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lunedì 31 maggio 2021

Luigi Einaudi e la tradizione cristiana in una pagina dimenticata del 1945

Le parole che seguono sono state vergate da Luigi Einaudi – liberale, primo presidente della Repubblica Italiana – nel 1945 quando ricopriva l’incarico di governatore della Banca d’Italia, in prefazione al volume di monsignor Pietro Barbieri ‘L’ora presente alla luce del Vangelo’. Durante l’occupazione tedesca di Roma mons. Barbieri si era dato molto da fare nell’aiuto e nell’ospitalità a non pochi esponenti dell’antifascismo. A liberazione avvenuta, aveva fondato la rivista «Idea» a cui anche Einaudi saltuariamente collaborò e – tra il 1944 e il 1945 – aveva tenuto ogni domenica una trasmissione radiofonica durante la quale leggeva e commentava il vangelo del giorno: in quel libro erano raccolte, appunto, queste conversazioni domenicali.

Luigi Einaudi contro la Messa in volgare
DISSENTO PROFONDAMENTE da coloro i quali desiderano che le ceri­monie religiose siano rese più moderne, che non solo la spiegazione del Vangelo e le prediche si tengano, come già accade, nella lingua del paese; ma che anche la messa sia celebrata in volgare e che in volgare si risponda e si canti ogni qualvolta le regole liturgiche comandano l'uso della lingua latina. Si dice: tutte le cerimonie religiose della Chiesa cattolica sono manifestazioni di una unità di propositi e di opere, per cui i fedeli, insieme convenuti, rendono testimonianza della loro comunione in Cristo e della volontà di vivere insieme in purezza di pensieri e in letizia di opere buone, ubbidendo agli insegnamenti dell'Uomo-Dio che si è sacrificato per redimere in eterno l'umanità, dal peccato ed innalzarla al cielo. Se così è, perché nascondere il pensiero divino dietro il sipario di parole incomprensibili alla più parte degli uomini viventi, delle anime semplici, alle quali una lingua, morta da millenni non dice nulla che commuova e trascini?
No. Quella lingua, nella quale parlavano i pretori, i giudici ed i centu­rioni del tempo di Cristo non è morta. Ogni qualvolta entriamo in chiesa ed ascoltiamo le parole sublimi dei mirabili canti intonati dai cori, sentiamo che quelle parole, ripetute le centinaia e le migliaia di volte, sono sentite da chi le pronuncia. Che importa che il senso tecnico letterale talvolta sfugga; che occorra avere, e non molti l'hanno pronto, il testo dinnanzi agli occhi per com­prendere appieno quelle parole? Ma la stessa cosa accade a tutti coloro i quali non abbiano il raro privilegio di una ferrea memoria, anche per le grandi classiche poesie in ogni lingua, anche per la trama poetica delle bellissime fra le audizioni musicali. Quel che si cerca, ciò a cui aspira l'anima di chi non entra nel tempio per mera curiosità, è di sentirsi parte del tutto, di perdersi, uno tra i molti, nella comunità di coloro i quali intendono vivere secondo la parola del Cristo. Ma la comunità dei credenti non è composta dei soli uomini viventi oggi. Essa vive nelle generazioni che si sono succedute da Cristo in poi. Ognuna di quelle generazioni ha trasmesso quella parola alle generazioni successive; ed ogni generazione ha sentito quella parola e vi ha creduto perché essa era stata sentita e in essa avevano creduto i suoi avi. La parola di Cristo è viva in noi non perché essa sia stata scritta sulle pergamene e nei libri stampati. Sarebbe cosa morta se così fosse. Ma ognuno di noi l'ha sentita dalle labbra della mamma e della nonna. Mettiamoli in fila questi uomini e queste donne che in ogni famiglia danno trasmesso oralmente gli uni agli altri i comandamenti divini; amatevi gli uni gli altri, non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a te stesso. Non sono molti: da venti a trenta persone bastano a ricondurre la tradizione trasmessa ad ognuno di noi da un antenato il quale viveva al tempo del Messia.

Ogni uomo ed ogni donna vissuto dopo quel giorno ha fatto parte e fa ancora parte della comunione di coloro i quali hanno creduto e credono nel messaggio di bontà di Gesù; ognuno di essi ha interpretato ed ha sentito quel messaggio attraverso ai suoi bisogni, ai suoi dolori, alle sue aspirazioni. I canti, i cori e le parole in lingua latina che noi ascoltiamo o leggiamo o pro­nunciamo in chiesa non sono nostre. Esse sono il retaggio di sessanta generazioni che ci hanno preceduto; ed il toccarle sarebbe un rompere quella continuità di comunione spirituale che lega i viventi a coloro che sono morti e che sono vissuti, errando e ravvedendosi, nella medesima comunità di uomini vissuti dopo che la parola di Cristo ha trasformato il mondo.

