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sabato 27 febbraio 2021

Presentazione della Messa di rito romano antico (Ordo Vetus) di domani, Seconda Domenica di Quaresima, 28 febbraio 2021, nel tempo della pandemía

Poste le difficoltà per molti di andare a Messa, per via delle restrizioni causa-Covid che non accennano ad allentarsi, abbiamo pensato all'utilità di un articolo di 'Presentazione della Messa Ordo Vetus di domani, II Domenica di Quaresima, 28 febbraio 2021'. La Presentazione è basata sul ricco Commento liturgico, inserito dalla FSSPX nell'edizione del Messale Romano del 1962 da essa diffuso, integrato da Paolo Pasqualucci.

Presentazione della Messa di rito romano antico (Ordo Vetus) di domani, Seconda Domenica di Quaresima, 28 febbraio 2021, nel tempo della pandemía
a cura di Paolo Pasqualucci.
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Testi dal “Messale Romano quotidiano” (= MR), testo latino e traduzione italiana di S. Bertola e G. Destefani, commento di D.C. Lefebvre OSB, disegni di R. De Cramer – Edizione aggiornata al 1962, Edizioni S. Francesco di Sales, Priorato S. Carlo, Via Mazzini 19, Montalenghe (TO). Le frasi tra parentesi quadre sono del curatore della Presentazione. La S. Bibbia in italiano viene citata secondo le Edizioni Paoline del 1963 (imprimatur del 1958), confrontata con le edizioni in greco e latino di Agostino Merk SI e Nestle-Aland; per il solo greco, con The Greek New Testament a cura di Aland, Black, Martini, Metger, Wikgren, con il relativo Textual Commentary.
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II Domenica di Quaresima. Stazione a S. Maria in Domnica – Semidoppio – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei. MR, pp. 362-367. Epistola: 1 Tess 4, 1-7 --- Seguito del S. Vangelo: Matt 17, 1-9. “La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica [al Celio], chiamata così perché i cristiani [lì] si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del V secolo.” (MR, p. 362).

Apro subito una parentesi: perché si usa il termine “stazione”, qual è la sua origine? Andiamo al Commento liturgico generale del Tempo di Quaresima, sempre nel medesimo Messale.

“Ogni Messa di Quaresima ha una sua Stazione”. Questa parola, spiega il testo in nota, “è stata presa dalla milizia romana perché i cristiani arruolati nella milizia di Cristo si riunivano nelle ore in cui i soldati cambiavano la guardia; donde i nomi di Terza, Sesta, Nona che si danno alla parte dell’Ufficio che si dice alla 3a, 6a e 9a. Dopo l’ora Nona, che recitavasi verso le 15, si celebrava in Quaresima la Messa. Poi cantavansi i Vespri, dopo di che si rompeva il digiuno. Da ciò deriva l’uso attuale, nelle chiese ove si canta l’Ufficio, di recitare durante la Quaresima i Vespri prima del pranzo.” (MR, p. 300). Sul Georges-Calonghi, trovo, tra le varie voci di statio, stationis, da sto, l’indicazione del significato militare del termine: posto di guardia, sentinella, picchetto, e anche quartiere di soldati. Come “riunione o luogo di raduno di cristiani”, il termine risale a Tertulliano (sempre il dizionario). Credo che il significato prevalente, nel gergo militare, fosse quello di: posto di guardia. Comunque sia, Tertulliano ci attesta che il termine era d’uso tra i cristiani per indicare il loro luogo di riunione. Giustamente, un termine di origine militare, come si confaceva ad una religione che si poneva esistenzialmente quale perpetua milizia, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

Ma torniamo al Commento liturgico. “Il papa celebrava nel corso dell’anno successivamente nelle grandi basiliche e nelle 25 chiese parrocchiali di Roma e in qualche altro santuario la Messa solenne, circondato da tutto il clero e dal popolo e questo si chiama fare la “Stazione”. Il nome che è rimasto nel Messale, ricorda che Roma è il centro del culto cristiano ed indica una liturgia più di dodici volte secolare e anticamente solennissima.” (MR, p. 300). Circa le 25 parrocchie di Roma, il Commento precisa in nota quanto segue: “Queste parrocchie esistevano già al V secolo ed erano chiamate “titoli” (tituli) ed i parroci di Roma che vi erano preposti portavano il nome di Cardinali (incardinati), cioè addetti a queste chiese. Per questo motivo ancora ai nostri giorni ogni Cardinale è titolare di uno di questi santuari.” (MR, ivi).

