscienti i fedeli, ignari e frastornati, della differenza tra il concetto classico-cristiano della dignità e quello contemporaneo, antropocentrico, sostanzialmente contraddittorio nelle sue applicazioni, che sfortunatamente sembra di frequente (anche se non sempre) condiviso dalla Gerarchia cattolica attuale, a partire dal Vaticano II. Infatti, vediamo la Gerarchia propugnare in nome della dignità dell’uomo una “libertà religiosa” del tutto simile a quella adottata dal Secolo, fondata sull’indifferenza quanto al contenuto di verità delle singole religioni perché ostile per principio al concetto stesso di Verità Rivelata, di origine divina, e organica ad una concezione sincretistica delle religioni, intese come strumenti per realizzare l’utopia insensata dell’unità del genere umano. Inoltre, ci accorgiamo che in nome della “ dignità della persona” si invocano oggi cose tra loro radicalmente opposte come la luce alle tenebre, quali la tutela della vita dell’ embrione (nel quale è già contenuto tutto l’essere umano come realtà vivente dotata di una sua forma specifica), da parte della Chiesa, di contro al preteso “diritto” della madre di abortire liberamente ossia di agire in totale spregio di quella tutela, sostenuto a spada tratta dal fronte femminista, omosessualista, laicista in generale e avallato, in Occidente, dal diritto positivo delle torbide democrazie di massa attuali. La “libertà” della madre invocata, in nome della sua “dignità” di essere umano contro quella del nascituro, per autorizzarla a farlo abortire, cioè a sopprimerlo! Di fronte a queste allucinanti antitesi, cosa dobbiamo pensare? Che abbiamo a che fare con un concetto valido di “dignità dell’ uomo” in quanto persona o non piuttosto con uno pseudo-concetto perché nozione incapace di ridurre ad unità gli elementi contrapposti ed inconciliabili che vuol ricomprendere? I modi contraddittori, incoerenti, parziali e persino aberranti nei quali è utilizzato oggi il principio della “dignità dell’ uomo” nei vari ordinamenti giuridici occidentali, sono messi analiticamente in luce in particolare nel saggio costituente il cap. 7 dell’ opera, del prof. Nicolas Huter (vedi infra). Ma vediamo come gli Autori ci rispiegano il vero concetto della “dignità dell’ uomo”, muovendo innanzitutto dalla sua origine nel pensiero classico. 
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1. La dignité humaine. Heurs et malheurs d’un concept maltraité. Sous la direction de Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Ed. Pierre-Guillaume de Roux, 2020, 41, rue de Richelieu – 75001 Paris, www.pgderoux.fr, pp. 203, 24 €. Bernard Dumont è il direttore di Catholica, prestigioso trimestrale francese di analisi politica, religiosa, letteraria, estetica, non allineato al “politicamente corretto” dominante; M. Ayuso è professore di diritto costituzionale all’ università pontificia Comillas di Madrid; D. Castellano è professore emerito di filosofia del diritto all’ Università di Udine.
2. La dignitè humaine, pp. 7-8. Una breve recensione di questo volume è apparsa sul numero 147 di Catholica, Printemps 2020, alle pp. 80-90, intitolata: Sur la dignité humaine, ad opera di Cyrille Dounot, professore di storia del diritto e delle istituzioni all’Università di Clermont, in Alvernia, Francia. 
3. Op. cit., p. 9. Sylvain Luquet, La dignité humaine dans la philosophie classique; R.P. Serafino Maria Lanzetta, Mérite et dignité dans la théologie catholique, dans sa continuité et son approfondissement; prof. Guilhelm Golfin, Narcisse sans visage. Le concept de dignité chez les auteurs philosophiques modernes, et son évolution, de Locke, Kant et Hegel jusqu’à nous. 4. Op. cit., p. 10. Jon Kirwan, Mutation de la notion de dignité au sein du catholicisme du XXe siècle: le rôle particulier de Jacques Maritain; Julio Alvear Télles, Mutation de la notion de dignité au sein du catholicisme du XXe siècle: l’influence de John Courtney Murray.
5. Op. cit., ivi. Danilo Castellano, Modernité et “cléricalisme” : méthodologie d’ une défaite; Nicolas Huten, La dignité en droit positif : une notion instrumentalisée.
6. Immanuel Kant, Opus postumum, tr. it. e Introduzione di Vittorio Mathieu, Laterza, Bari, 20042, p. 310. L’opera, inizialmente pubblicata da Zanichelli nel 1963, raccoglie una scelta di diverse redazioni dell’ultima e incompiuta opera di Kant, intitolata: Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica. Nell’edizione delle opere complete di Kant dell’Accademia Prussiana delle Scienze, queste molteplici redazioni occupano due volumi per un totale di 1470 pagine (op. cit., Introduzione, p. 3). 
7. Recentemente è stato autorevolmente riproposto il tentativo di conciliare la kantiana “religione entro i limiti della ragione” con il cristianesimo: Marcello Pera, “Critica della ragion secolare”. La modernità e il cristianesimo di Kant, Le Lettere, Firenze, 2020, pp. 200 (www.lelettere.it). Leggo dalla pubblicità al libro sul trimestrale ‘Nuova Storia Contemporanea’ – Seconda Serie, 3, sett.-dic. 2019, p. 268: “Filosofo cristiano e di profonda fede cristiana”, Kant “tramite la sua interpretazione morale del cristianesimo, si impegnò a provare che fra la ragione e la Scrittura non vi è solamente compatibilità ma unione”. Non ho potuto leggere quest’opera, la segnalo quale recentissima manifestazione di una tendenza colta, quella di un cristianesimo “razionale” accentuante il momento etico, da preservare nonostante la barbarie che sale da ogni lato ormai, che mi sembra meritevole di attenzione, pur non potendone condividere il razionalismo. Secondo me, già usare il termine “cristiano”, venuto di moda dopo il Vaticano II al posto di “cattolico”, dà luogo ad equivoci. Non esistono più da secoli i cristiani tout court: essi sono o cattolici, o luterani, o calvinisti, “ortodossi”, etc. E tra di essi, dal punto di vista dottrinale, non v’è uguaglianza per un vero cattolico, essendo tutti gli altri settatori di scismi ed eresie, nonostante gli elementi in comune conservatisi. 

