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sabato 25 settembre 2021

DOMANDE FREQUENTI SUL M.P. “TRADITIONIS CUSTODES”

Il prof. Guido Ferro  Canale ha risposto in maniera esaustiva alle domande più salienti poste da Traditionis custodes allo scopo di affrontare con cognizione di causa e quindi con maggiore efficacia le numerose difficoltà pratiche.  Qui l'indice degli interventi sul controverso motu proprio.

DOMANDE FREQUENTI SUL M.P. “TRADITIONIS CUSTODES” 
Verosimilmente, un'Istruzione applicativa del nuovo assetto dato all'uso della Liturgia tradizionale vedrà la luce, anche se non con la celerità che taluni paventano (l'iter dei documenti generali è piuttosto complesso e riesce molto più difficile sbloccarli portandone le bozze dritte sul tavolo del Papa... sebbene il Regnante sia, in ciò, assai poco prevedibile). Nondimeno, l'entrata in vigore immediata del m.p. rende urgente affrontare numerose difficoltà pratiche: nel mio precedente articolo in argomento, mi sono limitato a quelle connesse all'assenza di vacatio legis e a poche altre, per ragioni di spazio, ma ho tracciato le grandi linee che consentono di risolverle tutte; ne do quindi per presupposta la lettura e procedo senz'altro con il metodo delle domande e risposte. 
1) Anche i religiosi sono obbligati a richiedere l'autorizzazione del Vescovo diocesano per celebrare?
R. - Quelli di diritto diocesano, sì; quelli esenti ossia di diritto pontificio celebrano sine populo senza necessità di autorizzazione alcuna, ma per le Messe cum populo occorre un'intesa con il Vescovo del luogo.
Per illustrare il senso della risposta, è bene partire dalla differenza che corre tra i termini “Ordinario” e “Vescovo diocesano”: al sensi del can. 134, il primo comprende anche i Superiori religiosi, ma il secondo no, anzi non si estende neppure al Vicario generale. Il legislatore qui non ha parlato di “Ordinario”, bensì di “Vescovo diocesano”. I Superiori sono dunque fuori causa, almeno nel senso che il loro consenso non può bastare. Ma si deve intendere che quello del Vescovo sia sempre necessario?
Dipende dalla condizione giuridica dell'ente cui il singolo religioso appartiene. Se si tratta di un Istituto di Vita Consacrata o Società di Vita Apostolica di diritto diocesano, egli è suddito del Vescovo ad ogni effetto, i suoi Superiori non rientrerebbero comunque nel concetto di “Ordinario” e pertanto la risposta è affermativa: egli ha bisogno dell'autorizzazione del Vescovo sia per le Messe cum populo sia per quelle sine populo; la sua posizione non differisce in nulla dal prete secolare. Ma le cose stanno altrimenti per le realtà di diritto pontificio, dette anche “esenti” appunto perché sono esenti dalla potestà di governo dei singoli Vescovi (cfr. cann. 586, 591, 593 e 594: il nuovo Codice prevede che possano esistere realtà di diritto pontificio non esenti, ma l'ipotesi non rileva ai nostri fini).
E l'autorizzazione è un atto mediante cui si esercita appunto tale potestà.
Dopo secoli di scontri, si è raggiunto un equilibrio tra le opposte esigenze: i religiosi possono insediarsi dove meglio credono e sono autonomi per tutto quanto riguarda l'attività che svolgono all'interno delle loro quattro mura, senza coinvolgere soggetti esterni; ma nel momento in cui intendono dedicarsi all'apostolato, o anche soltanto ammettere i fedeli alle proprie celebrazioni, debbono raggiungere prima un'intesa con il Vescovo, che di quei fedeli è il pastore.
