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mercoledì 18 agosto 2021

L'«odore delle pecore» e il «profumo di Cristo». Gli «unti» dell'AT e l'Unto, cioè il Messia...

Riprendo l'articolo, pubblicato qui nell'aprile 2013, a seguito dell'omelia di quel primo tragico Giovedì Santo in cui ho cominciato a scoprire le distorsioni di Bergoglio.

Il sacerdozio di Aronne è tramontato.
Ora abbiamo un Sommo Sacerdote nei cieli.
Il memento qui su, in rosso, in reazione a quanto emerge da questo inedito Giovedì Santo, che commento di seguito. Aggiungo il link ad un testo dedicato ai Sacerdoti per ricordare la loro 'unzione' da non banalizzare, né equivocare, né rinnegare. Mai! [qui]

I brani sotto riportati, tratti dall'Omelia della Messa del Crisma officiata lo scorso Giovedì Santo, meritano sottolineature ineludibili. Approfondisco qui innanzitutto il tema dell'"unzione" e, di seguito, le implicazioni di tutte le suggestioni vetero-testamentarie, che lo accompagnano:
« ... Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” - questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione - e non la funzione -, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù...»
È un inno all'unzione sacerdotale e dice cose verissime e affascinanti e anche 'toccanti' e coinvolgenti dal punto di vista esistenziale, concludendo col gettare le reti nel nome del Signore. Purtroppo, però, centra l'attenzione sull' "odore delle pecore", mentre il sacerdote dovrebbe portar loro il buon "profumo di Cristo" perché è quello che lo muove innanzitutto verso Dio e poi, di conseguenza, da Dio verso gli uomini. Invece qui sembra doversi cogliere la direzione inversa: il sacerdote che impara dalle pecore. E si assume e porta su di sé il loro "odore", non come ha fatto Cristo Signore sulla Croce, ma lo fa con l'immagine del sommo sacerdote e dell'Ephod con i simboli delle tribù (vedi il seguito)... 
Certo, la realtà problematica delle periferie (come quella di ogni altro luogo in cui il Sacerdote si trova a farsi portatore del Signore e della sua grazia) deve interpellarlo e dunque attivare la parte più profonda del suo cuore sacerdotale; ma senza il buon "profumo di Cristo Signore" - frutto del profondo rapporto sponsale con Lui e dell'Adorazione - l'odore delle pecore rimarrebbe tale e potrebbe confondere. E qui ci soccorre l'Apostolo Paolo: « Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono » (2 Cor. 2, 14-15).

Per non parlare del "ringraziamento affettuoso delle pecore", la cui mancanza sarebbe all'origine della insoddisfazione e della tristezza del sacerdote, dato sentimentale che mette appunto il 'sentimento' al centro e non la realtà ontologica della santificazione, uno dei tre munera del sacerdote e che risulta dunque riduttivo della realtà profonda e pregnante della sua alta funzione. Il sacerdote gioisce nel vedere le pecore accogliere la grazia ed esserne trasformate cioè nel vedere lo Spirito all'opera nelle persone, che ne riceva o meno umana gratificazione; importante, certamente, ma non determinante per chi ha la maturità e la consapevolezza del proprio ministero. La vera ricompensa sta nella gioia e nella pace che vengono dall'aver fatto la volontà di Dio, non nella soddisfazione dei "ringraziamenti affettuosi", che di certo umanamente aiutano ma non fondano un bel niente.

Molto significativo il richiamo alla insoddisfazione di alcuni, che "finiscono per essere tristi, preti tristi" e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità. Appare una chiarissima ricerca di equilibrio e di verità. Infatti, non sono l'antichità o la novità in se stesse che possono salvare e dunque, mettervi l'accento unilateralmente, potrebbe portare fuori strada. Occorrerebbe tuttavia decifrare esattamente cosa intende per antichità e novità.

Francesco centra quello che potrebbe essere effettivamente un problema, se col termine antichità usato in maniera spregiativa, intende l'attaccamento alla sola esteriorità dell'Antico Rito: nostalgie estetizzanti anziché rispetto e amore per la sostanza che il Rito contiene, custodisce e veicola. Oppure intende riferirsi ad aspetti della Tradizione fissisti, dai quali non venga estratto il succo che il loro spessore e la loro saporosa sapienza contiene.

Così come centra il problema opposto della ricerca di novità fine a se stessa (sia nella ritualità che nella dottrina e nel comportamento) nell'illusione che tutto il passato sia obsoleto superato e da buttar via.
Messa questi termini non abbiamo difficoltà a seguirlo. Ma occorrerà che questi dati fondamentali siano ulteriormente specificati. Occorre darci il tempo perché ce lo espliciti.