Se mutare le parole dei riti religiosi sarebbe un sacrilegio, fare intendere quelle parole è un dovere. La spiegazione delle parole scritte nei vangeli, la esposizione, anzi, del significato di ognuno dei riti e dei canti che si leggono nei breviari è il primo dovere del sacerdote; è un dovere interpretato dai sacerdoti nel modo più diverso. Confesso di apprezzare scarsamente la maniera dotta e quella polemica. L’uomo semplice e la donna umile, i quali sentono la bellezza delle parole latine dei canti imparati a memoria, anche se ripetuti con qualche errore di grammatica, non comprendono le dispute dottrinali e non si interessano alle polemiche contro i miscredenti siano essi protestanti o liberi pensatori o materialisti. L'uomo semplice e la donna umile chiedono al sacerdote: dimmi come dobbiamo vivere ogni giorno, come dobbiamo interpretare alla luce del Vangelo gli avvenimenti quotidiani, quale è la legge morale alla quale dobbiamo conformarci, quali, fra i comandi ricevuti dai potenti della terra, da coloro che oggi imperano su di noi e sui nostri fratelli viventi nelle più diverse parti del mondo, siano quelli ai quali dobbiamo ubbidire.

Monsignor Barbieri spiega ogni domenica il Vangelo ai suoi uditori della radio. Più numerosi di quelli che il sacerdote può ordinariamente accogliere in chiesa; e lo spiega con l'intento di applicare il dettato ai fatti del giorno, alle vicende liete e tristi di questa nostra umanità torturata.

Non sono un ammiratore della radio. Da molti anni, da quando sullo orizzonte salì la maligna stella del conformismo politico, che è necessariamente altresì conformismo o totalitarismo spirituale morale religioso ed economico, pensai che la radio era un’invenzione del demonio, intento a trovare il mezzo di abbrutire l'uomo. Noi soffriamo ancora oggi e soffriremo per lunghi anni - e nessuno sa se riusciremo mai più a guarire da quella lebbra ed a riconquistare la libertà di pensare e di vivere - le conseguenze della predicazione conformistica che per due decenni imperversò sui bollettini a cui si dava il nome di giornali e sulla radio. Questa più pestifera di quelli; che la parola parlata, da uomo a uomo, ha virtù persuasiva grandemente più efficace di quella della parola che il vecchio contadino piemontese mi definiva «stampata nel ferro» dei giornali. Si fa più fatica a leggere la parola trasferita dai piombi della tipografia sulla carta dei giornali che non ad ascoltare ad ogni ora del giorno il verbo pronunciato dall'ordigno vociferante nella stanza dove si vive. Quella parola entra come uno stillicidio nel cervello dell'ascoltatore ed a poco a poco lo rende incapace di ragionare e lo inebetisce. Nessuna invenzione è più spaventosamente atta, quando sia maneggiata dallo spirito del male, a rendere l'uomo un numero, un automa. Per nessuna invenzione si deve, perciò, avere altrettanta cura, affinché essa sia adoperata nello spirito del bene. V'ha opera di bene la quale superi la spiegazione delle parabole, degli apologhi, del Vangelo, il commento dei casi della vita e delle massime di Cristo ?

Molti di noi hanno ascoltato alla radio la voce calda efficace commossa di Monsignor Barbieri quando nel mattino della domenica applica gli insegnamenti del Vangelo ai fatti dell'ora presente. Ogni volta che penso all'istupidimento cagionato all'umanità dalla nuova diabolica invenzione, auguro che si moltiplichino gli annunciatori i quali si sono assunti la missione di ricordare ad essa che le regole della vita sono poche, che esse furono già scritte in alcuni pochissimi libri e che di questi il più grande è il Vangelo.
Sono molte le cose che colpiscono e che, soprattutto se si è legati a una certa idea del liberale Einaudi, possono anche sorprendere in questo breve testo. Innanzitutto la difesa appassionata della messa in latino, che già allora veniva posta in discussione da alcune frange del “movimento liturgico”, nato in Germania alla fine della prima guerra mondiale e poi diffusosi in tutta l’Europa occidentale. Ma ad essere notevoli sono soprattutto le motivazioni che sostengono una tale difesa. Emerge infatti un senso fortissimo della tradizione, avvertita come trasmissione delle verità fondamentali della fede e della morale cristiana di generazione in generazione, e l’assoluta necessità di non interromperla e di non tradirla. Coloro che vivono in un certo momento sulla terra non possono decidere unilateralmente di disfarsi del retaggio che proviene dagli uomini e dalle donne che non ci sono più, ma che è stato trasmesso loro perché, a loro volta, se ne facessero tramite. Einaudi ricorre qui al concetto cristiano di «comunione dei santi»: «la comunità dei credenti non è composta dei soli uomini viventi oggi. Essa vive nelle generazioni che si sono succedute da Cristo in poi. Ognuna di quelle generazioni ha trasmesso quella parola alle generazioni successive; ed ogni generazione ha sentito quella parola e vi ha creduto perché essa era stata sentita e in essa avevano creduto i suoi avi. [...] I canti, i cori e le parole in lingua latina che noi ascoltiamo o leggiamo o pronunciamo in chiesa non sono nostre. Esse sono il retaggio di sessanta generazioni che ci hanno preceduto; ed il toccarle sarebbe un rompere quella continuità di comunione spirituale che lega i viventi a coloro che sono morti e che sono vissuti, errando e ravvedendosi, nella medesima comunità di uomini vissuti dopo che la parola di Cristo ha trasformato il mondo».