Di conseguenza:
  1. se la Messa tradizionale viene celebrata cum populo, allora ricade sotto la potestà di determinare luoghi e tempi di simili celebrazioni in favore dei coetus già esistenti e spetta al Vescovo decidere se possa proseguire o meno; tuttavia,
    1. finché egli non provvede tutto prosegue legittimamente come prima, 
    2. prima di decidere deve ascoltare le ragioni degli interessati e le loro richieste (cfr. can. 50),
    3. la decisione dev'essere motivata rispetto al caso concreto, non con un generico richiamo a m.p., Concilio o quant'altro (can. 51);
  2. viceversa, se la Messa è sine populo e resta dunque limitata alle quattro mura del convento o luogo similare, non occorre autorizzazione episcopale e neppure quella dei Superiori maggiori, che, come ho già detto, non sono inclusi nell'espressione “Vescovo diocesano”. Si deve concludere, allora, che per questa situazione resta in vigore l'art. 2 del “Summorum Pontificum” e tali celebrazioni rimangono autorizzate ex lege.
2 – Resta tuttora possibile celebrare secondo i riti particolari degli Ordini religiosi, com'erano in vigore nel 1962?
R – Sì.
Com'è noto, il “Summorum Pontificum” si è preoccupato soltanto dei libri liturgici propri del rito romano; tuttavia, le forme rituali un tempo in uso presso alcuni Ordini religiosi (Domenicani, Carmelitani...) sono considerate varianti di quel medesimo rito. Per questo motivo, la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, nel momento in cui ha emanato l'Istruzione “Universae Ecclesiae”, ha ritenuto di poter estendere anche ad essi l'enunciazione di principio dell'art. 1 SP: “celebrare licet”.
L'art. 1 TC non contraddice affatto tale enunciazione, ma solo la coesistenza di due espressioni della lex orandi del rito romano; e, qualunque cosa significhi di preciso la riaffermata unicità di tale lex, certo non comporta un'abrogazione di tutte le varianti rituali. Sia perché l'espressione “lex orandi” ha piuttosto una valenza teologica e non è comunque sinonimo di vigenza giuridica; sia perché resta possibile continuare a celebrare con il Messale del 1962, che perciò non deve intendersi abrogato, e allora a fortiori secondo le forme rituali di cui ad UE 34, che non risulta abbiano dato luogo ai fenomeni di strumentalizzazione lamentati nella Lettera ai Vescovi, fors'anche perché di impiego più circoscritto.
Conforta in questa conclusione, peraltro, anche il fatto che almeno due Vescovi l'abbiano fatta propria in sede di prima applicazione di TC: il Card. Vincent Nichols, Arcivescovo di Westminster, nel cui territorio si continuerà ad officiare cum populo il rito domenicano, e Mons. Salvatore Cordileone, Arcivescovo di San Francisco, che, istituendo una celebrazione mensile in Cattedrale, ha disposto che la prima, cadendo nella festa di S. Domenico, si svolgesse secondo il predetto rito.

3 – L'art. 3 del m.p. riguarda in realtà il Messale del 1965 e quindi lascia intatto il “Summorum Pontificum”? O, inversamente, esiste una possibilità giuridica di celebrare liberamente secondo il Messale del 1965?
R – No ad entrambe le domande.
Nel verosimile tentativo di limitare i danni, c'è stato chi ha osservato come l'esigenza di autorizzazione vescovile per i gruppi, diversamente da quella per i Sacerdoti, non riguardi il Messale del 1962, bensì quello “anteriore alla riforma del 1970”, che a rigore dovrebbe essere l'Ordo Missae già parzialmente riformato del 1965/67. Ne conseguirebbe l'esito paradossale, ma assolutamente logico, per cui il m.p. riguarderebbe in realtà una Messa che quasi nessuno vuole e, sbagliando bersaglio, lascerebbe intatto il “Summorum Pontificum”.
Altri hanno ragionato allo stesso scopo ma in modo inverso: se ci negano il Messale del 1962, ripieghiamo su quello del 1965, rispetto a cui non vi sono restrizioni.
(Tralascio qui, per semplicità, le discussioni sui motivi per cui molti sostengono che, in realtà, non sia mai esistito un vero e proprio Messale del 1965, ma solo una serie di modifiche all'Ordo Missae, che però ha comportato una ristampa emendata dell'editio typica del 1962)
Entrambe le tesi, tuttavia, dipendono dallo stesso errore: considerano quella del 1965 una liturgia ancora in vigore, mentre non lo è. Siccome si trattava di una riforma parziale, l'art. 48 dell'Istruzione “Inter Oecumenici”, che l'ha promulgata, ha disposto espressamente che si applicasse solo finché l'Ordo Missae non fosse stato riformato integralmente; così a sua volta la “Tres abhinc annos”, art. 19, rispetto all'Ufficio divino.
