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lunedì 5 aprile 2021

Collegialità episcopale o episcopato subordinato? Le implicazioni nell'Amoris Laetitia

Amoris Laetitia: oltre ai 'Dubia'...

Cristo ha dato a Pietro e ai Romani Pontefici suoi successori un Primato non semplicemente di onore, ma di giurisdizione: il potere di governo, di direzione, di guida, di coercizione e cioè di insegnare e governare la Chiesa legiferando, giudicando e prendendo provvedimenti adeguati. Si tratta di dottrina de fide secondo il Concilio Vaticano I (DB, 1823). Ѐ Pietro la roccia su cui Cristo Signore ha edificato la sua Chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt., 16, 18-19) [1].
Gesù presenta la sua Chiesa sotto l’immagine di una casa, di un regno e di un gregge e pone Pietro a suo fondamento, clavigero e pastore. Pietro sùbito dopo l’Ascensione di Cristo agisce come Capo supremo della Chiesa. Egli si leva nel cenacolo per proporre agli altri Apostoli di sostituire Giuda Iscariota nel Collegio apostolico; egli predica per primo il dì di Pentecoste; egli accoglie i primi pagani nel seno della Chiesa, in casa di Cornelio; egli interroga e castiga i due sposi colpevoli di menzogna; infine egli prende per primo la parola al Concilio di Gerusalemme.[2]
Il Concilio Vaticano I (DB, 1831) ha definito solennemente la dottrina del Primato del Papa, che ha sul gregge di Cristo un’autorità giurisdizionale o di governo, piena, suprema, universale, immediata e ordinaria sia per quanto concerne la fede e i costumi sia per quanto riguarda la disciplina.[3]
Quindi la Collegialità episcopale è, come minimo, un annacquamento di questa definizione dogmatica. L’Episcopato non solo non è superiore al Papa ma nemmeno è eguale a lui. Gli errori del Conciliarismo e del Gallicanesimo, che insegnano la superiorità del Concilio sul Papa e che la giurisdizione dei Vescovi deriva direttamente da Dio e non tramite il Papa, sono stati condannati dalla Chiesa (cfr. DB, 1322 e 1589) ed hanno ricevuto il colpo di grazia col Vaticano I. La Chiesa è stata fondata su Pietro come roccia primaria e fondamentale e il Papa quale successore di Pietro le è essenziale; l’Episcopato pure è di istituzione divina, ma subordinatamente al Papato. Ogni potere discende da Dio direttamente sul Papa e da questi sui Vescovi.[4]
Il dilemma si risolve rimanendo fedeli alla dottrina tradizionale dell’Episcopato monarchico del Papa e di quello subordinato dei Vescovi, sia riuniti in Concilio sia sparsi nel mondo.
Le cristalline affermazioni della citazione che precede, tratte da un articolo di don Curzio Nitoglia, vanno confrontate
  1. con la nuova ed ambigua collegialità introdotta dal Vaticano II.
    Vedi: Maria Guarini,
    • Le insidie della collegialità. Le due ecclesiologie [qui]; 
    • Consolidamento della sinodalità e del conciliarismo? Il C9 e la 'decentralizzazione' nella Chiesa [qui]; 
    • Conciliarità, Sinodalità. Come cambia la Chiesa? [qui]. 
  1. Ed anche con gli improvvidi sviluppi della collegialità secondo Amoris Laetitia sui quali a suo tempo non ha taciuto lo stesso cardinale Müller:
    "delegare alcune decisioni dottrinali o disciplinari sul matrimonio o la famiglia alle conferenze episcopali è assolutamente anticattolico", visto che le conferenze episcopali locali – pur avendo autorità su determinate questioni – "non costituiscono un magistero affiancato a un Magistero, senza il Papa e la comunione con tutti i vescovi".
    "la Chiesa non è un insieme di chiese nazionali, i cui presidenti votano per eleggere il loro leader a livello universale".
Il problema è che la questione (da sempre delicata e assai spinosa) era già affrontata con estrema chiarezza in un passaggio dell'Evangelii Gaudium:
"Ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un'eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria".
Secondo quanto riporta La Stampa nel luglio 2016, il presidente della Conferenza episcopale polacca, l’arcivescovo Stanislaw Gadecki, ha rilasciato alcune dichiarazioni sull’incontro a porte chiuse tra il papa e i vescovi di quella nazione, dalle quali emergono ulteriori conferme che sintetizzo di seguito:
Parlando a braccio soprattutto del problema della comunione ai divorziati risposati, dice Gadecki : “ il Santo Padre ha dichiarato che le leggi generali sono molto difficili da applicare in ogni Paese, e così parla di decentralizzazione”. Per questo le conferenze episcopali “potrebbero di loro iniziativa non solo interpretare le encicliche papali, ma anche, osservando la loro propria situazione culturale, affrontare in maniera appropriata alcuni temi specifici”. Nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia il Pontefice aveva scritto che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero... in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, «le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato». Questo passaggio ha creato perplessità.
Il cardinale Arinze, già Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, ha detto che le Chiese locali non possono insegnare cose diverse da Roma senza mettere a rischio l’unità della Chiesa. “I Dieci comandamenti non soggetti a frontiere nazionali”. Anche diversi canonisti hanno avanzato riserve su questo punto, che potrebbe mettere in pericolo l’uniformità dei sacramenti.
Il focus del problema sta, oltre che nell'attribuire poteri giuridici ad organismi che hanno funzione consultiva, nel poggiare la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale, mentre è solo conformandosi al Pontefice che i vescovi si conformano tra loro. Ora si vuol fare della Chiesa un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi. Ed è un grave attentato alla universalità de La Catholica.

