Sul tema, annunciato qui e tuttora caldissimo, fioriscono commenti a non finire. Tra i più rilevanti, riprendo anche quello del prof. Roberto De Mattei, pertinente e ben articolato. Suscettibile di ulteriori centrati approfondimenti. Troverete, inseriti nel testo, una nota e i link a vari interessanti collegamenti. Estraggo il focus: "Sul piano del diritto, la revoca del libero esercizio del singolo sacerdote di celebrare secondo i libri liturgici anteriori alla riforma del di Paolo VI, è un atto palesemente illegittimo. Il Summorum Pontificum di Benedetto XVI ha ribadito infatti che il Rito tradizionale non è mai stato abrogato e che ogni sacerdote ha il pieno diritto di celebrarlo in qualsiasi parte del mondo. Traditionis custodes interpreta quel diritto come un privilegio, che, come tale, viene ritirato dal Supremo Legislatore. Questo modus procedendi, tuttavia, è del tutto arbitrario, perché la liceità della Messa tradizionale non scaturisce da un privilegio, ma dal riconoscimento di un diritto soggettivo del singolo fedele, laico, chierico o religioso che sia. Benedetto XVI infatti non ha mai “concesso” nulla, ma ha solo riconosciuto il diritto di usare il Messale del 1962, «mai abrogato», e a fruirne spiritualmente."
Traditionis custodes: una guerra sull’orlo dell’abisso
Roberto De Mattei
Roberto De Mattei
L’intento del Motu proprio di papa Francesco Traditionis custodes, del 16 luglio 2021, è quello di voler reprimere ogni espressione di fedeltà alla liturgia tradizionale, ma il risultato sarà quello di accendere una guerra che si concluderà inevitabilmente con il trionfo della Tradizione della Chiesa.
Quando, il 3 aprile 1969, Paolo VI promulgò il Novus Ordo Missae (NOM), la sua idea di fondo era che, da lì a pochi anni, la Messa tradizionale sarebbe stata solo un ricordo. L’incontro della Chiesa con il mondo moderno, che Paolo VI auspicava in nome di un “umanesimo integrale”, prevedeva la scomparsa di tutti i retaggi della Chiesa “costantiniana”. E il Rito Romano antico, che san Pio V aveva restaurato nel 1570, dopo la devastazione liturgica protestante, sembrava destinato a scomparire.
Mai previsione si rivelò più sbagliata. Oggi i seminari sono privi di vocazioni e le parrocchie si svuotano, talvolta abbandonate da sacerdoti che annunciano il loro matrimonio e il loro rientro nella vita civile. Al contrario, i luoghi in cui si celebra la liturgia tradizionale e si predica la fede e la morale di sempre sono gremiti di fedeli e sono vivai di vocazioni. La Messa tradizionale viene celebrata regolarmente in 90 Paesi di tutti i continenti, e il numero dei fedeli che vi partecipano è andato crescendo di anno in anno, alimentando sia la Fraternità San Pio X, sia gli istituti Ecclesia Dei nati dopo il 1988. Il coronavirus ha contribuito a questa crescita dopo che, in seguito all’imposizione della comunione in mano, molti fedeli, disgustati dalla dissacrazione, hanno lasciato le loro parrocchie per andare a ricevere la Santa Eucarestia nei luoghi in cui si continua ad amministrarla in bocca.
Questo movimento di anime nasce come reazione a quella “assenza di forma” della nuova liturgia, di cui ha ben scritto Martin Mosebach nel suo saggio Eresia dell’informe (tr. it. Cantagalli, 2009) [qui]. Se autori progressisti come Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio, lamentano la scomparsa sociale della Chiesa (La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo, Tempi nuovi, 2021)1, una delle cause è proprio l’incapacità di attrazione della nuova liturgia che non riesce ad esprimere il senso del sacro e della trascendenza. Solo nella assoluta trascendenza divina si esprime l’estrema vicinanza di Dio all’uomo, ha osservato il cardinale Ratzinger nel libro che, prima dell’elezione al pontificato, dedicò alla Introduzione allo spirito della liturgia (San Paolo, Milano 2001). L’allora Prefetto della Congregazione per la fede, che aveva sempre messo la liturgia al centro dei suoi interessi, divenuto papa Benedetto XVI, promulgò, il 7 luglio 2007, il Motu proprio Summorum Pontificum con cui restituì pieno diritto di cittadinanza al Rito Romano antico (infelicemente definito “forma straordinaria”), che giuridicamente non era mai stato abrogato ma che, di fatto, era stato per quarant’anni interdetto.