Questo, per inciso, è il motivo per cui il Messale del 1962 non è stato abrogato: le modifiche erano provvisorie, quindi hanno perso efficacia in automatico all'apparire del Novus Ordo; il problema si poteva porre solo in termini di raffronto diretto tra i due, senza passaggi intermedi; e siccome la creazione di un nuovo rito non può implicare la sostituzione automatica dell'antico, in mancanza di una clausola abrogativa espressa quest'ultimo è rimasto in vigore.
Il c.d. “indulto di Agatha Christie”, per la verità, prevedeva che continuassero ad applicarsi le modifiche del 1965/67, certo nel tentativo di ricondurre anche i fedeli più riottosi nell'alveo della Grande Riforma; tuttavia, dal 1984 in poi, le indicazioni della S. Sede sono state univoche per l'utilizzo del Messale del 1962 così come sta. E perfino ammesso che neppure l'indulto del 1984, il m.p. del 1988, quello del 2007 e l'attuale, da soli o tutti insieme, bastino ad abrogare le norme del 1965/67, lo farebbe la recezione generale del Messale del 1962, che in tale ipotesi avrebbe anche valore di consuetudine abrogatrice.
Fanno eccezione soltanto quelle realtà cui la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, in presumibile applicazione delle norme stabilite alla fine del 1986 da una Commissione cardinalizia apposita, approvate poi dal Papa ma mai rese note ufficialmente per intero, ha concesso per privilegio la facoltà di adottare alcune rubriche del 1965. Però si tratta, appunto, di concessioni particolari, che escludono anziché confermare una vigenza più generale. Esse dovrebbero, comunque, sopravvivere anche al “Traditionis custodes”, perché riguardano entità di diritto pontificio e la loro vita interna. Ma al di fuori di codeste limitatissime eccezioni non esiste alcuna possibilità giuridica di usare il Messale del 1965, con o senza le modifiche del 1967.

4 – Come ci si deve regolare per l'esecuzione delle letture in volgare?
R – In tutte le Messe cum populo autorizzate dai Vescovi ai sensi di TC 3, siano esse lette, cantate o solenni, deve farsi la proclamazione delle letture in volgare; in quelle lette essa può sostituire la lettura del testo latino, ma nelle altre si deve aggiungere ad essa.
Per spiegare la risposta occorre partire dal fatto che la previsione rilevante - “In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali” - figura in TC 3 §3 e riguarda, pertanto, le sole SS. Messe in favore dei gruppi di fedeli (“queste” celebrazioni), non quelle sine populo e, salva diversa disposizione, neppure quelle occasionali.
Da più parti si è fatto notare che questa disposizione appare sostanzialmente inutile in tutte quelle realtà in cui i fedeli seguono la celebrazione mediante foglietti o Messalini con il testo a fronte, che sono poi la grande maggioranza; tuttavia, occorre rilevare sia che il famoso questionario non si è preoccupato di investigare sulla prassi celebrativa concreta sia, soprattutto, che una disciplina per le letture in volgare già esisteva e risale a quando l'uso dei Messalini era diffuso, ben noto e incoraggiato dall'Autorità ecclesiastica.
L'Istruzione del 3 settembre 1958, volta tra le altre cose a tradurre in pratica le indicazioni della “Mediator Dei” sulla partecipazione attiva dei fedeli, si occupava del tema ai nn. 14 lett. c) e 16 lett. c):
“È desiderabile però che nelle domeniche e nei giorni festivi, nelle Messe lette, il Vangelo e anche l’Epistola vengano letti da qualche lettore in lingua volgare, per utilità dei fedeli”; “Finalmente, là dove fu permesso con Indulti particolari che nelle Messe in canto il sacerdote celebrante, il diacono o il suddiacono, o il lettore, dopo il canto nella melodia gregoriana dell’Epistola o della Lezione o del Vangelo, possano proclamare gli stessi testi anche in lingua volgare, ciò deve esser fatto leggendo a voce alta e chiara, con esclusione di qualsiasi melodia gregoriana, autentica o imitata”.