Chiarito il significato liturgico del termine stazione, riprendiamo il Commento alla II Domenica di Quaresima del Padre Lefebvre OSB.

“Come nelle Domeniche di Settuagesima [qui - qui], di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina [del Breviario] formano la trama delle Messe della seconda, terza e quarta Domenica di Quaresima.

Il Breviario parla in questo giorno del Patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, “il Dio di Giacobbe e d’Israele” per mostrarlo come protettore. “Dio d’Israele – dice l’Introito [tratto dal Salmo 24] - liberaci da ogni male [libera nos, Deus Israël, ex omnibus angustiis nostris].” La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’ Introito dice che “colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene [Deus meus, in te confido, non erubescam]”. L’Orazione ci fa domandare a Dio “di guardarci interiormente ed esteriormente per esser preservati da ogni avversità”. Il Graduale [dal Salmo 24] e il Tratto [dal Salmo 105] supplicano il Signore “di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni” e “che ci visiti per salvarci.” Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, “noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà.” (4a Lez. della 3a Domenica di Quaresima)”  (MR, p. 362)

Annoto, incidentalmente: la “trama” di queste Messe è costituita dall’Antico Testamento, dai detti e fatti dei Patriarchi di Israele, come scolpiti nel Breviario. Chi ha ritenuto che l’Ordo Vetus fosse staccato dall’Antico Testamento anche per questo motivo e ha pensato di abolirlo introducendo nelle letture del Novus Ordo , come “Prima lettura”, una pleonastica, spesso difficile sezione dedicata all’Antico Testamento? Sono stati i Novatori, affermatisi nella Chiesa a partire dal Vaticano II (cfr. la Costituzione Dei Verbum 14-16), che hanno voluto ricondurre la nostra liturgia alla sua “radice ebraica” e non hanno esitato a cercare di dimostrare che la “missione” di Israele, dell’Israele giudaica, quella della carne, l’Antica Alleanza è ancora perfettamente in piedi e valida accanto alla Nuova Alleanza [qui]: un errore tanto esiziale quanto grossolano. Nella mente ereticale dei Novatori la “Prima lettura” dedicata all’Antico Testamento proprio questo voleva evidentemente significare: la riaffermazione implicita della validità dell’Antica Alleanza!

“Giacobbe – riprendo il Commento – fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe, significa infatti soppiantatore: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne a sorpresa la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: “Le nazioni si prosternino davanti a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli.” (MR, pp. 362-363)

Il testo prosegue ricordando in breve sintesi la fuga di Giacobbe, la sua visione in sogno della scala che saliva al cielo con gli Angeli che scendevano e salivano su di essa mentre Dio dalla sommità della scala gli prometteva una grande discendenza, dalla quale sarebbe nato il Messia (Scala di Giacobbe, Gen 28, 10 ss.); la sua lotta notturna con l’Angelo in incognito, che non riuscì a vincerlo, onde gli disse al mattino successivo: “Tu non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele (il che significa forte con Dio) perchè Dio è con te e nessuno ti vincerà” [Gen 32]; la riconciliazione con il fratello [Gen 33].” (MR, p. 363) In nota, il testo ricorda che: “Il Sacramentario gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe maestro di potenza suprema”.

Ed ecco il nesso teologico e liturgico fra i due Testamenti.

“Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. “La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe – scrive S. Agostino – ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri” (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che “Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato”. “Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli “non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché, sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità” (Terzo Notturno).” (MR, p. 363).

