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mercoledì 21 luglio 2021

Guido Ferro Canale. “Traditionis custodes”: Note a una prima lettura

Prosegue la raccolta degli interventi più significativi sulla Traditionis custodes. Sto preparando l'indice.
“Traditionis custodes”: note a prima lettura
di Guido Ferro Canale

Premessa; 1.1 Diritto transitorio: si può celebrare fino a nuovo ordine; 1.2 La logica del sospetto e le sue conseguenze; 1.3 Campi di rieducazione e Messa ad esaurimento?; 2. La condizione giuridica della Messa tridentina; 3. L’autorità competente; 4. La condizione dei Sacerdoti; 5. I coetus fidelium; 6. Conclusioni.
1. Premessa
Un’analisi canonica del m.p. “Traditionis custodes”, formato e pubblicato il 16 luglio 2021 da S. Giovanni in Laterano, caput et mater omnium ecclesiarum Urbis et orbis,(1) in questo momento non può che risentire dell’impatto immediato del testo e, soprattutto, della mancanza della versione latina; sarà quindi necessario considerar come originale la stesura italiana, perché così indica il Bollettino della Sala Stampa. Il documento si intitola “Sull’uso della Liturgia romana anteriore alla riforma del 1970”, né più né meno come il “Summorum Pontificum”, e sottopone quest’uso a nuove condizioni, più restrittive delle precedenti, abrogando le norme incompatibili. Lo accompagna una Lettera ai Vescovi, senz’altro preziosa per conoscere la mens legislatoris, ma in sé e per sé sprovvista di carattere normativo: serve ad interpretare la legge quando essa è dubbia (cfr. can. 17), non a stabilire qualcosa che in essa non stia scritto.

Ma, soprattutto dinanzi ad una clausola abrogativa che sembra volta a far tabula rasa di tutto il preesistente, occorre ricordare alcuni princìpi generali del diritto canonico che depongono in senso opposto:
  • l’abrogazione per incompatibilità presuppone l’integrale riordino della materia (can. 20); se si modifica solo qualche punto, si ha abrogazione parziale detta anche deroga, ma il resto della disciplina preesistente rimane in vigore;
  • nel dubbio, l’abrogazione non si presume, né la totale né la parziale; anzi, le due leggi vanno conciliate in via interpretativa (can. 21);
  • tutti i provvedimenti in favore di fedeli singoli o associati debbono sempre interpretarsi in modo tale che essi conseguano effettivamente un vantaggio (cfr. cann. 36, 77, 92);
  • le leggi che restringono l’uso dei diritti vanno soggette ad interpretazione stretta (can. 18);
  • il diritto particolare, come ad es. statuti e costituzioni dei religiosi, e le consuetudini ab immemorabili si abrogano solo se espressamente menzionati (cann. 20 e 28).
Il primo punto è particolarmente importante nel nostro caso perché, nonostante l’identità del titolo, in realtà l’ambito di applicazione di questo nuovo m.p. è assai più ristretto. Come già è stato notato in una delle prime reazioni “a caldo”, esso si concentra esclusivamente sulla Messa, senza nulla dire degli altri Sacramenti, dei Sacramentali o del Breviario: su tutto ciò, dunque, il “Summorum Pontificum” resta in vigore.

Veniamo dunque ad esaminare il nuovo regime giuridico delle condizioni cui è sottoposta la celebrazione secondo il Messale del 1962.

1.1 Diritto transitorio: si può celebrare fino a nuovo ordine

Il problema più urgente in assoluto riguarda la fase transitoria, poiché si è prevista un’entrata in vigore immediata della nuova disciplina, che sostanzialmente prevede il riesame, da parte dei Vescovi, di tutte le Messe pubbliche già autorizzate, dei gruppi esistenti e finanche delle Parrocchie personali erette, senza una disciplina transitoria che chiarisca come ci si debba regolare nel frattempo. Per fortuna, soccorrono i cann. 46 e 47: l’autorizzazione a celebrare, prevista anche dal “Summorum Pontificum” rispetto alle richieste di un coetus, è un atto amministrativo, precisamente una licentia, e quindi
  1. conserva il proprio valore anche se cambia la competenza a provvedere, in questo caso trasferita dai Parroci ai Vescovi; a fortiori dunque se, come di fatto nella maggior parte dei casi, è stata concessa dal Vescovo;
  2. per revocarla o modificarla occorre un nuovo provvedimento apposito, che diverrà efficace solo con la notifica ai destinatari.
Stesso discorso riguardo al fatto che è cambiata la legge e vi sono nuove condizioni per autorizzare: il can. 58 §1 prevede che i decreti perdano valore quando cessa la legge in applicazione della quale sono stati emanati; ma, anche se magari qualche atto autorizzativo può essere stato intitolato “decreto”, questo è un errore, non ne muta la natura di licentia e tantomeno incide sul regime applicabile, che è quello dei rescritti (can. 59 §2), i quali non cessano per legem contrariam (can. 73).(2) L’interpretazione opposta, del resto, sarebbe palesemente iniqua: anche gruppi di fedeli che potrebbero benissimo soddisfare i nuovi requisiti e continuare nelle celebrazioni si vedrebbero, invece, costretti ad interromperle per il tempo necessario a vedersi… confermare lo status quo ante. Decisamente poco sensato.

In altre parole: de iure, finché i singoli Vescovi non intervengono, tutto rimane e prosegue come prima.

