In tutto il Piemonte c'è solo un Vescovo Cattolico : mons. Cerrato.
La stretta di Papa Francesco arriva nelle diocesi dopo un lungo periodo di ostracismo verso il rito tridentino. Vescovi pavidi e chiese vuote. La "riserva indiana" della Misericordia di Torino
A memoria, non si ricorda una tale tempestività nel far conoscere e dare attuazione a una disposizione della Santa Sede. Spesso, ai tempi di Giovanni Paolo II e di Ratzinger, dei documenti pontifici se ne faceva una discreta e sempre critica menzione, se poi andavano contro o cercavano di mitigare la narrazione progressista imperante in diocesi, venivano totalmente ignorati. Così fu il caso, nel 2007, di Summorum Pontificum del quale si fece di tutto perché non venisse conosciuto nelle sue indicazioni e di cui fu scoraggiata in tutti modi l’applicazione.
L’arcivescovo Severino Poletto, avversario implacabile della Messa antica – che pure fu la Messa del suo sacerdozio e del latino, lingua in cui forse in seminario non eccelleva – si distinse per la sua durezza. È rimasta famosa la registrazione delle parole con le quali, dopo la disposizione ratzingeriana, Poletto metteva in guardia i preti e i seminaristi dal celebrare la Messa antica e ridicolizzava i fedeli considerati, come tuttora, dei minores habentes, definendoli i «picchiati del latino». Un classico caso di obbedienza disobbediente.
Tale fu l’atteggiamento di gran parte di quei cuor di leone dei vescovi piemontesi, sempre forti con i deboli e deboli con i forti, impegnatissimi nella loro missione di «curatori fallimentari». L’allora vescovo di Casale Monferrato, monsignor Alceste Catella, liturgista arrabbiato e sodale dell’ideologo della liturgia riformata Andrea Grillo, scacciò in malo modo gli sconcertati fedeli i quali, esercitando un loro diritto, gli chiedevano umilmente la Messa antica, intimando loro di tradurre la bolla pontificia della sua nomina scritta in latino. L’ex vescovo di Alba, Sebastiano Dho, detto il “tramviere” per la sua divisa d’ordinanza simile ai guidatori degli autobus, scrisse che nella sua diocesi il Concilio era stato pienamente accolto perché nessun oserebbe mai chiedergli la Messa in latino. Si potrebbe parlare di altri vescovi piemontesi, ma si scadrebbe nel grottesco, tanto ridicoli erano i pretesti addotti contro Summorum Pontificum, anche se in alcuni casi non mancarono verso i preti velate minacce di agire mediante la loro esclusione dal sostentamento del clero. Pare che il vescovo di Cuneo e Fossano, monsignor Piero Delbosco, a tutti noto per la sua competenza teologica e dottrinale – si fa ovviamente per dire – non voglia sentire parlare in nessun modo della Messa antica, così che la sua diocesi è diventata un florido centro della Fraternità San Pio X. Anche l’ex vescovo di Biella, il “misericordioso” monsignor Gabriele Mana, si adoperò in tutti i modi perché l’esecrando rito tridentino non prendesse piede e quando a Biella fu annunciata la visita ad Oropa del cardinale Raymond Leo Burke, uno dei cardinale dei “dubia” su Amoris Laetitia, proibì ai preti ogni contatto con il cattivo porporato, mentre poco tempo dopo non batté ciglio quando Emma Bonino tenne indisturbata una conferenza in una chiesa parrocchiale della sua diocesi.
Prima ancora di Summorum Pontificum, nel 2004, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti emanava l’istruzione Redemptionis Sacramentum che trattava in modo particolareggiato dei numerosi abusi che si erano diffusi nella celebrazione della Messa e, in particolare, «su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia».
A Torino, su disposizione esplicita di uno dei due vescovi ausiliari – il più influente – del documento non comparve nemmeno un cenno sul settimanale diocesano e meno che mai un commento dell’ufficio liturgico, sempre pronto a discettare, con prosa oracolare, sulla disposizione dei fiori o sulla posizione del crocifisso che non deve mai stare al centro dell’altare. Ancora oggi Redemptionis Sacramentum è completamente sconosciuto o considerato uno dei tanti errori di Giovanni Paolo II e del suo teologo Joseph Ratzinger.