Perciò, nelle Messe lette la proclamazione delle letture in volgare era sempre permessa e anzi incoraggiata, sebbene non imposta; in quelle cantate o solenni, si rimandava agli indulti particolari accordati ad alcuni luoghi, prescrivendo però che si facesse dopo il canto del testo latino, senza sostituirlo e senza eseguire una doppia cantillazione (perché si tratta di un'aggiunta a scopo meramente didattico).
Questa disciplina non compare nelle norme del Codice delle rubriche relative alle letture (nn. 466-74), ma deve intendersi mantenuta in vigore in virtù del rinvio espresso del Codice all'Istruzione per quanto concerne la partecipazione attiva (n. 272), anche perché il n. 14 lett. c) viene espressamente richiamato nel n. 30, che si trova appunto nella sezione dedicata ai diversi modi in cui i fedeli possono partecipare ai vari tipi di Messa.
Il m.p. “Summorum Pontificum”, confermando la perenne vigenza del Messale del 1962, all'art. 6 ha previsto una facoltà generale di proclamare le letture “etiam lingua vernacula” nelle celebrazioni cum populo: al tempo, ho scritto che la disposizione mi sembrava riferita alle sole Messe lette, perché in quelle in canto non si ha proclamazione bensì cantillazione, ma all'epoca non conoscevo il n. 16 lett. c), di cui invece è presumibile che si intendesse confermare la vigenza, estendendo altresì gli indulti particolari da esso richiesti all'intera Chiesa.
E in questo senso si è espressa, d'altronde, l'Istruzione “Universae Ecclesiae”, al n. 26, dove ha precisato “che le letture della Santa Messa del Messale del 1962 possono essere proclamate o esclusivamente in lingua latina, o in lingua latina seguita dalla traduzione in lingua vernacola, ovvero, nelle Messe lette, anche solo in lingua vernacola.”.
Quindi, fino al 16 luglio 2021, nelle celebrazioni cum populo la lettura in volgare era sempre facoltativa, mai imposta, e nelle Messe in canto doveva seguire le norme di cui all'art. 16 lett. c) dell'Istruzione del 1958, mentre in quelle lette poteva anche sostituire la proclamazione del testo latino.
L'analisi che precede ci permette di cogliere al volo il senso dell'innovazione recata da TC 3 §3: ciò che prima era facoltativo diviene obbligatorio... ma, siccome non viene disposto che le letture si eseguano “solo” in volgare, il contenuto dell'obbligo resta identico alla facoltà preesistente. Quindi, nelle Messe lette si può proclamare la sola traduzione volgare, mentre per quelle in canto è divenuto obbligatorio far seguire alla cantillazione una lettura ai sensi del n. 16 lett. c), più volte citato.
Resta, però, un altro problema: quali traduzioni usare?
Se per SP 6 si doveva trattare di quelle approvate dalla Sede Apostolica, TC 3 menziona quelle approvate dalle Conferenze Episcopali; solo che – ne fosse o meno consapevole il legislatore – non può trattarsi di quelle più note o più recenti, come la Bibbia CEI o la versione italiana del nuovo Lezionario. Infatti, un principio fondamentale delle traduzioni per uso liturgico esige che esse non siano condotte sui testi scritturistici originali, ma sulla versione latina approvata dalla S. Sede, che per il Novus Ordo è la Nova Vulgata (cfr. Istruzione “Liturgiam authenticam”, n. 24) [vedi]: questo basta a mettere fuori gioco tutte le versioni della Bibbia approvate per uso extraliturgico, che sono state condotte appunto sui testi originali. Chi poi pensasse di utilizzare la versione incorporata nel nuovo Lezionario, a parte i problemi di corrispondenza delle letture, che sarebbero di per sé praticamente insolubili, incontrerebbe una difficoltà giuridica che non mi pare si possa aggirare o superare: il testo ivi tradotto non è quello adibito nel Messale del 1962, che continua a seguire la Vulgata.