[...]
8. Conclusione : la dignità non appartiene all’essenza, all’essere dell’uomo ma al suo m o d o di essere --- è una qualità del nostro comportamento, che ci merita rispetto quando è d e g n o della nostra natura razionale, disprezzo e rimprovero quando i n d e g n o . 
Dalla precisa analisi del prof. Huten emerge dunque questo dato sconcertante: 
non solo il principio della dignità si è rivelato incapace di difendere gli autentici valori imponendone il rispetto nella protezione dei deboli ed innocenti; esso ha contribuito alla loro distruzione, avendolo legislatori e Corti usato per legittimare, dal “diritto” ad abortire liberamente in poi, praticamente tutte le deviazioni che stanno dissolvendo il vero matrimonio e ogni etica degna di questo nome.

Che dire di fronte a questa catastrofe?

Nella Conclusion générale del volume, i tre co-autori riprendono, come d’uso, alcuni tra gli spunti offerti dai saggi ivi raccolti, arricchendoli di puntuali sottolineature. Essi invitano a tener ben fermo, innanzitutto, il paradosso che affligge il concetto odierno della dignità dell’uomo:

“Dopo la II g.m. il termine ha invaso il discorso politico, sociale, religioso: ma esso perde ogni significato universale nella misura in cui si cerca di precisarlo.” Tant’è vero che alcuni pensatori propongono di abolirlo, se non lo si “rivisita dai fondamenti”.[246] Di questa situazione apparentemente paradossale, essi ribadiscono giustamente che la responsabilità ricade interamente sul pensiero moderno, sulla sua svolta antropologica, grazie alla quale “l’essere umano non è più definito come immagine del suo Creatore e come essere in possesso della ragione – guida, a sua volta, d’una volontà che lo conduce liberamente di bene in bene verso il Bene ultimo – ma grazie ad una “libertà” fondata sulla dissociazione [déliaison] tra ragione e volontà, sulla ripulsa di ogni soggezione imposta a quest’ultima, sulla sua non-determinazione più assoluta [all’obbedienza].”[247] Non c’è quindi da stupirsi se la definizione della dignità umana di tipo universalista delle Dichiarazioni del 1948, non priva peraltro di ambiguità, come si è visto, e del tutto insufficiente dal punto di vista filosofico, si sia alla fine dissolta in una prassi legislativa e giurisprudenziale “radicalmente soggettivistica”, che di fatto soddisfa i gruppi di potere e gli interessi meglio organizzati e più aggressivi.[248]

