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giovedì 22 luglio 2021

"Ecclesiastica loquendi consuetudo" ovvero della convenienza di "dire preghiere"

Grata ad Andrea Sandri per aver ripreso questo articolo, che non conoscevo, su Vigiliae Alexandrinae. Un ulteriore rafforzamento della consapevolezza sulla nostra "Lingua sacra da preservare" [qui - qui].
The Voice of the Church at Prayer (San Francisco 2012, Ignatius Press, pp. 206) è verosimilmente l'ultimo libro di Padre Uwe Michael Lang del Brompton Oratory di Londra, già consultore liturgico di Benedetto XVI. Quest'opera ripercorre lo sviluppo della lingua liturgica dall'antichità cristiana, attraverso il Medioevo (ritorneremo sul capitolo dedicato a "St Thomas Aquinas on Liturgy and Language"), fino all'Età moderna e sostiene la tesi dell'iniziale differenziarsi e della successiva costanza di una lingua (liturgica) con la quale i cristiani si rivolgono al Signore. Così Padre Lang completa e integra il suo precedente studio sull'orientamento (versus orientem) della liturgia [qui], e in particolare della Santa Messa (nella edizione italiana: U.M. Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, Cantagalli, pp. 149): si tratta di pregare rivolti al Signore e proprio per questo di utilizzare una lingua gradita al Signore, un "Sacred Language" (tale è il titolo del II capitolo del libro in esame), una lingua sottratta al comune commercio quotidiano.

Tra l'altro Padre Lang dimostra che la fondamentale importanza di pregare secondo la lingua della Chiesa fu avvertita da Sant'Agostino che definì l'insieme delle peculiari forme linguistiche del cristiano e della comunità cristiana in preghiera "ecclesiastica loquendi consuetudo". Questa sacra consuetudine, senza la quale ogni rivolgersi al Signore appare imperfetto, diventa il tramite autentico della preghiera che, se pronunciata con la Chiesa, è sempre anche un "dire preghiere". Riportiamo qui di seguito, nella nostra traduzione, le riflessioni di Padre Lang su Sant'Agostino:
Agostino era del tutto consapevole di questo fatto [che senza una lingua peculiare e distinta dei cristiani non poteva esserci pienezza della vita cristiana, né la possibilità di tramandare fedelmente la fede alle successive generazioni] e, nel paragrafo citato all'inizio di questo capitolo [Confessiones IX, 5, 13], descrive la sua esigenza di acquisire familiarità con il "dominicum eloquium". In un passo precedente, sempre nel IX libro delle Confessioni [IX, 4, 7], Agostino riflette sul suo congedo dalla scuola di retorica a Milano e sul suo ritiro nella villa di campagna a Cassiciacum, ai piedi delle Alpi:
Eruisti linguam meam unde iam erueras cor meum, et benedicebam tibi gaudens, profectus in villam cum meis omnibus. Ibi quid egerim in litteris iam quidem servientibus tibi, sed adhuc superbiae scholam tamquam in pausatione anhelantibus, testantur libri disputati cum praesentibus et cum ipso me solo coram te. [latino in nota]
Sottraesti la mia lingua da un'attività, cui avevi già sottratto il mio cuore. Partito per la campagna con tutti i miei familiari, ti benedicevo gioioso. L'attività letteraria da me esplicata laggiù interamente al tuo servizio, benché sbuffante ancora, come nelle pause della lotta, di superbia della scuola, è testimoniata nei libri ricavati dalle discussioni che ebbi con i presenti, e con me solo davanti a te.
Queste righe furono scritte tra il 397 e il 401, ossia più di dieci anni dopo gli eventi qui descritti. È dunque con senno di poi che Agostino constatava che, anche dopo l'esperienza della sua conversione, erano rimaste in lui tracce della sua "ambizione mondana". La "scuola della superbia" (superbiae schola), verso la quale si riteneva ancora debitore, non si manifestava tanto nel contenuto degli scritti di questo periodo della sua vita, bensì piuttosto nel suo stile. Durante il suo ritiro a Cassiciacum egli non aveva ancora fatto proprie le forme espressive utilizzate dai Cristiani latini di quell'epoca, di una lingua che si era formata attraverso la frequenza della Bibbia e della liturgia. Così infatti Agostino ripete a se stesso nella sezione seguente delle Confessioni: "Novizio ancora al tuo genuino amore, catecumeno ozioso in villa col catecumeno Alipio" [IX,8]. La penetrante consapevolezza dell'uso della lingua e dei problemi che l'ineriscono, non lo abbandonò fino alla fine della sua vita, quando, nell'anno 426, iniziò a rileggere i propri scritti giovanili componendo una vera e propria opera di revisione conosciuta come le Ritrattazioni. In particolare, nel prologo Agostino, scrive di non volere lasciare inedite le opere composte da catecumeno. Queste erano già state scritte sotto l'ispirazione cristiana ma erano ancora debitrici delle forme letterarie delle scuole secolari. Ciò che Agostino ritiene essere inappropriato nelle sue opere giovanili, emerge con chiarezza dai primi quattro capitoli delle Ritrattazioni. Praticamente nulla del contenuto di quegli scritti è ripudiato: nel loro complesso le ritrattazioni riguardano un particolar modo di periodare ovvero l'uso di parole caratterizzate da una forte connotazione pagana, come fortuna od omen, nei suoi dialoghi Contra academicos, De beata vita e De ordine, scritti a Cassiciacum quando si stava preparando per il battesimo. Durante il suo non comune corso di predicatore e di autore di numerosi scritti teologici Agostino divenne sempre più consapevole del linguaggio peculiare della Chiesa [Church's own way of speaking] che egli definì "ecclesiastica loquendi consuetudo" ossia "ritus loquendi ecclesiasticus". La testimonianza di Agostino conferma che nei primi cinque secoli v'erano forme linguistiche latine proprie del parlare cristiano che trovavano espressione nell'insegnamento, nel culto e nell'organizzazione della Chiesa, e che presentavano connotati distintivi rispetto al linguaggio comune della tarda antichità.
Fonte: U.M. Lang, The Voice of the Church at Prayer, pp. 23-25

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