Insomma, ci servono traduzioni approvate dalle Conferenze Episcopali che siano state eseguite sul testo della Vulgata e, preferibilmente, siano anche organizzate a mo' di Lezionari per il Vetus Ordo, viste le intuibili difficoltà pratiche che altrimenti verrebbero a sorgere.
Per fortuna, queste versioni esistono, anche se potrebbero non essere di facile reperibilità: sono state elaborate nella prima fase della riforma liturgica, perché l'istruzione Inter Oecumenici, n. 49, ha disposto che la proclamazione delle letture avvenisse versus populum, di preferenza all'ambone, ed era più semplice stampare le lezioni in un volume a parte che spostare il Messale, gesto oltretutto non previsto. In via provvisoria, è stato consentito anche l'utilizzo delle versioni contenute nei Messalini più diffusi; ma – a prescindere dalla perdurante vigenza dell'opzione, quantomeno dubbia – non dovrebbe essere necessario arrivare a tanto, uno scavo archeologico nelle sacrestie basterà.

5 – Quale dovrà essere il ruolo del delegato alla cura pastorale dei fedeli?
R. - Quello di un cappellano con facoltà aggiuntive, adeguate alle concrete necessità espresse dal gruppo.
Credo che l'esperienza più diffusa presso i vari coetus, soprattutto quando il celebrante non è il Parroco del luogo, sia quella di un'attività che tende ad esaurirsi nella celebrazione della Messa o comunque strettamente connessa alla medesima (p.es. l'organizzazione di un coro, o del servizio all'altare). L'esigenza di una cura pastorale ad hoc era senz'altro avvertita e sussiste; ci si può chiedere, però, quale sia il ruolo del neoistituito delegato, dal momento che l'impostazione del nuovo m.p. appare tesa a restringere piuttosto che a promuovere.
Non vi è dubbio che egli sia chiamato a vigilare affinché il gruppo non sia preda di quelle derive per scongiurare le quali – ci vien detto – è stato emanato il TC. Che di fatto la figura del delegato possa offrire un qualche tipo di copertura a fenomeni peraltro già visti, come il prete ultraprogressista designato apposta per sabotare la celebrazione (e/o, in questo caso, rieducare i fedeli alla magnifiche sorti e progressive della Riforma), mi pare assai probabile; in questa sede, però, mi interrogo piuttosto su come tale figura dovrebbe essere, anche per fornire suggerimenti in vista di colloqui ed eventuali trattative con i Vescovi.
Va dunque notato, in primo luogo, che nel Codice il Sacerdote cui è assegnata in pianta stabile la cura di un particolare gruppo di fedeli è detto cappellano (cfr. can. 564). I suoi compiti sono così enunciato al can. 566 §1: “È necessario che il cappellano sia fornito di tutte le facoltà che richiede una ordinata cura pastorale. Oltre a quelle che vengono concesse dal diritto particolare o da una delega speciale, il cappellano, in forza dell'ufficio, ha la facoltà di udire le confessioni dei fedeli affidati alle sue cure, di predicare loro la parola di Dio, di amministrare loro il Viatico e l'unzione degli infermi, nonché di conferire il sacramento della confermazione a coloro che versano in pericolo di morte.”.
Il “Summorum Pontificum”, all'art. 10, prevedeva che la cura pastorale potesse organizzarsi secondo le tre opzioni previste dal Codice in via generale: cappellania, rettoria, Parrocchia personale. Adesso, il TC non consente più di erigere nuove Parrocchie personali, ma, data l'assenza di divieti, lascia aperte le altre due possibilità, che in genere sono collegate perché la rettoria è una chiesa presso cui si possono, nel caso, organizzare celebrazioni per gruppi particolari.
Se dunque, come mi sembra necessario concludere, un “delegato alla cura pastorale” è sempre un cappellano, se ne deduce che, con l'entrata in vigore di TC, questa figura sia passata da facoltativa a obbligatoria e che gli spettino in automatico sia i compiti elencati al can. 566 §1, sia quello di assicurare la “dignitosa celebrazione” (specificato dal diritto particolare, ossia da TC stesso).