Questo senso spiccato della tradizione andava, in Einaudi, al di là del problema qui discusso, anzi costituiva un elemento essenziale della sua personalità, che egli aveva in comune con alcuni dei suoi “autori”: Burke, Mallet du Pan, de Maistre, Tocqueville, Taine, Le Play (i «grandi scrittori del secolo XIX che hanno ficcato lo sguardo in fondo alle ragioni di vita delle società politiche», come li definiva nel 1936). Ma, in questa pagina, esso trovava una formulazione singolarmente affine a quella che G. K. Chesterton aveva dato in Ortodossia: «La tradizione può essere definita, - scriveva lo scrittore inglese - come una estensione del diritto politico. Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. È la democrazia dei morti. La tradizione rifiuta di sottomettersi alla piccola e arrogante oligarchia di coloro che per caso si trovano ad andare attorno. I democratici respingono l'idea della squalifica per il fatto accidentale della morte. La democrazia ci insegna di non trascurare l'opinione di un saggio, anche se è il nostro servitore, la tradizione ci chiede di non trascurare l'opinione di un saggio, anche se è nostro padre. Io non posso, comunque, separare, le due idee di tradizione e di democrazia: mi sembra evidente che sono una medesima idea. Avremo i morti nei nostri consigli. I Greci antichi votavano con le pietre, essi voteranno con le pietre tombali. Ciò è perfettamente regolare e ufficiale: la maggior parte delle pietre tombali, come delle schede elettorali, sono segnate da una croce».

Accanto a questo motivo tradizionalistico, affiora il tratto evangelico del cristianesimo einaudiano: non polemiche rumorose contro i nemici della fede devono occupare le omelie dei sacerdoti, né troppi elementi dogmatici, né dispute dottrinali. «L'uomo semplice e la donna umile chiedono al sacerdote: dimmi come dobbiamo vivere ogni giorno, come dobbiamo inter­pretare alla luce del Vangelo gli avvenimenti quotidiani, quale è la legge morale alla quale dobbiamo conformarci, quali, fra i comandi ricevuti dai potenti della terra, da coloro che oggi imperano su di noi e sui nostri fratelli viventi nelle più diverse parti del mondo, siano quelli ai quali dobbiamo ubbidire»: come si vede, il pensatore liberale ribadiva il diritto del pastore d’anime di predicare l’obiezione di coscienza, cioè di indicare quali delle leggi civili siano degne di obbedienza da parte del cristiano. Il cristianesimo consisteva, dunque, per Einaudi nell’ascolto obbediente degli «insegnamenti dell'Uomo-Dio che si è sacrificato per redimere in eterno l'umanità, dal peccato ed innalzarla al cielo». Sarà perché qualche anno fa mi è capitato di studiare con certo impegno Silvio Pellico, ma in questa pagina mi è parso di avvertire quasi un’eco delle Mie prigioni: «l’essenza del Cristianesimo: - culto di Dio, spoglio di superstizioni, - fratellanza fra gli uomini. – aspirazione perpetua alla virtù, - umiltà senza bassezza, - dignità senza orgoglio, - tipo, un uomo-Dio! Che di più filosofico e di più grande?».

Infine mi pare di grande interesse quanto Einaudi scrive della radio: del sistema dei media, si direbbe oggi. Egli faceva riferimento al ruolo che aveva svolto durante il ventennio fascista, ma non si limitava al problema della connessione fra sistema mediatico e potere politico. Individuava nella natura stessa di quel mezzo di comunicazione un rischio: quello dell’ascolto “passivo” e continuo, proprio di un ascoltatore che non vuol fare nemmeno la fatica di leggere un giornale. «La parola parlata, da uomo a uomo, ha virtù persuasiva grandemente più efficace di quella della parola che il vecchio contadino piemontese mi definiva “stampata nel ferro” dei giornali. Si fa più fatica a leggere la parola trasferita dai piombi della tipografia sulla carta dei giornali che non ad ascoltare ad ogni ora del giorno il verbo pronunciato dall'ordigno vociferante nella stanza dove si vive. Quella parola entra come uno stillicidio nel cervello dell'ascoltatore ed a poco a poco lo rende incapace di ragionare e lo inebetisce. Nessuna inven­zione è più spaventosamente atta, quando sia maneggiata dallo spirito del male, a rendere l'uomo un numero, un automa». Il pericolo vero era quindi quello del diffondersi di un nuovo conformismo, di atteggiamenti seriali, di standard culturali. Di fronte ad analisi di questo genere, ci si limita spesso a scrollare le spalle e a giudicarle frutto di una cultura ottocentesca. Per parte mia, sono convinto che dovremo riparlarne: l’emergenza educativa, di cui tanto si discute, ha, in quello che prevedeva Einaudi, una delle sue radici. [Fonte]

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