1.2 La logica del sospetto e le sue conseguenze

Questo ci porta, quasi automaticamente, a trattare i problemi connessi all’occasio legis. Problemi che, a loro volta, possono assumere valore interpretativo rispetto ad un testo normativo dubbio, ex can. 17.

L’unica ragione addotta per l’intervento normativo, cui il Papa si dice perfino “costretto” dalle circostanze, è che “Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni [...] mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la ‘vera Chiesa’.”.

Il fenomeno esiste: non neghiamolo, non nascondiamoci dietro a un dito.

La logica del “Summorum Pontificum” era una logica di riconciliazione. Molti hanno ritenuto di potersi avvalere dei diritti da esso concessi in un senso diametralmente opposto. E troppi sono passati dalle riserve sulla riforma liturgica, in sé perfettamente lecite e pure giustificate, alla negazione radicale della “legittimità” del Messale di Paolo VI, cioè a negare che abbia valore sostanziale di legge canonica in quanto (difettoso, ma comunque) effettivamente ordinato al bene comune. Su tutto il problema, non posso che rimandare a quanto ho scritto altrove solo pochi giorni fa, perché l’argomento è troppo ampio per questa sede; mi limito a dire che questo “rifiuto in linea di principio del valore e della santità [= capacità di santificare] del nuovo rito” non era consentito neanche da Benedetto XVI e la sua diffusione crescente ha offerto ai nemici della Liturgia tradizionale il migliore dei pretesti possibili.

Ma quello che nei singoli come persone private – un nome su tutti: Andrea Grillo, il cui commento alle nuove norme merita attenzione – è un pretesto e nulla più, in bocca al legislatore è diventato causa motiva della legge. Il che, paradossalmente se vogliamo, non è privo di vantaggi: succede spesso, in molti ambiti e diverse circostanze, che quelli che non c’entrano nulla facciano le spese di problemi causati da altri... tuttavia il diritto canonico non segue mai questa logica, perché considera la salvezza di ogni singola anima così importante da piegare anche la lettera della legge; e quindi, per forza di cose, ogni caso e ogni persona fanno storia a sé.

In altre parole: il legislatore ha ritenuto necessario disporre una verifica a tappeto, per accertare “che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici” (art. 3 §1 TC). Ma se avesse ritenuto – come legislatore, al di là delle ipotetiche opinioni personali di J.M. Bergoglio – che tutti o quasi tutti i membri dei gruppi non soddisfino tale requisito, secondo logica avrebbe proibito tout court l’uso del Messale del 1962 nelle Messe cum populo, ripristinando cioè il regime ante 1984.

Invece non lo ha fatto.
Ripeto: non lo ha fatto.

Pertanto, siccome lo vorranno certamente fare moltissimi Vescovi imbevuti di “spirito del Concilio”, è necessario opporre loro l’irrazionalità di una presunzione assoluta di colpevolezza della quale, oltretutto, né il testo normativo né la lettera di accompagnamento recano traccia.

1.3 Campi di rieducazione e Messa ad esaurimento?

Sia la “Quattuor abhinc annos” sia la “Universae Ecclesiae” insistevano sulla necessità di riconoscere “la validità e la legittimità” del Messale di Paolo VI; adesso, l’art. 3 §1 estende il campo a “la riforma liturgica”. La Lettera ai Vescovi chiarisce ampiamente che, nella mens legislatoris, essa si è svolta in piena sintonia con la volontà del più recente Concilio, nonché in modo fedele alla Tradizione, ed è imperativo che i Vescovi operino “perché si torni a una forma celebrativa unitaria”, quella nuova. Ce n’è abbastanza per chiedersi se la “cura pastorale e spirituale dei fedeli”, ex art. 3 §4 TC, non debba consistere – anche o forse soprattutto – nel convincerli che “Chi volesse celebra- re con devozione secondo l’antecedente forma liturgica non stenterà a trovare nel Messale Romano riformato secondo la mente del Concilio Vaticano II tutti gli elementi del Rito Romano, in particolare il canone romano, che costituisce uno degli elementi più caratterizzanti.”.

Senza dubbio deve ritenersi superata la logica del reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano, perché è scomparsa dai programmi l’idea stessa di una “riforma della riforma” in cui si recuperi qualcosa che sarebbe andato perduto: adesso si invoca lo Spirito Santo “perché per la vostra cura e vigilanza esprima la comunione anche nell’unità di un solo Rito, nel quale è custodita la grande ricchezza della tradizione liturgica romana.”. Insomma, il traguardo ideale è sicuramente l’adesione di tutti alla Grande Riforma.

Ma “la realtà è superiore all’idea”.