Il soggettivismo è la cattiva impostazione filosofica che fa da sfondo a questo regresso nelle leggi e nella giurisprudenza delle Alte Corti. La Conclusione generale ne riassume il principio di base: “nella modernità tardiva, si ritiene buono ciò che io decido esser buono, non si saprebbe che farsene di un giudizio mirante alla verità”.[249] Aggiungo: si tratta appunto di quel concetto della verità come verità dipendente dalla vita sempre in evoluzione, tipico della filosofia dell’azione e dell’esistenzialismo, ma affermatosi di fatto anche nelle concezioni del diritto del primo Novecento con le teorie di taglio sociologico sul “diritto vivente” da contrapporsi al rigido diritto creato dal legislatore; sul diritto che è in primis “esperienza giuridica” plasmata soprattutto dal giudice, come sostenevano i paladini, in gran parte austro-tedeschi, del “movimento del diritto libero” (Freirechtsbewegung). Questa concezione della verità, basata soprattutto sull’esperienza e sulla ricerca, lo si è visto, e in definitiva sull’esperienza della ricerca, da attuarsi anche in comunione con l’intero genere umano, è penetrata anche nell’insegnamento della Chiesa “riformata” dal Concilio (vedi supra § 6.2.1). Tale impostazione finisce col far dipendere ogni verità dall’opinione del soggetto pensante, dall’ Io, venendo per forza di cose ad essere la coscienza del soggetto (il pensiero nella forma della coscienza di sé) l’unico organo capace di cogliere la supposta, continua evoluzione della realtà intesa come fluente ed indeterminata v i t a .

In questo senso il soggettivismo contemporaneo è stato anticipato da Nietzsche, se rileggiamo un suo noto aforisma, nel quale il concetto della legge si dissolve in quello della “mia natura” individuale, l’unica che può stabilire il giusto e l’ingiusto : “nessuna legge può essere sacra per me, se non quella della mia natura; giusto è solo ciò che è in armonia con la mia natura, ingiusto ciò che è contro di essa.”[251] E possiamo dire che l’attuale ideologia della dignità umana si muova nel solco tracciato da Nietzsche, dal momento che, come ha sottolineato il prof. Giovanni Turco, filosofo del diritto, finisce col ridursi ad una pura “autodeterminazione della personalità” che equivale ad una sua “autodistruzione”, in quanto vissuta solo “nell’istante particolare”, quello del momento in cui la nostra volontà si determina ad agire facendo leva unicamente su di sé; occasionalisticamente, vorrei aggiungere, ovvero secondo l’istanza del caso concreto via via mutevole e vario.[252]

La Conclusione generale si interroga, in particolare, sui motivi che possono aver indotto la Chiesa ad adeguarsi “ad una costruzione del pensiero moderno così povera e pericolosa [per la fede]”. Le approfondite analisi cui sono stati sottoposti Maritain, Murray SI, il “clericalismo”(vedi supra) offrono ricco e abbondante materiale dal quale si ricava, in conclusione, che la caduta nella trappola del moderno non si può spiegare solo con l’influenza dell’ambiente, che pur spingeva a soluzioni di compromesso con la filosofia profana. Quest’influenza c’è stata ma il fattore determinante l’ha rappresentato l’azione individuale eversiva di pensatori come Maritain o come Murray, che hanno entrambi creato un modello “ambiguo” di cristianità, adatto appunto al compromesso con i valori del Secolo. Un modello basato sull’equivoco dell’esistenza di “valori comuni”, quali la dignità dell’uomo, tra il cattolicesimo e il Secolo, quando siffatti valori, come è stato dimostrato, non erano e non potevano affatto essere “comuni”.[253]