Inoltre, punto di notevole importanza, il decreto vescovile di nomina potrà specificare altri compiti ancora, secondo le esigenze concrete. E qui occorre muovere, caso per caso, da una ricognizione dello status quo, cioè delle attività concretamente svolte dal coetus: potrebbero essere previste, ad es., celebrazioni occasionali ossia aggiuntive a quelle di orario, vuoi per eventuali matrimoni o altri Sacramenti da riceversi more antiquo, vuoi per SS. Messe di Requiem o votive, etc.; oppure pratiche di pietà come il S. Rosario; e così via.
Infine, ma non da ultimo, sarebbe particolarmente opportuno che fossero nominati più delegati in solido, che quindi in concreto potrebbero accordarsi liberamente per il miglior disbrigo delle incombenze, giorno per giorno; in alternativa, andrebbe prevista una facoltà di subdelega ad altri Sacerdoti autorizzati dal Vescovo, almeno per singole azioni liturgiche, qualora il delegato fosse impedito, evenienza che prima o poi si presenterà di certo.
La strutturazione concreta dei compiti del delegato si prospetta come un banco di prova fondamentale per il futuro dei coetus e delle loro attività: mi sembra importante rimarcare fin da subito la necessità di dedicarle la giusta attenzione. Anche perché, se è vero che la logica di TC suona restrittiva, tuttavia non esistono limiti particolari alle facoltà che possono essere attribuite al delegato e quindi nulla vieta che si aggiungano pure attività nuove. Certo, servirà la buona volontà dei Vescovi e degli stessi delegati; ma innanzitutto è bene che i fedeli stessi si rendano conto della possibile opportunità, poco visibile – se così si può dire – nel particolare contesto.

6 – In caso di soppressione delle Messe o di altre decisioni pregiudizievoli, a chi si potranno rivolgere i fedeli?
R – Alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; in seconda nonché ultima istanza, al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Uno dei problemi principali dell'epoca dell'indulto era la mancanza, in concreto, di un'autorità sovraordinata cui indirizzare i ricorsi contro i provvedimenti negativi dei Vescovi. A fronte di una rivendicazione di competenza da parte della Congregazione per il Culto, che dopotutto era l'erede del Dicastero da cui l'indulto proveniva - “La competenza, e cioè l’autorità della Santa Sede, sulle comunità che godono dell’indulto che permette loro di seguire la forma anteriore del rito romano, è della Commissione 'Ecclesia Dei adflicta'. Ma le relazioni di queste comunità con le chiese particolari, per quanto concerne le celebrazioni liturgiche, sono sottoposte alla competenza della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, sentiti, per competenza, gli altri Dicasteri ” - stava l'esistenza stessa della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, che per la verità ha sempre negato di possedere poteri decisori, limitandosi ad interporre i propri buoni uffici, ma sul punto è stata sconfessata dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (preposto, tra l'altro, a dirimere i conflitti di competenza tra Dicasteri della Curia Romana): “In qualche caso è stato presentato ricorso contro un atto della Commissione Ecclesia Dei: per esempio, l'impugnazione di un fedele che, avendo richiesto un indulto a detta Commissione, ricevette una risposta in cui si affermava la mancanza di competenza per concedere quanto richiesto. Quando l'interessato presentò ricorso alla Segnatura Apostolica, questo fu accolto.” [J. CANOSA, Lezione X – Il ricorso contenzioso-amministrativo, §III, in J. MIRAS – J. CANOSA – E. BAURA, Compendio di Diritto amministrativo canonico, Roma 2018, pag. 386]. Purtroppo, questa decisione del massimo organo giudiziario della Chiesa è rimasta sconosciuta ai fedeli interessati, mi risulta tuttora inedita e, quel che è peggio, non ha determinato neppure un cambiamento nella prassi della Pontificia Commissione. Risultato: quel diniego sistematico di giustizia che molti ricordano ancora molto bene e temono di sperimentare nuovamente.
Il “Summorum Pontificum” ha risolto il problema codificando la soluzione già adottata dalla Segnatura:
“Art. 12. La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l’autorità della Santa Sede vigilando sulla osservanza e l’applicazione di queste disposizioni.”.