La famosa "nota praevia" alla Lumen Gentium, sia pure con cautela curiale, aveva chiarito il vero significato di collegialità. Ma sembra che non sia riuscita a eliminare il rischio che de facto si pongano sullo stesso piano Papa e Collegio episcopale, senza tener conto che il collegio episcopale in tanto può insegnare in quanto è riunito sotto Pietro, per cui il potere nella Chiesa è unico: quello di Pietro, il quale può esercitarlo anche insieme ai vescovi, mentre i vescovi non possono esercitarlo se non sub Petro o cum Petro.
Ciò che i Vescovi validamente ordinati ricevono senza necessaria mediazione del Papa è il potere d’ordine, ovvero la speciale consacrazione che li rende successori degli Apostoli quanto al potere in materia di Sacramenti. Il concilio dogmatico Vaticano I ha definito solennemente che i singoli Vescovi governano le singole porzioni di gregge loro affidate: assignatos sibi greges singuli singulos pascunt et regunt[5]. Non esiste alcun documento della Scrittura, della Tradizione o del Magistero che abbia previsto un potere supremo di governo dell’insieme dell’episcopato sulla Chiesa universale.

E ciò nonostante la nuova ed ambigua collegialità introdotta dal Vaticano II appare persino nel documento elaborato dai 45 studiosi sull'AL.
"Le proposizioni eretiche, censurate come ‘haeretica’, sono quelle che contraddicono proposizioni contenute nella rivelazione divina e sono definite con un giudizio solenne come verità divinamente rivelate o dal Romano Pontefice quando parla "ex cathedra" o dal Collegio dei Vescovi radunato in Concilio, oppure vengono infallibilmente proposte a credere dal magistero ordinario e universale".
La frase cita un documento dell'ex Sant'Uffizio[6] del tempo di Ratzinger; che non faceva altro che ricordare e riproporre la nuova dottrina contenuta nella Lumen Gentium, artt. 22 e 25, a proposito della collegialità (il Collegio dei Vescovi titolare della summa potestas su tutta la Chiesa non solo sub Petro ma anche cum Petro, pur non potendo esercitarlo da solo mentre il Papa lo può).

Comunque quella dottrina non appare conforme alla tradizione della Chiesa, crea confusione e sulla titolarità e sull'esercizio della summa potestas, e sembra evidentemente inclinare all'errore dottrinale.
Il Concilio ha voluto essere meramente "pastorale", non ha voluto proclamare come dogmi le novità che ha introdotto, e tuttavia non si può più ignorare quanto la deformazione indotta dalla prassi ispirata ad esse stia aumentando la confusione e provocando, anche se lo si nega apertis verbis (cfr. recenti affermazioni del card. Müller), pericoli per la fede ed anche per l'unità ecclesiale.

Il cardinale Burke, di fatto, non è incappato in questo nodo insidioso, avendo sostenuto fin dalla sua prima pubblica presa di posizione che la stessa forma dell’Amoris Laetitia – e quelle che sono in realtà solo le parole del papa contenute nel documento – indica che non si tratta di un esercizio del magistero papale. A maggior ragione non può essere considerato magistero ordinario e universale quello dei vescovi che ne applicano le derive moderniste rese possibili dalle note ambiguità di formulazione. E la domanda da porsi è: si può condurre la Chiesa in una direzione in base a coordinate che, in questi termini, apparirebbero inedite o per lo meno non sancite dal magistero infallibile? Mentre ormai, in un contesto totalmente storicista, non c'è più alcun linguaggio comune sul Magistero infallibile...

Tornando "ai 45", essi non potevano non tener conto della dottrina oggi ufficiale - anche se ambigua - e in quel particolare documento e circostanza non potevano mettere in discussione il Concilio.
Tuttavia, se si vuole davvero uscire dalla crisi, è necessario affrontare il tema cruciale delle novità mascherate da aggiornamenti[7] contenute nei documenti conciliari e applicate dai custodi dello 'spirito del concilio', le quali, da fessure apparentemente innocue in quanto abilmente incuneate in contesti accettabili, hanno dispiegato i loro effetti divenendo voragini rovinose. Ѐ evidente che, se non si collegano gli effetti alle cause, sarà impossibile il ripareggiamento della verità.