Muovendo dall’Antico Testamento, ove in figura è già annunziato Cristo, intrecciando sapientemente interpretazione letterale, simbolica e allegorica del Testo Sacro, il Commento liturgico giunge ora al testo del Vangelo del giorno, riguardante la Trasfigurazione del Signore.

“Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: “Questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo.” Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il vescovo, mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera: “Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, così, anch’io, nell’offrirgli con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore.”

Importanza, sottolineo, della benedizione del figlio primogenito da parte del padre, santità che questa benedizione esprime ed apporta; significato simbolico della benedizione di Giacobbe che “usurpa” il posto del primogenito secondo la carne, dimostratosi non all’altezza: i Gentili sarebbero stati benedetti al posto dei primogeniti nella carne, così come lo fu Giacobbe al posto di Esaù – ma non direttamente bensì attraverso i meriti di Cristo, estendendosi a noi, se siamo a Lui fedeli, la benedizione che Egli ricevette per la sua fedeltà assoluta alla volontà del Padre.

“Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo - riprendo il Commento - Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. “Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro” (Epistola di questa Messa: 1 Tess 4, 1-7 : Non enim vocavit nos Deus in immunditiam sed in sanctificationem: in Christo Iesu Domino nostro.)” (MR, p. 364).

Dunque, osservo, questa la teologia della sostituzione della Chiesa alla Sinagoga [vedi], già presente in figura nell’Antico Testamento: come Giacobbe si è sostituito ad Esaù rivelatosi non degno della primogenitura, così Gesù Cristo Nostro Signore, consustanziale al Padre, da Lui benedetto, fa dei suoi discepoli, della Chiesa da Lui fondata, l’erede delle Promesse e dei suoi fedeli i figli di Dio per adozione, al posto degli eletti da Dio nella carne, negatori del Messia – la Chiesa, Israele dello spirito, si sostituisce all’Israele della carne, alla Sinagoga, muratasi nell’errore con il rifiuto del Salvatore. E questo, secondo il disegno di Dio, l’economia della salvezza, la divina predestinazione, come spiega san Paolo, nella Lettera ai Romani, quando menziona il caso di Rebecca: “Non erano ancor nati i figli e non avevano ancor fatto né bene né male, tuttavia affinché rimanesse fermo il disegno di Dio, scelto con libera elezione, senza riguardo alle opere, ma per volere di colui che chiama, le fu detto: ‘Il maggiore sarà soggetto al minore’, come sta scritto: ‘ Ho prediletto Giacobbe e amato meno Esaù.’ (Rom 9, 11-13)

Ma il nesso di Cristo con il Patriarca Giacobbe permane. Continua il Commento: “In S. Giovanni (1, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. “Come Esaù, dice S.Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa. Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa.” Alla fine dei tempi, questi due popoli [il cristiano e l’ebraico] si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe [Gen 33].” Quest’evento, sottolineo, la conversione finale di tutti gli Ebrei a Cristo, è un mistero che è stato annunziato in profezia dallo stesso san Paolo, sempre nella Lettera ai Romani: “Non voglio, o fratelli, che voi ignoriate questo mistero, affinchè non sembriate a voi stessi sapienti: l’indurimento è caduto sopra una parte di Israele, fino a che sarà entrata la totalità delle Nazioni, e allora tutto Israele si salverà, secondo quello che è scritto…” (Rom 11, 25-26 – vedi anche Lc 21, 24).

Pertanto, conclude il Commento, “La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria; gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.” (MR, p. 364).

Il significato profondo di questa Messa appare se lo si integra con il Breviario, che ci illustra la figura del Patriarca Giacobbe, ed è come nascosto a noi semplici fedeli, a meno che non venga appunto spiegato. E dalla spiegazione si percepisce il nesso profondo tra i due Testamenti e il retto modo nel quale si debba intendere la preminenza del Nuovo, che ci rivela la Nuova Alleanza, ora l’unica salvifica, nei confronti dell’Antico che lo ha preparato.