Ed ora, le suggestioni vetero-testamentarie:
« ... Le Letture, anche il Salmo, ci parlano degli “Unti”: il Servo di Javhè di Isaia, il re Davide e Gesù nostro Signore. I tre hanno in comune che l’unzione che ricevono è destinata a ungere il popolo fedele di Dio, di cui sono servitori; la loro unzione è per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi… Un’immagine molto bella di questo “essere per” del santo crisma è quella del Salmo 133: «È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste» (v. 2). L’immagine dell’olio che si sparge, che scende dalla barba di Aronne fino all’orlo delle sue vesti sacre, è immagine dell’unzione sacerdotale che per mezzo dell’Unto giunge fino ai confini dell’universo rappresentato nelle vesti.
Le vesti sacre del Sommo Sacerdote sono ricche di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele impressi sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod dal quale proviene la nostra attuale casula: sei sopra la pietra della spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr Es 28, 6-14). Anche nel pettorale erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr Es 28,21). Ciò significa che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti!
Dalla bellezza di quanto è liturgico, che non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo e confortato, passiamo adesso a guardare all’azione. L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge “le periferie”. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro.
Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia.»
Resto estraniata da due elementi.
  1. Innanzitutto dal fatto che Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Dio, è messo sullo stesso piano degli unti di Israele e il suo Sommo Sacerdozio - che appartiene alla maniera di Melchisedec ed è quello officiato come Figlio, Verbo Incarnato Morto Risorto Asceso al cielo per noi - è messo sullo stesso piano di quello di Aronne, definitivamente tramontato, che è quello del Sommo Sacerdote (nominando persino l'ephod col simbolo delle dodici tribù che egli porta sul petto, mentre il nostro Signore ci mostra il Suo Cuore trafitto per noi!) e quindi pone l'enfasi sui simboli del popolo dell'Antica Alleanza, cioè di colui che ha condannato il Signore  e di coloro che lo hanno rifiutato e che ancora lo rifiutano. 
  2. Inoltre la "bellezza di quanto è liturgico" appare rapportata unicamente a questi simboli, mentre siamo in molti ad essere sconcertati e sgomenti di fronte alla sciatteria e al pauperismo delle attuali Liturgie.
Di certo l'immagine biblica è suggestiva e rende anche l'idea di una dinamica che trasporta, tocca le corde del sentimento e trasmette con efficacia la realtà prodotta dall'unzione
Tuttavia la prima riflessione che mi suscita è che la nostra "unzione", indelebile, l'abbiamo ricevuta nel Battesimo e ci inserisce nella Chiesa e in famulos (tra i familiari) del Signore, nel Figlio diletto. In virtù di questo, la partecipazione alla Santa Messa ci dona le grazie indicibili che scaturiscono dall'Unico Sacrificio ri-presentato al Padre e dalla comunione col Corpo Sangue Anima e Divinità del Signore ora glorioso, identificato non solo col Servo di JHWH, ma anche con l'Universorum Rex!

Me lo dite voi che se ne fanno le pecore dell'unzione del re Davide e di quella di Aronne, quando quello che le salva è solo e unicamente il Sangue Prezioso di Cristo? È vero che Egli viene da quella Storia di Salvezza, ma è altrettanto vero che l'ha portata a compimento. Il che significa che l'ha oltrepassata e ci porta oltre, con Lui, nella Creazione Nuova da Lui inaugurata. E che la Sua unzione completa e supera quella degli altri unti d'Israele: Egli è l'Unto, cioè il Messia, nella Persona del Verbo Incarnato Morto e Risorto per la nostra salvezza.

Inoltre, Bergoglio parla dell'olio che, oltre alla persona del sacerdote: Aronne (!?), raggiunge anche le periferie:
la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli.
Ma cosa dice? E dov'è qui la Redenzione? È solo quando siamo liberati dalla schiavitù del peccato guadagnataci a caro prezzo dal Signore nostro che, attraverso la grazia santificante del Suo Spirito, che non cessa di animare la sua Chiesa fin dalla Pentecoste, che siamo capaci di vere opere di misericordia sia corporali che spirituali, come queste evocate.

Che significa entrare nella "unzione con l'olio di gioia"? Che roba è? Di certo mi si può dire che è l'effetto - non sempre sensibilmente avvertibile ma che dispiega la sua azione liberante e trasformante - che ha su ogni pecora e sull'intero gregge il lavacro del Sangue di Cristo che ci introduce anche nella Risurrezione. Ma perché non chiamarlo col suo nome e tirar fuori tutte queste suggestioni vetero-testamentarie? Esse ci mostrano un suggestivo 'parallelo', ma mi sembra che non mettano in luce l'unicità del Signore.

Della Croce e del Sangue Prezioso di Cristo il nuovo papa ha parlato con fermezza altrove... ma qui il discorso è monco, soprattutto in riferimento alla Messa, all'Adorazione, e all'Opera di Cristo Gesù, da cui, unicamente, può scaturire il servizio che ne è conseguenza. E, poi, il Papa non è solo il "papa dei poveri e delle periferie" - intese sia in senso geografico che esistenziale, sia sociologico che spirituale - è il Papa di tutti: "pasci le mie pecore" (i Sacerdoti) e "pasci i miei agnelli" (i fedeli). Che poi si debba occupare con particolare premura della pecora ferita e di quella smarrita, benissimo. Ma le altre, chi le "conferma"? E coloro che non fanno ancora parte del gregge e che il Signore non lo conoscono?
Maria Guarini

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