La legge non ha fissato date di scadenza per l’uso della Liturgia anteriore, non ha prescritto positivamente che esso prosegua solo a patto che i fedeli ne accettino il carattere temporaneo e propedeutico alla loro rieducazione; già solo per questo, sul piano giuridico vale la regola per cui non si presumono né la temporaneità della legge né la precarietà dei diritti o delle stesse grazie (“Decet concessum a principe beneficium esse mansurum”: Regulae Juris in Sexto, n. 16), mentre su quello pastorale si apre quantomeno uno spazio che mi permetto di definire, per analogia, “amorisletiziesco”, in cui i fedeli potrebbero restare a tempo indefinito in una situazione disapprovata, che però è il massimo che Dio chieda loro in quelle date circostanze.
Ma si tratta poi veramente di una situazione disapprovata?
In realtà, la Lettera ai Vescovi sembra distinguere tre situazioni diverse:
  1. “la volontà di favorire la ricomposizione dello scisma con il movimento guidato da Mons. Lefebvre”, che sarebbe il motivo principale dell’indulto del 1984/88; a questo proposito, non si introducono innovazioni, nel senso che il fine di ricomporre lo scisma non può essere ripudiato da alcun Papa, tantomeno poi da uno che ha obiettivamente largheggiato in concessioni a ciò rivolte, e che l’unica disposizione che riguardi i cc.dd. Istituti dell’”Ecclesia Dei” si limita a trasferire la competenza sui medesimi ad altro Dicastero della Curia Romana;
  2. “la possibilità di usare liberamente il Messale Romano promulgato da san Pio V, determinando un uso parallelo al Messale Romano promulgato da san Paolo VI”, vista sostanzialmente come una lettura abusiva, fonte di fenomeni che Benedetto XVI ha inteso regolare e di una categoria di fedeli che “si sono radicati nella forma celebrativa precedente e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II”;(3) qui va notato che si accetta questo loro bisogno di tempo, provvedendo frattanto al loro “bene” mediante le celebrazioni in essere;
  3. l’uso del Messale del 1962 come fonte di contestazione, che deve cessare immediatamente.
Riguardo al punto 2, si può certamente aggiungere che i Vescovi sono esortati ad agire in modo tale da convincere i fedeli a rientrare nei ranghi novusordisti, ma questo dev’essere fatto in modo tale da non spingerli a rompere la comunione ecclesiastica (vedi punto 1) e in particolare mediante l’azione contro gli abusi liturgici invalsi nei riti riformati, “perché ogni liturgia sia celebrata con decoro e fedeltà ai libri liturgici promulgati dopo il Concilio Vaticano II”, sul chiaro presupposto che i fedeli passati al Vetus siano soprattutto disgustati dagli abusi – il che può ben essere stato il loro movente iniziale in molti casi – e che quindi non avrebbero problemi a tornare ad un Novus ben celebrato, opinione a mio avviso destituita di fondamento.

Seguendo tale logica, perciò, bisogna concludere che, almeno finché gli abusi resteranno praticati su vasta scala, le celebrazioni secondo il Messale del 1962 dovranno proseguire: revocarle prima significherebbe spingere alla rottura fedeli che, a quel punto pure secondo il Papa non ritroverebbero affatto la ricchezza della tradizione del rito romano, bensì una Messa falsata; e oltretutto applicherebbe solo a metà una mens pontificia che invece è unitaria.

Superfluo aggiungere che non ritengo affatto probabile un’azione decisa contro gli abusi e che il Vescovo che la intraprendesse, oltre a ritrovarsi senz’altro subissato di critiche dagli stessi settori che osteggiano il rito tridentino, potrebbe perfino non osteggiare quest’ultimo.
2. La condizione giuridica della Messa tridentina
Recita TC art. 1: “I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano.”. La conformità al Concilio apparirà almeno dubbia a chiunque legga il testo della Costituzione sulla Liturgia...(4) e questo ha una certa importanza per l’interpretazione dell’art. 1.

Esso, infatti, abroga per incompatibilità l’art. 1 del “Summorum Pontificum”, là dove stabiliva che le espressioni di codesta unica lex orandi fossero due, la forma ordinaria e la extraordinaria. Lo scopo è essenzialmente privare di rilievo teologico il Messale di S. Pio V: tutta la Tradizione è passata nel Messale nuovo ed è espressa da esso, ci dice la Lettera ai Vescovi. Tesi che non regge alla prova dei fatti, mostrava solo pochi giorni fa Matthew Hazell, almeno riguardo all’eucologia; ma hic et nunc prendiamola per come viene enunciata.

Tutto il resto dell’art. 1 del “Summorum Pontificum” rimane in vigore.

Non viene affatto rinnegata, innanzitutto, l’ingiunzione di attribuire al Messale precedente il debito onore: “Non per contraddire la dignità e grandezza di quel Rito i Vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato”, scrive sempre la Lettera ai Vescovi.

Tantomeno si torna sulla questione chiarita apertis verbis da Benedetto XVI, in forma di legge e quindi con valore di interpretazione autentica ex can. 16 §1: il Messale del 1962 non è mai stato abrogato. A tacer d’altro, se tale fosse stato l’intento, si sarebbero inserite nella clausola abrogativa anche le consuetudini ab immemorabili e gli indulti, visto che la Congregazione per il Culto Divino sa almeno dal 1974 che i tradizionalisti si appoggiano su quelle e su questi, precisamente il c.d. “indulto perpetuo” di S. Pio V, per propugnare la non abrogazione.

Per questa ragione fondamentale, non importa quanto possa suonare diffidente e restrittivo il resto di TC: è tuttora in vigore l’affermazione di principio “celebrare licet”. Anche se bisogna usare cautela con le versioni provvisorie in lingua volgare, ce lo conferma l’uso costante dei termini “autorizzazione” e “autorizzare”: non solo in diritto amministrativo italiano, ma anche in ambito canonico (dove però la terminologia è molto più fluida), si concede qualcosa che in sé non è dovuto o comunque una facoltà che prima non si aveva, ma si autorizza sempre e solo l’esercizio di un diritto che già si possiede.

Quindi si può tuttora parlare di un diritto alla Messa di S. Pio V?