Veniamo ora alla Trasfigurazione, sicuramente uno dei fatti più emozionanti e straordinari tra quelli testimoniati nel Nuovo Testamento, avvenuto secondo la tradizione sul Monte Tabor.

“In quel tempo, Gesù prese con sè Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato in loro presenza [et transfiguratus est -- metemorphose]: il suo volto brillò come il sole, e le sue vesti divennero candide come la neve. Ed ecco apparir loro Mosè ed Elia, i quali conversavano con lui. Pietro prese a dire a Gesù: Signore, è bene che noi stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia. Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li circondò, ed una voce dalla nuvola disse: Questo è il mio Figlio diletto; ascoltatelo. E i discepoli, udito ciò, caddero col viso a terra e furon presi da gran timore. Ma Gesù, accostatosi, li toccò e disse: Levatevi e non temete. Ed essi, alzati gli occhi, non videro se non Gesù tutto solo. Poi, mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest’ordine: Non parlate di questa visione ad alcuno, finchè il Figliuol dell’uomo sia risuscitato dai morti.” (Mat 17, 1-9).

Mi sembra opportuno, a questo punto, riportare il passo della Seconda Lettera di San Pietro, nella quale il Principe degli Apostoli ribadisce la sua esperienza reale della Trasfigurazione del Signore. È questa la lettera quella nella quale egli annunzia l’avvicinarsi della sua fine (stava imperversando Nerone), mette in guardia contro gli eresiarchi, parla della seconda venuta di Cristo e incita ad interpretare rettamente le Lettere di san Paolo, contenendo esse “dei punti difficili a comprendersi, il significato dei quali, come di altri passi della Scrittura, viene dagli ignoranti e dai deboli sconvolto, per loro perdizione.” (2 Pt 3, 16). Nel replicare alle calunnie dei nemici della fede e degli eretici, scrive: “Non fu certo per aver seguito delle favole abilmente concepite, che noi vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta di nostro Signor Gesù Cristo, ma perchè siamo stati invece testimoni oculari [speculatores – epóptai] della sua maestà. Là egli ha ricevuto da Dio Padre onore e gloria, quando dal glorioso splendore gli fece udire una voce che disse: “Questo è il mio Figlio diletto, in cui ho posto tutta la mia compiacenza.” E noi l’abbiamo udita, questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sulla montagna santa, sicché acquista per noi una forza ancor maggiore la parola dei profeti.” (2 Pt 1, 16-19)

I tre Apostoli scelti dal Signore furono “testimoni oculari” della sua Trasfigurazione ed “udirono” con i loro orecchi la voce di Dio che, dalla nuvola, lodava il Signore. Questi fatti di origine sovrannaturale, resi da testimoni degni di fede, oggi non solo fanno sorridere i più, anche tra mezzo il clero, ma persino muovono all’avversione e all’odio nei confronti dei veri cattolici, quali sono ancora coloro che, forti della Grazia del Signore, continuano a credere alla lettera a questi eventi miracolosi e, grazie anche a questa fede, si impegnano al massimo per vivere secondo gli insegnamenti del Signore. Se sono veri i fatti miracolosi e i detti sublimi di Cristo, allora noi abbiamo torto e siamo dannati, con la vita del tutto profana che facciamo, pensano i Figli del Secolo. Da qui l’odio sempre più forte contro di noi, cattolici fedeli alla Tradizione della Chiesa e il digrignar di denti di una persecuzione su vasta scala sempre più vicina, condotta in nome dei peggiori vizi (che si vogliono imporre per legge come virtù) e della peggiore empietà.