Questa volta invece, don Paolo Tomatis, il liturgista princeps della diocesi, funzione che svolge insieme alla simpatica Morena Baldacci che, lasciato il mistico velo, è diventata la teorica della «comunità celebrante», ha commentato il motu proprio di Francesco sulla prima pagina del settimanale diocesano. Con malcelata soddisfazione, ha illustrato il documento che, oltre ad inibire la formazione di gruppi di laici – altro che accoglienza o declericalizzazione! – impone al vescovo di consultare addirittura la Santa Sede prima di concedere l’autorizzazione ai preti che saranno ordinati dopo il motu proprio e che vogliano celebrare la Messa antica, creando delle proprie liste di proscrizione. La conclusione del liturgista è perentoria: «Non si tratta di abolire l’uso del Messale precedente, ma di non incoraggiarlo in alcun modo». Che è esattamente quello che è stato fatto fino ad ora. Perché dunque tanto inusitato zelo? Che cosa si teme? Ma, soprattutto, di cosa stiamo parlando?
Nel dopo Concilio torinese, i pochi fedeli che continuavano a partecipare alla Messa antica si stringevano attorno alla veneranda figura di monsignor Attilio Vaudagnotti (1889-1982) che, come rettore della chiesa della SS. Trinità, continuava imperterrito a celebrarla incurante, data l’età e il prestigio goduto come insegnante di teologia a generazioni di preti, delle reprimende della curia. Sia il cardinale Michele Pellegrino, sia il suo successore Anastasio Ballestrero erano ostili alla Messa antica, vista come un nostalgico «ritorno indietro». Varie richieste non vennero mai prese in considerazione. Nel 1988, la Santa Sede emanò il motu proprio Ecclesia Dei afflicta che concedeva ai vescovi di autorizzare la Messa antica a favore di «tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina mediante un’ampia e generosa applicazione» di un indulto che ne permettesse la celebrazione. L’anno dopo il cardinale Giovanni Saldarini concesse l’indulto e dispose che una Messa celebrata con il Messale di Giovanni XXIII, potesse essere celebrata in diocesi.
Da allora la Messa antica si è continuata a celebrare presso la chiesa della Misericordia, affidata alla omonima arciconfraternita, dai rettori della chiesa di via Barbaroux, prima da monsignor Oreste Bunino e poi da monsignor Renzo Savarino. A quest’ultimo Poletto, successore di Saldarini, chiese più volte di trovare un pretesto per far cessare tale “scandalo”. Anche dopo Summorum Pontificum che liberalizzava la Messa antica, la Misericordia ha continuato ad assolvere il suo compito di “riserva indiana” o di ghetto al quale venivano indirizzati i fedeli di tutta la vasta diocesi che chiedevano ai parroci e alla curia di applicare quanto stabilito da una legge della Chiesa.
Una sorta di “male minore” rispetto al motu proprio di Papa Benedetto che consentiva ai preti di celebrare liberamente la Messa antica anche nelle parrocchie. Oggi, nella chiesa di via Barbaroux vi si celebra ogni domenica la Messa secondo il Messale del 1962 da parte di don Francesco Saverio Venuto, successore di monsignor Savarino sulla cattedra di storia della Chiesa alla facoltà teologica, nonché studioso del Vaticano II. Vi partecipavano, prima del Covid, poco meno un centinaio di fedeli provenienti da tutta la diocesi, per lo più di mezza età ma anche molti giovani, in piena comunione con i legittimi pastori. Prova ne sia che nel 2019 anche l’arcivescovo Nosiglia ha assistito alla Messa, tenuto l’omelia e distribuito l’Eucaristia ai fedeli e così pure ha fatto successivamente il suo vicario generale monsignor Danna. Recentemente, don Andrea Pacini, parroco di S. Agostino, moderatore del distretto pastorale del centro nonché presidente della commissione ecumenica, stimato docente di teologia ma anche esperto di liturgia e musica sacra senza pregiudizi, vi ha celebrato.