Maritain, lo si è visto, credeva di poter proporre una “nuova cristianità”, capace di dar vita in forma “profana” ad una versione “analogica” della cristianità “sacrale”. Ma, ribadisce con nettezza la Conclusione, la cristianità “nuova” di Maritain “non è analogica, è equivoca, perché senza un nesso obiettivo con la realtà, trattandosi di una cristianità senza Cristo”. È, osservo, la “cristianità senza Cristo”[254], perché del dialogo con tutte le altre religioni, che sta devastando la Chiesa dal Concilio in poi. L’americanismo, ripreso dal P. Murray e introdotto nell’insegnamento della Chiesa, ha creato l’altro grave fraintendimento di far alla fine ritenere valori cristiani i valori americani di libertà, tolleranza, democrazia, travestendoli da cattolici mediante il principio della dignità umana. Per cui l’insegnamento odierno della Chiesa si ritrova fuori centro (non è cattolico), proponendo, come fa, una “libertà religiosa connessa non all’affermazione della verità del cristianesimo ma come la più alta manifestazione della dignità dell’uomo.”[255]

Certamente, esisteva una “crisi morale latente nei cattolici occidentali, compresi quelli canadesi”: la c.d. “rivoluzione tranquilla” (che avrebbe in pratica scristianizzato il Canada francofono) era già iniziata quando cominciò il Concilio.[356] Bisognerebbe allora insistere, a mio avviso, sull’azione nefasta svolta dal Concilio. Aveva il dovere di esorcizzare gli elementi portanti della crisi sul piano teologico ossia la penetrazione della Nouvelle théologie nella Chiesa, attraverso i suoi molteplici rivoli, e procedere ad una chiara e articolata condanna del marxismo-leninismo, gramscismo incluso, e di altre importanti correnti del pensiero moderno, tutte anticristiane. Le omissioni sono state clamorose. Ma nella Conclusione generale di quest’aspetto non si parla. Infatti, l’azione dei singoli, le tesi eterodosse dei Maritain e dei Murray, echeggiate da tutta la fitta schiera dei teologi in odor di eresia immessi proditoriamente da Giovanni XXIII tra i consultori delle Commissioni conciliari, tutto questo bailamme filosofico-teologico non avrebbe potuto avere gli effetti devastanti che ha avuto, se non ci fosse stata l’azione eversiva svolta dal pastorale Vaticano II: con il peso dell’autorità di un Concilio ecumenico anche se solo pastorale, ha fatto da volano alle correnti ereticali invece di condannarle e disperderle con i dovuti anatemi. E ha fatto da volano soprattutto perché i pontefici allora regnanti, Giovanni XXIII e Paolo VI, si sono resi complici dell’eversione, cosa che si evita sempre di rimarcare.

In definitiva, l’idea della dignità dell’uomo è usata oggi contro l’uomo. Infatti, ribadisce la Conclusione generale, essa è allo stato nient’altro che “uno strumento verbale al servizio delle grandi cause ideologiche della modernità tardiva. Non bisogna dimenticare che, grazie ad uno spettacolare rovesciamento di significato, la “dignità” serve a legittimare e addirittura ad impedire di criticare pubblicamente gli attentati più flagranti all’integrità fisica e morale di innumerevoli esseri umani.” Stiamo assistendo al trionfo del materialismo più radicale, una concezione completamente errata della natura umana, considerata soprattutto ormai come materiale manipolabile, da esperimento, sociale e da laboratorio. Una simile concezione non sa che farsene del principio della “dignità dell’uomo” e qualche voce, particolarmente arrogante, già da tempo si è levata per chiedere di liberarci da un concetto così “stupido”. Infatti, in nome della dignità dell’uomo da salvaguardare, si riesce qualche volta ad impedire le sperimentazioni più estreme e più folli. “Dall’uomo-macchina di La Mettrie, 1748, all’uomo neuronico di Jean-Pierre Changeux, 1983, ed infine al sogno transumanista, abbiamo una grande continuità. Negando l’esistenza stessa della specie, siamo giunti a fabbricare cloni e ibridi: che posto può ancora occupare il concetto della dignità umana?”. Nessuno, a ben vedere. E difatti è stato un professore di Harvard, lo psicologo americano-canadese Steven Pinker a denunciare pubblicamente la supposta “stupidità della dignità”, principio che ostacolerebbe ancora (in qualche sia pur tenue modo) la ricerca scientifica sull’essere umano (cioè la sua indiscriminata manipolazione). 
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In questa terribile situazione, qual è tuttavia il nostro compito, non solo di cattolici ma di esseri razionali, che si rifiutano di portare il loro cervello all’ammasso del politicamente corretto dominante? Per quanto riguarda questo concetto della dignità dell’uomo, diventato così importante e nello stesso tempo così ambiguo e falso nella sua applicazione, si tratterebbe di rimetterlo sui suoi giusti fondamenti. A questo fine, i saggi qui riportati offrono ampio, validissimo ed organico nutrimento. Ispirandomi alle loro analisi, mi sia permesso di abbozzare una definizione, ancorché provvisoria, del concetto della dignità, con l’auspicio che possa esser utile alla sua ricostruzione.