Sì.
Un diritto malmenato, potremmo dire. Sorvegliato a vista con i fucili puntati. Conservato solo in vista di una sua eutanasia più o meno dolce, più o meno incombente. Ma tuttora un diritto.

Almeno per quelli che già si sono “radicati” in questa Liturgia: precisamente il diritto ex can. 214 di “rendere culto a Dio secondo le prescrizioni del proprio rito, approvato dai legittimi Pastori della Chiesa”.(5) Perché un Messale in vigore, per definizione, non si può considerare disapprovato.(6)

Ciò è tanto più vero nel nostro caso, in quanto, malgrado l’indiscutibile logica del sospetto che la anima, la Lettera ai Vescovi sostanzialmente implica che Benedetto XVI abbia sbagliato nella valutazione prognostica sull’assenza di divisioni, sconfessione del Concilio o contestazione della riforma; non però nell’intento di “favorire l’accesso a quanti – anche giovani –, «scoprono questa forma liturgica, si sentono attirati da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia»” e neppure nel sotteso giudizio di fatto. Anzi, nel momento in cui scrive che “Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze...”, tanto da costringerlo (!) a revocarla, il Papa implica che sarebbe o sarebbe stata cosa buona “ricomporre l’unità [...] nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche” e che TC priva i fedeli di qualcosa di buono, in nome di un bene maggiore. Non vi è dubbio che egli consideri preferibili i frutti della riforma liturgica, che assicurerebbero una realizzazione piena della participatio actuosa; si scaglia però contro l’“uso distorto” di un Messale che “Per quattro secoli [...] è stato [...] la principale espressione della lex orandi del Rito Romano, svolgendo una funzione di unificazione nella Chiesa”,(7) non contro il Messale in sé e neppure contro la sensibilità liturgica ad esso legata: vuole insegnarle a trovare quello che cerca nel Messale riformato, ma non dice che cerca cose sbagliate.(8)

Insomma, per questo complesso di ragioni, il diritto al rito tridentino nella versione del 1962 persiste ed esso rimane in vigore. Da più parti si è parlato di una c.d. “abrogazione di fatto”. No: dire “abrogazione di fatto” è una contraddizione in termini, l’abrogazione è un fenomeno giuridico, non un dato empiricamente osservabile.

Invece, ciò che TC indubbiamente vuol fare e fa è sottoporre l’uso di una legge ancora in vigore a condizioni assai più restrittive di prima. Vediamo quali.
3. L’autorità competente
Secondo TC art. 2, “Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi. Pertanto, è sua esclusiva competenza autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica.”.(9)

Questa competenza è esclusiva. Con buona pace dell’articolista di Rorate Caeli, già citato, ciò significa che quella attribuita ai Parroci da SP art. 5 non sopravvive; sopravvivono, però, i provvedimenti da loro fin qui adottati.

Inoltre, poiché le note richiamano la disciplina generale del Codice su poteri e doveri del Vescovo, ad essa si può ben fare riferimento per chiarire cosa significhi “nella diocesi”.

Anzitutto, la potestà esecutiva, che qui viene in gioco, ex can. 136 si esercita sui sudditi (e, a certe condizioni, su chi sia di passaggio nel territorio). Tuttavia, la disciplina prevista per gli Istituti e le Società di diritto pontificio prevede che essi, sebbene non diventino sudditi dell’Ordinario del luogo perché sottoposti alla S. Sede e ai propri Superiori (cfr. can. 134), abbiano tuttavia bisogno della sua autorizzazione per avviare un qualunque tipo di apostolato esterno, ivi comprese le celebrazioni liturgiche aperte alla generalità dei fedeli. Altrimenti detto: il diritto pontificio consente ad un Istituto di stabilirsi dove vuole, perché la sua esistenza è legittimata da Chi possiede giurisdizione piena, suprema, immediata e universale; ma siccome la costituzione divina della Chiesa gli affianca un altro livello, quello dei singoli Vescovi, ogni volta occorre il consenso di quello interessato per poter fare qualunque cosa coinvolga i fedeli commessi alle sue cure.

Quindi, gli Istituti dell’“Ecclesia Dei” possono celebrare senza autorizzazione vescovile al loro interno, non se intendono fare apostolato esterno nella Diocesi in cui si trovano.

Questa, d’altronde, è la situazione che è sempre esistita, di diritto e di fatto, fin dal 1988.

Il che, peraltro, ci conferma che rispetto a tali Istituti nulla è cambiato: i loro Sacerdoti sono autorizzati ipso iure, in forza dei privilegi accordati all’erezione delle singole realtà, e non hanno bisogno di esserlo né dalla S. Sede, che per l’appunto lo ha già fatto in via generale, né dai loro Superiori, ai quali non può estendersi la previsione di TC art. 2, perché, ex can. 134 §3, l’espressione “Vescovo diocesano” non include nemmeno il Vicario generale.
4. La condizione dei Sacerdoti
Com’è noto, l’art. 2 del “Summorum Pontificum” stabiliva la piena libertà, per tutti i preti della Chiesa latina, di celebrare sine populo con l’uno o l’altro dei due Messali Romani in vigore. Novità rilevante, perché fin dal 1969 i vari provvedimenti avevano, invece, sempre richiesto un permesso (dell’Ordinario o della S. Sede) anche per le Messe antiche sine populo.