Se questa è la situazione, non si comprende proprio quale pericolo i fedeli legati alla Messa antica – che con Traditionis Custodes, transiteranno dalla riserva indiana alla specie protetta tenuta in gabbia in attesa di estinzione o di «conversione» - possano rappresentare per l’unità della Chiesa. Sembrerebbe che si voglia sparare ad una formica con un cannone.
La situazione è infatti paradossale. I gruppi stabili esistenti che frequentano la Messa antica dovranno essere interrogati sulla loro adesione al Vaticano II che, sia detto per inciso, ben poco giustifica, nei suoi testi – a cominciare dal latino – e nella sua intentio, l’attuale prassi ecclesiale, mentre chi vuole celebrare e pregare con il rito di Paolo VI è automaticamente dispensato dal pronunciarsi su alcune questioni “secondarie” come il Credo, la divinità di Cristo o l’azione salvifica dei Sacramenti, dati per acquisiti e che invece non lo sono affatto, come bene sanno i lettori del nostro giornale. In realtà, il vero obiettivo sono quei giovani preti e quei laici altrettanto giovani che in questi anni di libertà hanno assaporato la bellezza e la sacralità della Messa antica e che, pur fedeli al messale di Paolo VI, si sono convinti, come diceva Benedetto XVI che «ciò che le generazioni precedenti ritenevano sacro, rimane sacro e grande anche per noi, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o addirittura considerato dannoso».
Si tornerà allora alla situazione precedente all’indulto del 1989? Qualche liturgista, la cui differenza con il terrorista è – come disse il cardinale Ratzinger – che con il secondo si può trattare mentre con il primo no – ci proverà senz’altro invocando, ma solo in questo caso, la legge canonica. La situazione è però da allora radicalmente mutata. Nella Chiesa di Torino, il popolo sta scomparendo e il poco clero appare esausto e sfibrato. Come vari osservatori laici hanno colto, le diocesi piemontesi somigliano sempre di più ai resti di quelle Chiese del nord Europa che, secolarizzandosi, non contano più nulla. La blogsfera poi rende tutto evanescente e tutto pone in discussione. Infine, è l’anagrafe che condanna i progressisti o, almeno, i più accaniti. È solo questione di tempo.
Il professor Tomatis conclude il suo intervento sul settimanale diocesano auspicando che adesso, sistemati i «sediziosi» tridentini, ci si concentri sul nuovo Rito – cosa che si fa da cinquant’anni – e si impari l’ars celebrandi con «esprit de finesse»: tutti sanno con quanto sospetto vengano visti i preti che celebrano con il messale di Paolo VI osservando diligentemente le norme (le esecrate «rubriche») o, come si diceva un tempo pie, attente, ac devote. La stessa struttura del nuovo Messale, la cui ultima edizione, a detta di tanti preti, si presenta iconograficamente orribile, autorizza ampiamente il “fai da te” per cui il cardinale Giuseppe Siri, richiesto di un parere rispose semplicemente: vel, vel, vel, oppure, oppure, oppure.
Si dice che la lobby gay, ben presente nelle diocesi e nelle curie piemontesi, sia al settimo cielo poiché Traditionis Custodes li ripaga, con la sua durezza verso i tradizionalisti, delle «sofferenze» che devono sopportare in vista di una Chiesa finalmente al passo con i tempi. Non è mancato, per la verità, qualche raro e intelligente esponente delle correnti progressiste che si è detto preoccupato della brutalità e della sgangheratezza, soprattutto canonica, con la quale sono stati colpiti i tradizionalisti, forse perché non è detto che il prossimo colpo venga assestato a loro.
Con Papa Francesco – e lo sa bene anche qualche prelato torinese che ha frequentato e vissuto il clima di autoritarismo peronista della curia romana – non si è mai sicuri di nulla. Hodie mihi, cras tibi. (Eusebio Episcopo - Fonte)
Con Papa Francesco – e lo sa bene anche qualche prelato torinese che ha frequentato e vissuto il clima di autoritarismo peronista della curia romana – non si è mai sicuri di nulla. Hodie mihi, cras tibi. (Eusebio Episcopo - Fonte)
Posso solo dire con stupore e rincrescimento che: da una parte si cerca di creare un rapporto duraturo con le altre religioni, dall'altra invece c'è una chiusura mentale rigida proprio nella nostra millenaria religione. Dove ci porterà questa strana novità?
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