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martedì 31 agosto 2021

La manipolazione delle menti parte sempre da quella del linguaggio

Lo capì nel 1933 Victor Klemperer, filologo tedesco: perseguitato dai nazisti in quanto ebreo, annotò in un diario tutti gli stravolgimenti operati dalla neo-lingua nazista per soffocare il pensiero alternativo. Ma i suoi appunti hanno molto da insegnare ancor oggi. Ecco perché...

La manipolazione delle menti parte sempre da quella del linguaggio

Quando si pensa alla Germania nel periodo del Terzo Reich, è impossibile non chiedersi come abbia fatto un Paese di 80 milioni di abitanti, oltretutto tecnologicamente molto avanzato, a cadere in mano a un partito inizialmente minoritario che finì per trascinare in guerra il mondo intero.

Senza dubbio hanno avuto un ruolo la debolezza della Repubblica di Weimar, la voglia di rivincita per l’umiliazione patita alla fine della Prima Guerra Mondiale e gli esorbitanti danni di guerra da pagare, ma c’è dell’altro. Una volta preso il potere, uno dei primi provvedimenti del partito nazionalsocialista fu l’edificazione di un potente apparato propagandistico, grazie al quale la costruzione del consenso andava di pari passo con la repressione delle voci contrarie.

A darne testimonianza fu il filologo Victor Klemperer, che assistette all’evoluzione della Germania in Stato totalitario, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Professore universitario di francese a Dresda, Klemperer perse il posto, la casa e persino l’automobile a causa delle sue origini ebraiche, benché fosse battezzato e sposato con una donna non ebrea.

Miracolosamente, Klemperer riuscì a scampare sia alla deportazione che al tragico bombardamento di Dresda, che distrusse anche la “Casa degli Ebrei”, dove abitava.

Intuendo che l’indottrinamento delle masse passava per la manipolazione del linguaggio, per ben 12 anni Klemperer tenne un diario(in codice, perché clandestino) dove annotava caso per caso la sistematica “nazificazione” del tedesco.

Infatti, il mezzo di propaganda più efficace del sistema hitleriano non erano i monologhi di Hitler e Goebbels, che pure venivano portati da radio e giornali in ogni casa; ma le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente.

Klemperer lo sintetizza citando il poeta Friedrich Schiller: “La lingua colta che crea e pensa per te”. “Ma la lingua – aggiunge l’autore – non si limita a creare e pensare per me: dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei”. E quindi è naturale che la povertà di linguaggio corrisponda a quella delle idee. In questo modo, un vuoto concettuale venga fatalmente riempito da qualcos’altro, cioè da “parole d’ordine”, che non lasciano spazio né alla discussione né alla riflessione, anzi: sono espressioni accomunate dal timore del pensiero difforme, se non dall’odio per il ragionamento. Ne sono un esempio termini usatissime dai media di oggi, come “no mask”, “fascista”, “razzista”, “negazionista” o anche il recentissimo “sorci”, ormai slegate dal loro significato originario per diventare “conversation stoppers”, parole che servono solo a troncare una discussione.

Ma come ha fatto il nazionalsocialismo a penetrare così in profondità, anche nelle menti dei tedeschi che non si sentivano convintamente nazisti? La ragione sta nel fatto che il nazionalsocialismo, in fin dei conti, era una fede, proprio come poteva esserlo quella cristiana. L’autore lo spiega descrivendo la solennità delle manifestazioni di piazza, copiate dallo stile del fascismo italiano e potenziate con una coreografia “liturgica”, da cerimonie religiose. Ad esempio, quella per il giuramento delle nuove truppe, oppure quella che si svolgeva presso la Loggia dei Marescialli (a Monaco di Baviera) dedicata ai membri del partito morti nel corso del fallito colpo di stato del 1923, e definiti “martiri”. Nel corso di questa cerimonia, la bandiera macchiata del sangue dei “martiri” veniva usata per “benedire” gli stendardi dei nuovi reparti. A ogni tocco di benedizione, un colpo di cannone solennizzava il momento. Non si tratta certo di un unicum o di una stravaganza, dato che c’era tutto un vocabolario rubato al cristianesimo e messo al servizio della nuova “mistica”: “Regno” (Reich), “Natale della Grande Germania” (1938), “veglia del sangue”, “millenario”, “Provvidenza”, “eterno” (lo doveva essere il Terzo Reich) mentre addirittura nel 1932, Hitler concluse un suo discorso con un “amen”.

Altro fatto, apparentemente di minore importanza, ma in realtà significativo, era il divieto di utilizzare per i bambini nomi di specifica origine ebraica o cristiana. A questo punto, è ovvio che ogni discussione sulla presunta conciliazione tra nazismo e cristianesimo diventi superflua: è l’autore stesso ad annotare che “chi prendeva sul serio la fede cattolica ora stava al fianco degli ebrei nella medesima, mortale inimicizia per Hitler”. E in effetti il Terzo Reich, pur di diventare la nuova religione dello Stato, e nonostante il Concordato (Reichskonkordat) con la Chiesa, programmava inevitabilmente di spazzare via il suo concorrente, cioè il cristianesimo (cattolico o protestante che fosse), accusato di avere corrotto la razza tedesca con le sue “radici ebraiche” o “siriache”.

Il nuovo messia non poteva che essere Adolf Hitler, che avrebbe sloggiato il vecchio Messia ebraico, Gesù Cristo, inalberando la sua nuova croce (uncinata). Tanto che molti tedeschi arrivarono non solo a credere ciecamente in lui e nella vittoria finale fin quasi all’ultimo giorno di guerra, ma anche a pensare di dovergli la vita. Questo nuovo Vangelo era talmente pervasivo che la professione di fede nazionalsocialista (ad esempio, concludendo una lettera privata con “Heil Hitler!”) era qualcosa di naturale anche nei tedeschi meno fanatici, difficile da sradicare dai cuori e dalle menti anche a guerra finita, a guerra perduta.

Nel dopoguerra, Klemperer riottenne la propria cattedra universitaria e pubblicò il proprio diario, in seguito apparso anche in Italia col titolo “LTI – Lingua del Terzo Impero” (Ed. Giunti). Si stabilì nella DDR e morì a Dresda nel 1960.

A più di 70 anni dalla sua pubblicazione, “Lingua del Terzo Impero” è un libro che davvero non dimostra la sua età, perché fa memoria di un tragico passato, ma sa parlare anche al presente: d’altra parte, quello di piegare la lingua a strategie politiche è un vizio che non passa mai di moda. Il diario di Klemperer, nato “in cifra”, paradossalmente può aiutare a “decifrare” la lingua di coloro che cercano di celare la verità dietro le parole. (Gianmaria Spagnoletti - Fonte)

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