Gli artt. 4 e 5 di TC ripristinano tale regime autorizzatorio, applicabile in tutti i casi diversi dalle celebrazioni pubbliche per un gruppo stabile, regolate all’art. 3. Debbo nuovamente dissentire dall’articolista di Rorate Caeli, secondo cui andrebbero autorizzate solo le Messe cum populo: la differenza di disciplina tra chi è stato ordinato prima di TC e chi lo sarà dopo, a mio avviso, si spiega soltanto con il fatto che SP 2 è stato considerato un diritto acquisito in permanenza da ogni singolo Sacerdote: si regola la prosecuzione del suo esercizio in avvenire, rimettendola però al Vescovo diocesano. Invece, i futuri ordinati sono assoggettati ad un regime più severo, perché perfino il Vescovo è tenuto a “consultare” la S. Sede. Che non è troppo chiaro cosa dovrebbe o potrebbe valutare meglio di lui, che conosce la persona.

Si dirà che pure per questi ultimi, tuttavia, si parla di autorizzazione, il che implica che anch’essi godano di un diritto.

Sicuro. Ma un diritto fondato su altra base.

L’art. 1 di TC ha abrogato il presupposto dell’espressione forma extraordinaria, che non compare affatto nel resto del nuovo m.p.

E tuttavia, il legislatore ha ribadito, ivi e soprattutto nella Lettera ai Vescovi, che i due Messali appartengono allo stesso rito. Non poteva fare altrimenti, dopotutto, se voleva sottolineare un qualunque genere di continuità fra tradizione liturgica romana e riforma.

Ma allora, se entrambi questi Messali si possono usare, cosa mai saranno se non due forme di uno stesso rito?

Proprio il caso dei neo-ordinandi, a mio avviso, prova che lo restano anche sotto l’imperio di TC

(che forse evita di parlare di forma extraordinaria perché spera che non avrà carattere permanente): ai sensi del can. 846 §2, tutti i ministri latini debbono celebrare i Sacramenti secondo il loro “rito proprio”. Appunto questo era il presupposto di SP 2: se siamo comunque all’interno di uno stesso rito, allora ha senso che ogni Sacerdote di quel rito possa scegliere liberamente tra i due Messali. E per chi era già prete sotto il vigore di tale norma, si è cristallizzato un diritto per cui egli non aveva bisogno di alcun permesso, né dell’Ordinario né della S. Sede;(10) si tratta solo di regolare la prosecuzione del suo esercizio effettivo. Ma se esiste un diritto anche per coloro che non hanno potuto beneficiare di SP 2, quale ne può essere il fondamento? Direi proprio il can. 846 §2, in combinato disposto con le parti ancora in vigore di SP 1: non esiste alcuna contraddizione tra le due diverse versioni, chiamiamole così, del rito romano (dopotutto, è quanto dice anche l’odierna esaltazione della riforma!), sono entrambe in vigore, quindi all’interno del rito proprio il ministro può scegliere. Punto notevolmente importante: non risulta abrogato l’art. 4 del “Summorum Pontificum”, quindi i fedeli potranno comunque essere ammessi alle celebrazioni sine populo.

Questo appare, allo stato, l’unico mezzo per soddisfare le aspirazioni dei coetus che nascessero in futuro e, purtroppo, anche di quelli già nati ma che ancora non hanno visto soddisfatte le proprie “giuste aspirazioni”. Inoltre, corrisponde a quanto raccomandato in generale dal Codice al Sacerdote (can. 906) e all’esercizio di una facoltà spettante ad ogni fedele (can. 923).
5. I coetus fidelium
Per quanto esposto non a caso in esordio, §§ 1.1-1.3, in linea di principio ogni coetus conserva la sua Messa.

Almeno fino a nuovo ordine.

E dunque, in termini pratici, la prima cosa da fare è semplicemente andare avanti. Magari prendendo contatto con il Vescovo, per scrupolo o per prudenza. Ma non per obbligo.

Dopodiché, il Vescovo dovrà in qualche modo sincerarsi che il gruppo in questione non escluda “la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici”.

Di fatto accadrà che alcuni riterranno che l’esistenza stessa di siffatti gruppi implichi un’esclusione radicale di tutto ciò (così contraddicendo lo stesso testo di TC); gli altri, in definitiva, dovranno accontentarsi delle dichiarazioni dei singoli, del fatto che si presentino davanti all’autorità competente e dell’esperienza pregressa nei rapporti con loro, visto che parliamo di coetus che già fruiscono della Messa.

A mio parere, l’indebita esclusione va riferita al coetus come tale: lo esige il tenore letterale, confortato anche dalla logica, perché le posizioni erronee di un aderente non possono nuocere a tutti gli altri, tanto più che il coetus potrebbe benissimo essere una realtà di puro fatto, non formalizzato in associazione neppure a termini di diritto statale, e che non è affatto detto che tutti gli aderenti si conoscano e frequentino anche extra Missam. In concreto, la sola strada praticabile per il Vescovo sembra verificare le dichiarazioni pubbliche dei capi, o di chi comunque gli si presenta in dichiarata rappresentanza del coetus. E siccome non è difficile, oggigiorno, raccogliere ampia messe di commenti su Internet, temo davvero che più di una persona rischi sgradite sorprese.