Il Summorum Pontificum ha contribuito alla moltiplicazione dei centri di Messa tradizionale e alla fioritura di un’abbondante serie di studi di alto livello sulla vecchia e nuova liturgia. Al movimento di riscoperta della liturgia tradizionale da parte dei giovani, si è accompagnata una letteratura talmente abbondante che non è possibile darne qui conto. Tra le opere più recenti, basti ricordare gli scritti dell’abbé Claude Barthe, Histoire du missel tridentin et de ses origines (Via Romana, 2016, tr. it. Solfanelli, 2018) e La Messe de Vatican II. Dossier historique (Via Romana, 2018); di Michael Fiedrowicz, The Traditional Mass: History, Form, and Theology of the Classical Roman Rite (Angelico Press, 2020) e di Peter Kwasniewski, Noble Beauty, Transcendent Holiness: Why the Modern Age Needs the Mass of Ages (Angelico, 2017, tr. it. Fede e Cultura, 2021). Nessuno studio di altrettanto valore è stato prodotto nel campo progressista. [Tra così autorevoli firme, mi permetto di inserire, almeno per lettori del blog, anche il mio saggio: Maria Guarini, «La questione liturgica. Il rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae dal Vaticano II all'epoca dei ‘due papi’» qui - qui]
Di fronte a questo movimento di rinascita culturale e spirituale, papa Francesco ha reagito incaricando la Congregazione per la Dottrina della Fede di inviare ai vescovi un questionario sull’applicazione del Motu proprio di Benedetto XVI [qui - qui]. L’indagine è stata sociologica, ma le conclusioni che Francesco ne ha tratto sono ideologiche. Non occorre un sondaggio per vedere come le chiese frequentate dai fedeli legati alla tradizione liturgica siano sempre piene e le parrocchie ordinarie vadano sempre più a spopolarsi. Ma nella lettera ai vescovi [qui] che accompagna il Motu proprio del 16 luglio papa Francesco afferma: «Le risposte pervenute hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire. Purtroppo l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso «fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente» è stato spesso gravemente disatteso». «Mi rattrista – aggiunge Francesco – un uso strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”». Perciò «prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu proprio».
Papa Francesco non ha ritenuto di intervenire di fronte alla lacerazione dell’unità prodotta dai vescovi tedeschi [da qui si può risalire ai precedenti] , caduti spesso nell’eresia in nome del Concilio Vaticano II, ma sembra convinto che le uniche minacce all’unità della Chiesa vengano da chi sul Vaticano II ha sollevato dubbi [qui et alia qui], come dubbi sono stati sollevati sull’Amoris laetitia [qui], senza che mai sia giunta risposta. Da qui l’art. 1 del Motu proprio Traditionis custodes, secondo cui «i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano».
Sul piano del diritto, la revoca del libero esercizio del singolo sacerdote di celebrare secondo i libri liturgici anteriori alla riforma del di Paolo VI, è un atto palesemente illegittimo. Il Summorum Pontificum di Benedetto XVI ha ribadito infatti che il Rito tradizionale non è mai stato abrogato e che ogni sacerdote ha il pieno diritto di celebrarlo in qualsiasi parte del mondo. Traditionis custodes interpreta quel diritto come un privilegio, che, come tale, viene ritirato dal Supremo Legislatore. Questo modus procedendi, tuttavia, è del tutto arbitrario, perché la liceità della Messa tradizionale non scaturisce da un privilegio, ma dal riconoscimento di un diritto soggettivo del singolo fedele, laico, chierico o religioso che sia. Benedetto XVI infatti non ha mai “concesso” nulla, ma ha solo riconosciuto il diritto di usare il Messale del 1962, «mai abrogato», e a fruirne spiritualmente.