Quindi, la Pontificia Commissione sovrintendeva ai cc.dd. “istituti dell'Ecclesia Dei”, esercitando sui medesimi i compiti che normalmente spettano alla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica; regolarizzava la situazione canonica di chi, eventualmente, lasciasse la Fraternità S. Pio X o le altre realtà con essa collegate; e soprattutto aveva il potere di decidere sui ricorsi dei fedeli interessati all'applicazione del “Summorum Pontificum”.
Oltre a ribadire tutto questo, la “Universae Ecclesiae” (n. 10 §2) ha previsto espressamente l'impugnabilità dei decreti della Commissione stessa davanti alla Segnatura Apostolica. Il che si spiega, verosimilmente, con dubbi insorti presso il Supremo Tribunale: SP 5 e 7, com'è noto, mettono in primo piano il coetus fidelium, che per lo più è un'associazione di fedeli costituita secondo le forme del diritto statale, ma priva di riconoscimenti canonici di sorta. Nel 1987, tuttavia, in sede di interpretazione autentica del can. 1737, si è chiarito che simili realtà non possono presentare ricorsi, almeno non come gruppo: dovrebbero farlo i singoli fedeli, tenuti altresì a dimostrare di aver subito uno specifico pregiudizio di carattere individuale. Quindi, l'Istruzione ha chiarito e confermato che il “Summorum Pontificum”, parlando del coetus all'art. 7, ha inteso fare eccezione a questa regola e ammettere anche i ricorsi di gruppo, probabilmente perché il diritto tutelato è bensì individuale, ma, secondo la logica del m.p. e la natura stessa delle cose, si esercita in forma associata (non foss'altro per ragioni organizzative, ben note a chiunque si sia trovato ad impiantare dal nulla celebrazioni Vetus!).
Assorbita la Commissione “Ecclesia Dei” dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui è divenuta la Sezione IV, le competenze sono rimaste invariate, trasferendosi tali e quali al Dicastero accorpante. Rebus sic stantibus, quale l'effetto di TC?
Lo si capisce molto bene leggendo gli artt. 6 e 7:
“Art. 6. Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, a suo tempo eretti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei passano sotto la competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.”.
Qui non credo che servano particolari commenti; forse, però, è bene precisare che la soppressione dell'“Ecclesia Dei” non ha fatto venir meno il diritto speciale su cui si fondano i relativi Istituti; in altre parole, il m.p. “Ecclesia Dei adflicta”, n. 6 lett. a), nella parte in cui attribuisce forza di legge al Protocollo del 5 maggio 1988, concluso tra il Card. Ratzinger e Mons. Léfebvre, è tuttora in vigore. Resta da vedere fino a che punto verrà rispettato e fatto rispettare dal nuovo Dicastero competente.
Art. 7. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, per le materie di loro competenza, eserciteranno l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di queste disposizioni.”. 
In altre parole: se SP ha dato ragione alla Segnatura, TC dà ragione alla Congregazione per il Culto Divino e alla sua linea del 1999; la vita interna di quelli che si possono ancora chiamare “Istituti dell'Ecclesia Dei”, purché con ciò si intenda la legge fondativa, sarà controllata dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata come avviene per la generalità dei religiosi; tutte le questioni liturgiche, incluso l'apostolato esterno di detti Istituti, spetterà invece alla Congregazione per il Culto Divino. Almeno una cosa, quindi, non si deve temere: l'incertezza sulle competenze.
E siccome anche TC continua a parlare di “gruppi”, ritengo che nulla sia cambiato quanto all'ammissibilità dei ricorsi.

7 – Qual è la procedura da seguirsi in caso di ricorso?
R. - Né più né meno, la procedura ordinaria dei ricorsi gerarchici prima (cann. 1732 sgg.), del ricorso giurisdizionale in Segnatura poi.
Per prima cosa, occorre rammentare che, fino a quando il Vescovo non adotta un provvedimento espresso, tutto rimane com'è. Quindi, i fedeli fanno bene a prendere l'iniziativa di mettersi in contatto, ma dubito abbiano particolare interesse a sollecitare la decisione (salvi casi particolari).