Va peraltro osservato che, diversamente dalla “Quattuor abhinc annos”, TC non vieta il dubbio sulla validità e legittimità della riforma liturgica, ma soltanto la loro positiva esclusione. Una lettura contraria cozzerebbe contro il can. 212. Non sembra quindi neppure vietato sostenere che il rito antico sia migliore del nuovo, purché non si privi di valore quest’ultimo: affermare che una legge è veramente tale non significa dirla perfetta né considerarla la migliore in assoluto. Certo, non è detto che il mitriato interlocutore sarà tanto comprensivo o così attento alla logica delle distinzioni. Quanto poi all’adesione al Magistero, il massimo dei massimi che questi potrebbe pretendere – forse: ci sono buone ragioni per ritenerla un’imposizione sproporzionata – è la Professione di Fede, richiesta ex can. 833 a chiunque debba assumere un ufficio ecclesiastico, quindi buona a fortiori per chi non pretende certo di svolgere un incarico ufficiale. Nella formula di Giovanni Paolo II, essa prevede un assenso globale a tutto il Magistero, differenziato però secondo i suoi tre gradi (e quindi con implicito riconoscimento dell’esistenza del dissenso lecito da quello mere authenticum); ciò dovrebbe eliminare ogni problema.

Da un punto di vista pratico, il nuovo regime vede qualche luce tra le ombre.

Intanto, le celebrazioni possono essere autorizzate in “uno o più luoghi”, il che permette alle fortunate Diocesi in cui vi sono più Messe di continuare così.

Inoltre, il divieto di tenerle nelle chiese parrocchiali, al di là dell’impressione di apartheid che suscita (e in effetti la riesumazione di questa parte della “Quattuor abhinc annos” si spiega proprio con l’abbandono della logica dell’arricchimento reciproco), almeno in Italia non dovrebbe creare grossi problemi, stante l’abbondanza di chiese non parrocchiali, oratori e cappelle, e all’atto pratico evita anche questioni spinose come l’allestimento del presbiterio, che sono una costante della coabitazione con il Novus.

Infine, il divieto di erigere nuove Parrocchie personali implica, a contrario, che resti ancora in vigore il resto dell’art. 10 del “Summorum Pontificum”: si possono sempre deputare rettori o cappellani, anzi ciò appare perfettamente in armonia con il precetto di TC 3 §4, che giustamente vuole “che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli”.

Fine delle luci.

Un elemento che potrei definire di penombra, nel senso che per me è positivo ma rischia di danneggiare molti fedeli anche inconsapevoli, è il fatto che TC, riferendosi sempre e solo al “Messale del 1962”, esclude la legittimità dell’uso dei Messali ante-riforme di Pio XII. La tendenza al loro recupero ha preso piede negli ultimi anni e forse spiega la quarta domanda del questionario da cui scaturisce TC: “Le norme e le condizioni del Summorum Pontificum sono rispettate?”. Di certo, questa manifestazione di volontà del legislatore priva di valore qualunque consuetudine si stesse formando in tal senso, lasciando al più salvi i privilegi per l’uso della Settimana Santa preriformata di cui godono dom Alcuin Reid e i suoi monaci in Provenza, nonché alcuni Istituti dell’“Ecclesia Dei” se quella che era una facoltà temporanea e ad experimentum non è già spirata. Da un lato, non posso che rallegrarmi di veder chiarito e ribadito quale sia la legge in vigore; dall’altro, temo che si trovino a rischio, magari senza nemmeno sapere o capire perché alcune realtà.

E veniamo alle ombre.

La più pesante è senz’altro il divieto di “autorizzare la costituzione di nuovi gruppi”, che in realtà – siccome i gruppi si creano di fatto, per giunta nell’esercizio di un diritto ex can. 215 – vieta di auto- rizzare Messe per gruppi non ancora esistenti alla data di TC. Si tratta di un vero divieto, non di una mera raccomandazione (“avrà cura” fa da rafforzativo), e l’eventuale dispensa spetta alla Sede Apostolica, dunque alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

Ciò significa, senza alcun dubbio, che si sconfessa la logica sottesa a SP e soprattutto alla “Universae Ecclesiae”, secondo cui questa forma liturgica è un tesoro da offrire a tutti. Logica, del resto, strettamente legata all’idea di una “riforma della riforma” e non compatibile con l’esaltazione dei riti riformati così come stanno (de iure, con netti distinguo rispetto alla prassi).

Tuttavia, già l’indulto di Agatha Christie e quello del 1984 ragionavano in termini di riserva indiana. E gli indiani non si sono affatto estinti.

In più, sarà il caso di notare che, nel testo originario, la “Quattuor abhinc annos” prevedeva addirittura Messe riservate a persone determinate, in sostanza con concessione nominativa. Ma questo regime è caduto nella prassi, anche solo per l’impraticabilità di qualunque genere di controllo di documenti all’ingresso della chiesa, e si è passati ad un diritto riconosciuto al coetus, inteso come gruppo cui possono unirsi altre persone. Questo principio resta valido: nulla, nel testo di TC, lascia intendere un uso di coetus differente da quello di SP e della prassi anche anteriore ad esso. Anzi, lo status quo ante regolato da SP 5 è appunto il presupposto di TC 3.

Rispetto alle celebrazioni occasionali, di cui all’art. 5 §3 SP e non menzionate in TC, ritengo che si debba distinguere: se sono chieste dagli appartenenti al coetus, logica vuole che provveda il Sacerdote delegato dal Vescovo alla loro cura pastorale; là dove non vi sia un coetus preesistente o la richiesta giunga da fuori Diocesi, varrà la competenza generale del Vescovo ai sensi di TC 2; ma un Sacerdote che volesse celebrare sine populo, munito di autorizzazione del proprio Ordinario all’uso di quel Messale, e ovviamente del Celebret richiesto ex can. 903, sarà autorizzato dal Parroco o rettore della chiesa cui si rivolge.