Il principio che il Summorum Pontificum riconosce è l’immutabilità della bolla Quo primum di san Pio V del 14 luglio 1570. Come osserva un eminente canonista, l’abbé Raymond Dulac (Le droit de la Messe romaine, Courrier de Rome, 2018), lo stesso Pio V non ha introdotto nulla di nuovo, ma ha restaurato una liturgia antica, conferendo in perpetuo ad ogni sacerdote il privilegio di celebrarla. Nessun Papa ha il diritto di abrogare o mutare un rito che risale alla Tradizione Apostolica e che si è formato nel corso dei secoli, quale è la cosiddetta Messa di san Pio V, conferma il grande liturgista mons. Klaus Gamber, nel volume che, nell’edizione francese, reca la prefazione del cardinale Ratzinger (La Réforme liturgique en question, Editions Sainte-Madeleine, 1992).
In questo senso, il Motu proprio Traditionis custodes può essere considerato un atto più grave dell’esortazione Amoris laetitia. Non soltanto, il Motu proprio ha delle applicazioni canoniche di cui l’esortazione post-sinodale è priva, ma mentre la Amoris laetitia [qui], sembra concedere l’accesso all’Eucarestia a chi non ne ha diritto, Traditionis custodes, priva del bene spirituale della Messa di sempre coloro che a questo bene irrinunciabile hanno diritto e di cui hanno bisogno per perseverare nella fede.
E’ evidente poi l’impianto ideologico di considerare a priori come settari i gruppi di fedeli legati alla tradizione liturgica della Chiesa. Di loro si parla come fossero sediziosi che vanno posti sotto osservazione senza criteri di giudizio (cfr. nn. 1, 5 e 6), se ne limita il diritto di associazione e si impedisce al Vescovo di poterne approvare altre, limitando il diritto proprio dell’Ordinario (cfr. Codice di Diritto Canonico, can. 321, §2). I gruppi di fedeli, infatti, finora sono sorti spontaneamente e si sono fatti portavoce di alcune istanze presso le legittime Autorità, ma non sono mai stati “autorizzati”. Considerare necessaria l’autorizzazione per la nascita di un gruppo costituisce un grave vulnus alla libertà d’associazione dei fedeli che lo stesso Vaticano II ha propugnato, così come del resto viola il Concilio la disposizione che trasforma i Vescovi in meri esecutori della volontà papale.
La Traditionis Custodes conferma il processo di accentramento del potere di papa Francesco, in contraddizione con i suoi continui richiami alla “sinodalità” nella Chiesa [qui parlo di sinodismo]. A parole spetta “esclusivamente” al vescovo regolare la Forma Straordinaria nella sua diocesi, ma di fatto il Motu proprio (cfr. art. 4) limita la discrezionalità e l’autonomia del vescovo dove dispone che non sia sufficiente la sua autorizzazione per la celebrazione della messa richiesta da un sacerdote diocesano ma debba comunque chiedersi un placet della Sede Apostolica. Ciò vuol dire che il vescovo non può concedere quella autorizzazione (che non viene mai definita facoltà, dunque sembra essere più che altro un privilegio) in via autonoma ma la sua decisione deve comunque essere vagliata dai “superiori”. Come osserva il padre Raymond de Souza «i regolamenti più permissivi sono vietati; quelli più restrittivi sono incoraggiati».