Il nocciolo del problema è che oggi, a partire dal concilio 'pastorale', nessun papa si è più pronunciato, né - per come stanno ora le cose - più si pronuncerà ex cathedra (e dunque impegnando l'infallibilità). E ciò anche in virtù del nuovo paradigma di 'tradizione vivente' in senso storicista che assegna la facoltà di riformare la Chiesa alla Chiesa del presente secondo la ratzingeriana ermeneutica della riforma intesa come rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa [qui] che cambia ad ogni epoca, commisurata alla cultura del tempo e realizza la lettura del Vangelo sulla base di quest'ultima, anziché viceversa. [Vedi, tra l'altro, qui]. Per cui, mentre da un lato il card. Burke può dire che l'esortazione Amoris Laetitia non è Magistero perché non riafferma l'insegnamento costante della Chiesa e non implica adesione de fide [qui], dall'altro il card. Shönborn può affermare che essa è Magistero e come tale va accolta e il credente vi si deve adeguare [qui]. Ma finché non si metteranno d'accordo sulla giusta collocazione del soggetto-Chiesa rispetto all'oggetto-tradizione, la confusione continuerà a regnare sovrana con gravi conseguenze per la salus animarum.

Finché non si prenderà atto che questa eredità conciliare ribaltante è il vero nodo da sciogliere, il nostro impegno di riaffermazione della verità secondo il Magistero perenne sarà utile per le anime libere, potrà continuare a defluire come una vena aurea cui attinge chi la trova o come un canale carsico che potrà riaffiorare al termine di questa notte oscura, ma non può avere alcuna efficacia su una realtà così deformata e deformante. E la stessa grave solennità di una possibile correzione canonica, - rischia di non ottenere i risultati voluti e sperati. A meno che non intervengano fattori o si destino altre rette volontà al momento impensabili.
Maria Guarini
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1. Il testo del Vangelo di Matteo, anche se scritto in greco, contiene diversi semitismi sia nella costruzione del discorso, che ha l'impronta della mentalità e del mondo semita, che nell'uso di alcuni termini. Kefa è la trascrizione in italiano dal greco Kephas - aramaico Kepha, termine maschile usato da Gesù, che parlava in aramaico, nella promessa a Pietro. Matteo traduce questa parola con Petros, nome maschile che significa ciottolo o pietra che rotola, simbolo dell’incostanza, in contrapposizione a Petra, nome femminile, che significa roccia, simbolo dell’immutabilità. Pertanto, seguendo il testo greco: «Tu sei PETROS, ma su questa PETRA… », si potrebbe tradurre: «Tu sei ciottolo (Petros), ma su questa Roccia (Petra) edificherò la mia Chiesa» (Mt, 16, 18-19).
2. Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, 76; E. Ruffini, La Gerarchia della Chiesa negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo, Roma, 1921; E. Florit, Il Primato di San Pietro negli Atti degli Apostoli, Roma, 1942; U. E. Lattanzi, L’errore di Oscar Culmann sul Primato di Pietro, in “Protestantesimo”, a cura di A. Piolanti, Roma, 1957.
3. Cfr.  S. Tommaso d’Aquino, S. Th., III, q. 8; R. Bellarmino, De Romano Pontifice, Venezia, 1599; R. Zapelena, De Ecclesia, Roma, 1903; D. Palmieri, De Romano Pontifice, Roma, 1931; U. E. Lattanzi, De Ecclesia, Roma, 1956.  
4. Cfr. A. M. Vellico, De Ecclesia Christi, Roma, 1940, pp. 24-29; R. Dell’Osta, Teodoro de Lelli: un teologo del potere papale e i suoi rapporti col cardinalato nel secolo XV, Belluno, 1948 (Teodoro de Lelli è uno dei pochi grandi difensori del Primato papale nel secolo XV).
5. Denz. 3061.
6. «Tali dottrine sono contenute nella Parola di Dio scritta o trasmessa e vengono definite con un giudizio solenne come verità divinamente rivelate o dal Romano Pontefice quando parla «ex cathedra» o dal Collegio dei Vescovi radunato in concilio, oppure vengono infallibilmente proposte a credere dal magistero ordinario e universale». (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei)
7. Insieme alla collegialità senza remore (cfr. i link supra); la libertà religiosa [vedi anche qui - qui - qui]; il falso ecumenismo; la neo-lingua immaginifica secondo i parametri del dogma in evoluzione che relativizza ogni verità e principio; la Tradizione storicista, cioè reinterpretata secondo le mode del tempo, sovvertendo il cardine su cui si fonda la Fede e la sua trasmissione, spostato dall'oggetto-Rivelazione al soggetto-Chiesa e di fatto trasferito dall'ordine della conoscenza a quello dell'esperienza, evidenziato dal primato del sentimento, o addirittura della sensazione o del sensazionalismo, sull'intelletto (il che spiega come mai, ad esempio, persino un documento recente come la Familiaris consortio possa esser letto arbitrariamente in chiave evolutiva ignorandone o manipolandone le proposizioni).

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