Se, invece, il Vescovo sopprime le celebrazioni in essere senza sostituirle in alcun modo, o se ne modifica sedi, orari o frequenza in senso pregiudizievole per i fedeli, la procedura è la seguente:
  1. dieci giorni da quando si ha notizia della decisione per presentare richiesta scritta di modifica o revoca (i motivi possono essere integrati in un secondo momento). Si badi che tutti gli atti amministrativi debbono essere emanati e comunicati in forma scritta, ma è bene reagire anche contro “decisioni” comunicate o riferite a voce, chiedendo contemporaneamente la notifica del testo scritto e, ad cautelam, la revoca. Per evitare problemi di ammissibilità, è meglio che la richiesta sia firmata da più di una persona, con l'indicazione che tutti i firmatari agiscono sia come singoli sia come membri del coetus, e lo stesso dicasi per i ricorsi di seguito indicati;
  2. i fedeli sono liberi di esporre tutte le ragioni per cui il provvedimento del Vescovo è inopportuno, li mette in difficoltà etc.; è sempre bene attenersi al caso concreto senza considerazioni generali, ma due argomenti che si vedranno spesso sono la mancata audizione degli interessati (can. 50) e l'omessa motivazione (can. 51), soprattutto se il Vescovo si limitasse a dire o scrivere “Il Concilio... il Papa...”;
  3. ricevuta la richiesta – che è bene spedire per raccomandata o mezzo equivalente – il Vescovo ha trenta giorni per rispondere;
  4. se la respinge o non risponde affatto, i fedeli hanno quindici giorni per proporre ricorso alla Congregazione per il Culto Divino, per qualunque motivo, anche di semplice opportunità (ad es. “Ci ha messi nella chiesetta in cima al monte Millevalanghe”);
  5. la Congregazione ha novanta giorni di tempo per rispondere (il can. 57 parla di tre mesi, ma in diritto canonico tutti i mesi si considerano di trenta giorni), dopodiché, se non ha comunicato che le occorre più tempo, il ricorso si presume respinto e questo rigetto “presunto” può essere impugnato in Segnatura;
  6. per interporre ricorso al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, i fedeli dispongono di sessanta giorni, ma possono addurre soltanto violazioni di legge, perché la Segnatura verifica se un provvedimento dell'Autorità ecclesiastica sia conforme alla disciplina applicabile, non se sia anche il più opportuno. Quindi bisognerà dire, p.es., “Il Vescovo ha violato TC 3 perché ha soppresso senz'altro la Messa, senza verificare se i fedeli aderiscano al Concilio etc., e la Congregazione è incorsa nel medesimo vizio, con il silenzio con cui ha respinto il ricorso”. Non è obbligatorio avvalersi di un avvocato per ricorrere, sebbene sia consigliabile per molti versi, ma l'obbligo sorge subito dopo, per tutto il resto della procedura, e in linea di principio non bastano gli avvocati rotali, occorrono quelli iscritti nell'apposito albo degli Advocati apud Curiam Romanam: in concreto, è preferibile prendere contatti per tempo con uno di questi professionisti, magari facendosi assistere già nella fase davanti al Dicastero, e comunque farsi inviare l'albo dalla Cancelleria del Supremo Tribunale.
Ognuno vede da sé che, nel tempo occorrente o comunque accordato dalla legge perché l'Autorità decida, i fedeli potrebbero subire un danno irreparabile: soppressa la celebrazione, ad es., con buona probabilità scomparirebbe anche il coetus.
Per questo, la richiesta di revoca della decisione del Vescovo contiene per legge – ma nulla vieta di esplicitare – anche la richiesta di sospensione dei suoi effetti, su cui egli è tenuto a provvedere entro dieci giorni; altrimenti si può ricorrere al Superiore, sempre rispetto alla sola sospensione e con l'onere, anche qualora la si ottenga, di presentare comunque ricorso nel merito, se il Vescovo non decide sulla richiesta di revoca, o a maggior ragione se la respinge (cfr. can. 1736).
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Queste considerazioni non hanno, ovviamente, la pretesa di esaurire e neppur di affrontare tutti i problemi posti dalla nuova disciplina delle condizioni di accesso all'usus antiquior; spero, tuttavia, di aver quantomeno fornito indicazioni utili per le situazioni più pressanti.
Genova, li 10 agosto 2021
in die festo S. Laurentii Martyris
Guido Ferro Canale

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