L’impostazione più aderente al vero sembra essere quella dei Classici: la dignità dell’uomo non può essere intesa in senso ontologico ovvero come l’equivalente dell’essenza dell’uomo, della sua humanitas in quanto tale. Essa appare piuttosto una qualità della nostra personalità, come risulta dal nostro comportamento, che infatti può essere dignitoso o privo di dignità, o addirittura indegno. Nel modo di esprimersi comune, il comportamento dignitoso caratterizza una persona dignitosa. Ma perché è dignitosa, per il solo fatto di esser questa persona un essere umano? Evidentemente no, visto che il giudizio sulla dignità o meno del suo comportamento non è dato a apriori (la cosa non avrebbe senso) ma proviene esplicitamente a posteriori, dal suo stesso comportamento concreto, come risulta al nostro individuale giudizio. Diciamo allora che mostra di avere dignità colui che si comporta in modo dignitoso; che cioè mostra, a seconda delle circostanze, quelle virtù di fierezza, giusto orgoglio, senso dell’onore, uniti a equilibrio, controllo di sé, che concorrono a costituire quella qualità di una persona che chiamiamo dignità. 

Ma qual è il metro, il sistema di riferimento di questo giudizio? Il metro, l’unità di misura, sarà offerto sempre dalla definizione boeziana della persona: “sostanza individuale di natura razionale – individua substantia rationalis naturae.” Dignitoso sarà allora ogni comportamento del soggetto, uomo o donna, che si dimostri conforme alla natura razionale dell’essere umano, natura che lo distingue dall’animale, nei cui confronti il concetto della dignità è ovviamente inapplicabile, allo stesso modo della titolarità di diritti o del dovere di assumere obblighi. Il comportamento dignitoso imporrà il rispetto altrui e possiamo dire, allora, che l’aver dignità è quel nostro modo di essere che ci merita l’altrui rispetto e stima. E ce li fa perdere, quando si rivela indegno perché non conforme a ragione: bizzarro o scorretto, cattivo o addirittura peccaminoso. 

La dignità di acquista o si perde a seconda di come ci si comporta. È una qualità che ci merita rispetto o ce lo fa venir meno, quando manca. Nella concezione classica, di origine aristotelica, l’ ente - l’esistente còlto nella sua individualità di realtà finita – va concepito come rapporto di sostanza e accidenti: tra ciò che fa essere l’ente ciò che è (uomo, animale, piante, pietra…) senza che possa esser altro da sé, e le sue qualità particolari, gli “accidenti”, come dicevano gli Scolastici, che possono variare senza peraltro poter alterare la sostanza, il permanere dell’ente nella sua natura originaria. Pertanto, perdere la propria dignità a causa di un nostro comportamento che si riveli poco dignitoso o indegno, ci toglie il rispetto altrui, perché è venuta meno per colpa nostra quella qualità che ce lo merita, ma non ci può togliere la nostra sostanza, la nostra humanitas. Restiamo sempre individui creati da Dio e quindi dotati di ragione e volontà, capaci di emendarci, di riguadagnare la dignità che avevamo perduto, di godere del rispetto che essa merita. 