Invece, la facoltà accordata al Vescovo di stabilire i giorni delle celebrazioni stabili significa che non è di per sé assicurata la frequenza settimanale, molto meno il Triduo Sacro (previsto da UE 33); del resto, nei fatti si sono viste fin troppe autorizzazioni episcopali ad experimentum per una volta al mese, o cadenze analoghe.

Tuttavia, una volta di più occorre considerare lo status quo ante.

Qualunque modifica in peggio, soprattutto della frequenza ma anche dell’orario, va ad impattare su una situazione già autorizzata e implica un danno per quei fedeli: come minimo, dovrà essere giustificata e, prima ancora, discussa con gli interessati (cfr. cann. 50 e 51).

Va notato che non è stato abrogato l’art. 7 del “Summorum Pontificum”: i fedeli conservano il diritto al ricorso, che può approdare anche in Segnatura. E siccome questo è il Tribunale – l’unico – dove si fanno valere contro l’amministrazione ecclesiastica le esigenze di giustizia, non di mera opportunità, ne segue che il loro resta un diritto soggettivo. Tanto più che si tratta di un permesso già accordato.

Un’ultima notazione rispetto alla prescrizione di procedere “nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valut[are] se mantenerle o meno.” (TC 3 §5). Non posso fare a meno di trovare insultante verso gli stessi Vescovi l’affermazione, loro indirizzata dalla Lettera, secondo cui tali enti sarebbero nati per ragioni “legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri che al reale bisogno del «santo Popolo fedele di Dio»”: Dio solo sa chi possa aver scritto cosa nelle relazioni inviate a Roma, per provocare un giudizio simile. Ma la valutazione se mantenerle o meno si presenta assai facile per chi ha appena deciso di istituirle, come ad es. l’Arcivescovo di Ferrara; e in generale, siccome gli uffici ecclesiastici hanno carattere stabile per definizione (cfr. can. 145), la loro pur minacciata sopravvivenza corrisponde un po’ a tutto lo status della Messa tridentina all’indomani di TC.
Conclusioni
Cosa accadrà d’ora in avanti dipenderà essenzialmente da tre variabili: l’atteggiamento dei fedeli, dei preti e dei Vescovi.

Riguardo a quest’ultimo, si può ben temere di assistere ad una mattanza di coetus, se non fosse che i più ostili hanno sempre impedito che si autorizzasse qualunque celebrazione. Quindi, al netto degli avvicendamenti e degli adeguamenti al clima politico, potrebbero perfino non scatenarsi troppe tempeste.

La cosa peggiore che i fedeli possano fare in questo momento mi sembra perdere la calma. E perciò mi sembra urgente far sapere a tutti che, per diritto, le celebrazioni in corso continuano a svolgersi regolarmente e tocca ai Vescovi muoversi, se e in quanto lo vogliano fare.

Ma la variabile più importante sono i preti.

Questi non sono gli anni Settanta: il clero si è ridotto fin troppo, ma ciò significa che la percentuale di Sacerdoti interessati a celebrare more antiquo è cresciuta. Inoltre, è calata l’età media. Tutto questo rende minore, ceteris paribus, il rischio di sanzioni.

Che vi sia un certo numero di defezioni per pavidità o carrierismo va messo in conto. Così come un certo numero di fedeli si rivolgerà a lefebvriani, williamsoniani e sedevacantisti, secondo i casi, soprattutto se il loro Vescovo userà la mano pesante.

Ma se, in generale, quei Sacerdoti che con il “Summorum Pontificum” hanno scoperto la Messa tradizionale terranno duro nella volontà di celebrarla, la situazione concreta loro e dei fedeli non peggiorerà. Almeno non per chi ha già ottenuto la celebrazione ai sensi del m.p. precedente; gli altri, oggi, non possono che sperare in forme di soccorso semiclandestine od unirsi a coetus già autorizzati.

Resta da chiedersi, naturalmente, che avvenire possa esistere per gli Istituti dell’“Ecclesia Dei”: anche la loro esistenza deve ritenersi a tempo? Nel testo di TC nulla consente di pensarlo, ma la logica della Lettera ai Vescovi parrebbe esattamente quella: prevarrà lo scopo di ricomposizione dell’unità? Lo potranno dire solo le prime mosse della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata. Va da sé che una nuova crisi del 1999-2000, però su scala ben più vasta, metterebbe queste realtà nella tristissima condizione di dover scegliere tra “piena comunione” e fedeltà al carisma fondativo. Esiste anche l’astratta possibilità che si riesumi la proposta del 2000-2001: far confluire tutti i tradizionalisti, preti e laici, in un’Amministrazione Apostolica con giurisdizione mondiale, de facto una Chiesa rituale anche se con giurisdizione cumulativa con i Vescovi. Ma questo imporrebbe di dire, in sostanza, che si tratta di un rito diverso...

Nel 1988 la questione tradizionalista sembrava sistemata, per non dire spacciata, dalla rottura tra Roma e Léfebvre. Dieci anni dopo, il pellegrinaggio romano delle realtà “Ecclesia Dei” rivelò un popolo giovane, vitale, in crescita.

Come saremo messi noi di qui a dieci anni?