L’obiettivo è chiaro: eliminare col tempo la presenza del rito tradizionale per imporre il Novus Ordo di Paolo VI come unico rito della Chiesa. Per raggiungere questo obiettivo è necessaria una paziente rieducazione dei riottosi. Dunque, come si legge nella lettera ai vescovi, «le indicazioni su come procedere nelle diocesi sono principalmente dettate da due principi: provvedere da una parte al bene di quanti si sono radicati nella forma celebrativa precedente (n.d.r. il Rito Romano antico) e hanno bisogno di tempo per ritornare al Rito Romano promulgato dai santi Paolo VI e Giovanni Paolo II (n. d. r. il Rito Romano nuovo o Novus Ordo Missae); interrompere dall’altra l’erezione di nuove parrocchie personali, legate più al desiderio e alla volontà di singoli presbiteri che al reale bisogno del “santo Popolo fedele di Dio”».
Non ha torto Tim Stanley quando, sullo Spectator del 17 luglio, la definisce una «guerra senza misericordia» contro il Rito antico (The Pope’s merciless war against the Old Rite). Benedetto XVI, con il Summorum pontificum, ha riconosciuto pubblicamente l’esistenza di una immutabile lex orandi della Chiesa che nessun Papa potrà mai abrogare. Francesco manifesta invece il suo rifiuto della lex orandi tradizionale e, implicitamente, della lex credendi che il Rito antico esprime. La pace che il Motu proprio di Benedetto XVI aveva tentato di assicurare nella Chiesa è finita e Josef Ratzinger, otto anni dopo la sua rinuncia al pontificato, è condannato ad assistere alla guerra che il suo successore ha scatenato, come nell’epilogo di una tragedia greca.
La lotta si svolge sull’orlo dell’abisso dello scisma. Papa Francesco vuole precipitarvi i suoi critici, spingendoli a costituire, di fatto, se non di principio, una “vera Chiesa” a lui opposta, ma egli stesso rischia di sprofondare nell’abisso se insiste nel contrapporre la chiesa del Concilio a quella della Tradizione. Il Motu proprio Traditionis Custodes è un passo in questa direzione. Come non rilevare la malizia e l’ipocrisia di chi si propone di distruggere la Tradizione autodefinendosi «custode della Tradizione»? E come non osservare che ciò avviene proprio in un momento in cui eresie ed errori di ogni tipo devastano la Chiesa?
Se la violenza è l’uso illegittimo della forza, il Motu proprio di papa Francesco è un atto oggettivamente violento perché prepotente ed abusivo. Sbaglierebbe però chi volesse rispondere alla illegittimità della violenza con forme illegittime di dissenso.
L’unica resistenza legittima è quella di chi non ignora il diritto canonico e crede fermamente nella visibilità della Chiesa; di chi non cede al protestantesimo e non pretende di farsi Papa contro il Papa; di chi modera il suo linguaggio e reprime le passioni disordinate che possono spingerlo a gesti inconsulti; di chi non scivola in fantasie apocalittiche e mantiene un fermo equilibrio nella tempesta; di chi, infine, tutto fonda sulla preghiera, nella convinzione che solo Gesù Cristo e nessun altro salverà la sua Chiesa. (Roberto De Mattei - Fonte)
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Nota di Chiesa e post-concilio
1. Sandro Magister, nel suo recente articolo: Conclave in vista, tutti a prendere le distanze da Francesco [qui] lo cita espressamente, insieme ad altri, che "...si propongono come un “think tank” offerto alla Chiesa per il suo cammino. Senza criticare nulla dell’attuale pontificato, ma nemmeno esaltandolo. Ne parlano poco e in forma elusiva, come stando a distanza da una parabola ormai giunta al suo tramonto. Che è esattamente la loro premessa per ragionare sul futuro papa... Riccardi e soci il candidato giusto l’avrebbero. È il cardinale Matteo Zuppi, 66 anni, arcivescovo di Bologna e pronipote di un altro cardinale, Carlo Confalonieri (1893-1986), che fu anche segretario di papa Pio XI, ma soprattutto cofondatore, con lo stesso Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio, indiscutibilmente la più potente, influente e onnipresente lobby cattolica degli ultimi decenni, a livello mondiale".
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