Affermare, pertanto, che tutti gli esseri umani, uomini e donne, meritano sempre rispetto a causa di una loro dignità che si suppone ontologica, innata, e quindi in maniera sempre indipendente dal loro comportamento, appare del tutto illogico. Merita sempre rispetto la loro umanità, che possiede sempre le risorse (razionali, morali) per perfezionarsi, se le sa usare, ma non può meritarlo il loro comportamento deviante, quando c’è, che va invece condannato secondo i ben noti canoni della morale naturale e rivelata. L’ evangelico “non giudicate, per non esser giudicati” non è un invito alla neutralità in campo etico, non significa affatto: “rispettate tutti, senza giudicare se fanno il bene o il male”. All’opposto, è sempre stato inteso nel senso di condannare il peccato ma non il peccatore, che va invece ammonito per la sua edificazione, affinché se ne renda conto, si penta e cambi vita. Nel peccatore va sempre rispettata l’umanità, che è la nostra stessa, creata da Dio, ferita ma non distrutta dal peccato originale. Ma non si può rispettare il peccato, in quanto tale. Il peccato, quale esso sia, è sempre una violazione consapevole dell’ordine morale del mondo stabilito da Dio, pertanto non merita rispetto e non può averlo: il regno del peccato è il regno della indignitas.

Per tal motivo, quei chierici, vescovi inclusi, che oggi, pur nel criticare progetti di legge inaccettabili come l’ormai famoso ddl Zan che vuole punire con pesanti pene detentive la c.d. “omotransfobia”[sic] e la “misoginia”[sic] (una legge liberticida, superflua perché le leggi esistenti già proteggono a sufficienza il mondo lgbt da offese e aggressioni; una legge tra i cui intenti dichiarati c’è anche quello di promuovere l’omosessualità nella società con l’aiuto dello Stato, di imporre il rispetto della supposta dignità delle persone omosessuali, in quanto tali); in via preliminare sono soliti affermare, quei chierici, di “provare il massimo rispetto per gli omosessuali”, errano grandemente se, in nome di un concetto per l’appunto ontologico della dignità dell’uomo, ritengono che l’omosessuale vada rispettato in quanto tale. Errano perché, in tal modo, il rispetto dovuto alla persona viene invece inteso come rispetto per il peccato, che la persona in oggetto commette. Non si può provare rispetto per un comportamento peccaminoso, nella fattispecie quello degli omosessuali, che viola gravemente il Sesto Comandamento, e quindi non si potrà rispettare, in nome di una supposta innata dignità dell’uomo inattaccabile dai suoi peccati, l’omosessualità di cui lui/lei faccia mostra. Si dovrà invece condannare questo comportamento come intrinsecamente indegno della natura razionale dell’uomo, che continuiamo d’altro canto a rispettare nell’omosessuale, esortandolo a rinnegare la sua vita di peccato e quindi a riacquistare in tal modo la sua dignità di uomo. 
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[246] Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Conclusion générale, in: La dignité humaine, cit., pp. 189-202; p. 189.
[247] Op. cit., p. 190.
[248] Op. cit., p. 191.
[249] Op. cit., ivi.
[250] Più di un secolo fa, il filosofo del diritto Widar Cesarini Sforza, in un breve articolo, faceva acuti paralleli tra il movimento modernista e il “movimento del diritto libero”: ID., Il modernismo giuridico, nella rivista Il Filangieri, 1912, fasc. 5-6. Ora in: Widar Cesarini Sforza, Vecchie e nuove pagine di Filosofia, Storia e diritto, I Filosofia e teoria generale, Giuffré, Milano, 1967, pp. 9-17.
[251] Friedrich Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. Von G. Colli und M. Montinari, Berlin-NewYork 1973, II, p. 567. Nella “natura “ individuale Nietzsche vede, come è noto, solo la totalità degli istinti, una potenza materiale che esprime nella parte la totalità della forza che costituisce il Tutto cosmico. Il naturalismo di Nietzsche è pre-einsteiniano nel senso che fa già vedere quella dissoluzione dell’oggetto (e quindi del soggetto) in un fascio di forze, che Einstein cercherà di legittimare dal punto di vista dell’immagine fisica del mondo, con l’idea che l’oggetto non sia altro che una variazione di densità nell’energia costituente le forze di campo (idea che, per Einstein, poteva rappresentare la base di una nuova visione filosofica della realtà.)
[252] Conclusion générale, cit., pp. 193-194.
[253] Op. cit., pp. 195-199.
[254] Op. cit., p. 196.
[255] Op. cit., p. 198.
[256] Op. cit., p. 197.
[257] Op. cit., p. 200.

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