Nello scenario migliore, più o meno tutti i centri di Messa saranno sopravvissuti, dopo l’esodo degli elementi più radicali i coetus avranno ripreso a crescere, gli Istituti dell’“Ecclesia Dei” saranno cresciuti a loro volta e nuovi coetus continueranno a bussare alla porta del Vescovo, o anche del Papa, in cerca di una dispensa dal divieto.

Nel peggiore, vedremo una reazione a catena tra soppressioni, fedeli che reagiscono molto sopra le righe (più comprensibile per me, non per tanti Vescovi), altre soppressioni, preti in fuga e Istituti dell’“Ecclesia Dei” relegati nel ghetto, snaturati o addirittura soppressi. Nessun dubbio che le realtà oggi non in “piena comunione” crescerebbero, ma dubito che arriverebbero a compensare le perdite subite.

La realtà che vedremo sarà, immagino, una via di mezzo tra questi due estremi. Ma in ogni caso c’è una certezza: tra dieci anni, la generazione clerical-sessantottina, infatuata di rivoluzione conciliare, sarà morta o al cronicario. Oggi, codesti personaggi sono il problema principale. Si tratta di arrivare vivi, attivi e in forze a quando costoro non saranno più in forze, attivi e neppure vivi (se non nell’eternità). Già solo per questo, i segni dei tempi non preannunciano il sereno, no, ma indicano più un temporale estivo che un’altra traversata nel deserto di quarant’anni. Questa Messa non è morta allora e non morirà adesso: resta da vedere se potrà ancora essere effettivamente celebrata in “piena comunione” o soltanto al prezzo di rompere con Roma.

E in definitiva, sta a Roma deciderlo.
Genova, 17 luglio 2021, Guido Ferro Canale
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1 Con entrata in vigore immediata, perché – stando almeno alla versione italiana del sito del quotidiano – il giorno stesso è apparso su L’Osservatore Romano.
2 Non può valere in senso contrario l’art. 8 TC, “Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate.”: intanto, a rigore una licentia non è una concessione, perché non accorda una grazia, ma un atto di giustizia che consente di esercitare un diritto che già si possiede; inoltre, tutti gli altri termini (norme, istruzioni, consuetudini) si riferiscono a regole generali e, nel dubbio, deve intendersi che lo stesso valga per questo, da riferirsi pertanto a privilegi; infine, ma non da ultimo, se per l’abrogazione è necessario “che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio”, comunque si deve riesaminare la situazione, dunque in attesa del “risultato” – appunto – di questo giudizio non può che restare in vigore lo status quo ante.
3 Sembra appena il caso di osservare che, in genere, un lefebvriano non “ritorna” alla Messa di Paolo VI, perché non vi ha mai avuto a che fare.
4 Per non parlare di A. REID, Sacrosanctum concilium and the Reform of the Ordo Missae, in Antiphon 3 (2010), pagg. 277-95.
5 Verissimo che l’espressione “rito proprio”, quando è stato scritto il CIC, poteva solo riferirsi ai riti orientali, gli unici che allora fossero organizzati su base personale con relativi problemi di effettività e coesistenza, almeno quando gli Orientali si trovano in territorio latino; ma questo non esclude certo che l’ambito di applicazione di tale diritto si possa estendere in seguito – come di fatto è stato esteso – alla coesistenza tra quelle che sono dette due forme di uno stesso rito, però ai fini pratici del can. 214 (ed eventualmente per analogia) sono due complessi distinti di “praescripta proprii ritus”.
6 Non è inutile un raffronto con la condizione del rito mozarabico: dopo la riforma approvata da Giovanni Paolo II, esso continua ad usarsi là dove si era conservato per privilegio (e si parla di un suo “uso ordinario”, senza particolari problemi o restrizioni), ma vi è la possibilità di un suo “uso extraordinario”, solamente per celebrazioni occasionali autorizzate in via preventiva a condizione (inter cetera) che i fedeli vengano preparati di volta in volta: rispetto a codesto “uso extraordinario” non si dà, evidentemente, un loro diritto perché non hanno potuto “radicarsi” nel rito in questione. Ma sebbene l’uso ordinario del Messale mozarabico sia tanto circoscritto, essenzialmente per ragioni storiche, ciò non implica affatto una sua disapprovazione.
7 Si noti che questa frase implica che le varianti del rito romano rimaste in vigore dopo il 1571 fossero a loro volta “espressioni della lex orandi” del medesimo. Vale a dire che l’idea portata avanti dal “Summorum Pontificum” non viene sconfessata come assurda in sé.
8 Perfino per me, che fin dal 2008 giustifico le “due forme di uno stesso rito” parlando di una “romanità opzionale” del Novus Ordo, il cui problema maggiore sta appunto nell’essere opzionale, questa valutazione, non importa se pontificia, è gravemente erronea. Concedo che, all’interno del nuovo Messale, vi siano (anche) materiali con cui mettere insieme qualcosa di tradizionale; ma proprio il fatto di doverlo mettere insieme è l’antitesi della tradizione liturgica e, comunque, restano lacune notevoli, dalle preghiere dell’Offertorio alla sistematica attenuazione del senso del peccato.
9 A rigore, dovrebbe trattarsi piuttosto di seguire le “norme”; ma il termine più ampio comprende, verosimilmente, anche la prassi della Curia Romana, che del resto è fonte di diritto nel silenzio della legge (can. 19).
10 Andrebbero peraltro considerati ancora validi gli indulti rilasciati dalla Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” fino al 14 settembre 2007, salvo il diritto del Vescovo di riesaminare la situazione. Fonte

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