Ma lo stesso san Pietro, nella medesima sua lettera, ci istruisce su come resistere, su come prepararsi alla prova: “Se Dio condannò alla distruzione e ridusse in cenere le città di Sodoma e Gomorra, perchè fossero di esempio a tutti gli empi futuri; e se liberò il giusto Lot, rattristato dalla condotta di quegli uomini senza freno nella loro dissolutezza – poichè quest’uomo, pur abitando in mezzo a loro, si manteneva giusto di fronte a tutto quello che vedeva e ascoltava, nonostante che tormentassero ogni giorno la sua anima retta con opere nefande [qui de die in diem animam iustam iniquis operibus cruciabant] – il Signore sa liberare dalla prova gli uomini pii e riserbare gli empi per esser puniti nel giorno del giudizio, specialmente quelli che seguono la carne nei suoi desideri immondi e disprezzano l’autorità [novit Dominus pios de tentatione eripere, iniquos vero in diem iudicii reservare cruciandos; magis autem eos, qui post carnem in concupiscentia immunditiae ambulant dominationemque contemnunt].” (2 Pt 1, 6-10).

L’Epistola di san Paolo letta in questa Messa (1 Tess 4, 1-7 cit.) ci esorta per l’appunto a camminare sulla retta via, secondo gli insegnamenti da lui impartitici “da parte del Signore Gesù” e quindi ad “astenersi dalla fornicazione”, a procurarsi una moglie onesta e fedele, ad essere pacifico e onesto nei rapporti col prossimo (ivi). Dobbiamo aspirare alla santità “in Gesù Cristo Signor nostro”. E come riuscire nell’intento, possiamo allora chiederci, quando ci troviamo a vivere in questo scorcio del Secolo, dentro una società che ci affligge e tormenta ogni giorno con le sue opere sempre più nefande, in modo sempre più simile a come accadde al “giusto Lot”, costretto a vivere tra Sodoma e Gomorra? Il Signore, ci assicura san Pietro, sa “liberarci dalla prova”; alla lettera, “strapparci dalla tentazione” (oiden Kyrios eusebeis peirasmou rhuesthai). Egli può “indurci in tentazione”, per metterci alla prova, ma nello stesso tempo sa difenderci da essa, strapparci da essa, mediante l’aiuto della sua Grazia, se noi restiamo fedeli e perseveriamo nel voler fare la sua volontà, non la nostra.

San Pietro scrive queste cose alla vigilia della sua morte nei supplizi. La “prova” e quindi la “tentazione” alla quale veniamo strappati non è pertanto quella della nostra morte per mano dei nemici di Cristo e della sua Chiesa. È invece la “prova” che risulta dalla tentazione di peccare, di cadere in peccato mortale, nelle sue varie e tenebrose forme, ivi incluse l’eresia e l’apostasia, il tradimento della fede. In questa “prova” ci difendiamo dalle tentazioni impegnandoci in modo inflessibile (contro noi stessi) nella nostra santificazione quotidiana, secondo gli insegnamenti di san Paolo (vedi 1 Tess, cit.), ribaditi dallo stesso san Pietro nelle sue due Epistole (1 e 2 Pt, passim) ovvero secondo gli insegnamenti di Cristo, trasmessici fedelmente dai due santi Apostoli.

Dobbiamo dunque prender esempio dal Patriarca Giacobbe, figura del Signore, che mai perse la fede in Dio nelle numerose prove che dovette affrontare. La Trasfigurazione del Signore, ripropostaci dal Vangelo della II Domenica di Quaresima, deve infonderci una grande forza spirituale, rafforzarci nella nostra speranza di salvezza. Infatti, essa ci fa vedere che un trionfo di luce soprannaturale, simile a quella apparsa sul Monte Tabor, ci attende nella vita eterna, se saremo stati fedeli a Cristo sino alla fine dei nostri giorni, quali che siano state le prove e le tentazioni che ci abbiano tormentato in questa vita mortale: lo attesta anche san Paolo, quando ci rivela che gli Eletti, alla fine dei tempi, saranno rivestiti di un corpo glorioso (immutabimur allaghesometha), “allo squillo dell’ultima tromba”, quella della resurrezione dei morti (1 Cor 15, 50 ss.).

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