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sabato 16 ottobre 2021

Diritto della Chiesa e Ordinazioni Clandestine: La lezione del cardinal Wojtyła e del cardinal Slipyj

Nella traduzione di Carlo Schena, da OnePeterFive, Peter Kwasniewski motiva il “non possumus” nell'ipotesi che la Congregazione per il Culto Divino o la Congregazione per i Religiosi - da cui ora dipendono le realtà ex Ecclesia Dei alla luce di Traditionis custodes - dovessero chiedere di non utilizzare più gli antichi riti di ordinazione. Qui l'indice dei precedenti.

Diritto della Chiesa e Ordinazioni Clandestine:
La lezione del cardinal Wojtyła e del cardinal Slipyj

Peter Kwasniewski, PhD

Uno degli episodi più degni di nota nella vita di Karol Wojtyła - e un episodio dal quale oggi quale possiamo trarre molti insegnamenti - si è verificato durante il suo periodo come cardinale arcivescovo di Cracovia. Trovo sorprendente che, nonostante tutta l’attenzione profusa su Giovanni Paolo II, questo avvenimento abbia attirato ben poca attenzione, e anche meno commenti. Lo stesso si può dire per un memorabile evento nella vita del grande cardinale Josef Slipyj.

Ordinazioni Sacerdotali Clandestine
Per quanti dei lettori che possono non aver familiarità con il concetto, per Ostpolitik si intende la strategia vaticana nell’ambito della Guerra Fredda tendente ad accondiscendere ad alcune richieste dei comunisti dell’Europa orientale in cambio della presunta tolleranza della preservazione di una minimale esistenza ecclesiale. Lo stesso George Weigel [noto biografo di Giovanni Paolo II, NdT] è stato, e apertamente, un severo critico della Ostpolitik, tema sul quale è recentemente ritornato, appena due settimane fa, in un articolo a proposito del grande architetto di tale politica, il cardinale Agostino Casaroli. [1] L’autorevole biografia di Weigel, Witness to Hope, presenta i fatti salienti in modo accurato, anche se un poco edulcorati:
Il cardinale Wojtyła non dubitò mai delle buone intenzioni di Paolo VI nella sua Ostpolitik, ed era certamente a conoscenza del tormento personale del Papa, diviso tra l’istinto del suo cuore a difendere la Chiesa perseguitata e il giudizio della sua mente che fosse necessario perseguire la politica del “salvare il salvabile” [italiano nell’originale, NdT] – la quale, come una volta ebbe a dire all’arcivescovo Casaroli, non era una “politica di gloria”. L’arcivescovo di Cracovia si riteneva inoltre obbligato ad affermare la solidarietà verso un vicino perseguitato e profondamente ferito, la Chiesa in Cecoslovacchia, dove la situazione si era deteriorata durante gli anni della nuova Ostpolitik vaticana.
Così il cardinale Wojtyła e uno dei suoi vescovi ausiliari, Juliusz Groblicki, ordinarono clandestinamente dei sacerdoti per il servizio in Cecoslovacchia, nonostante il fatto (o forse a causa del fatto) che la Santa Sede avesse vietato ai vescovi sotterranei di quel paese di compiere simili ordinazioni. Le ordinazioni clandestine a Cracovia avvenivano sempre con l’esplicito permesso del superiore del candidato - il suo vescovo o, nel caso di membri di ordini religiosi, il suo padre provinciale. Si dovettero elaborare dei sistemi di sicurezza. Nel caso dei Padri Salesiani, veniva utilizzato un sistema di schede divise a metà. Il certificato che autorizzava l’ordinazione veniva tagliato a metà. Il candidato, che doveva essere trasportato di nascosto oltre confine, ne portava con sé una metà a Cracovia, mentre l’altra veniva inviata tramite un corriere clandestino al superiore salesiano di Cracovia. Le due metà venivano quindi riunite, e l’ordinazione poteva procedere nella cappella dell’arcivescovo a Franciszkańska.
Il cardinal Wojtyła non informava la Santa Sede di queste ordinazioni. Non le considerava come atti di sfida alla politica vaticana, ma come un dovere verso compagni di fede sofferenti. E presumibilmente non voleva sollevare una questione che non poteva essere risolta senza provocare dolore a tutte le parti coinvolte. Inoltre, forse credeva che la Santa Sede e il Papa fossero a conoscenza del fatto che a Cracovia si stessero facendo cose del genere, che si fidassero del suo giudizio e della sua discrezione, e che potrebbero aver accolto una sorta di valvola di sicurezza in quella che stava diventando una situazione sempre più disperata. [2]
Notate come Weigel cerca di aggirare l’importanza dei fatti che ha appena presentato. Nel bel mezzo di una Chiesa ancora improntata alle logiche degli anni ’50, salda nella morsa di un ultramontanismo indiscusso, il cardinal Wojtyła, semplicemente, disobbedì alla proibizione papale circa tali ordinazioni e vi procedette comunque, con il coinvolgimento di un vescovo ausiliare e la consapevolezza dei superiori in questione. La frase “nonostante il fatto (o forse a causa del fatto)” è un pregevole esempio di nonsense: che senso ha dire che qualcuno ha fatto ordinazioni proibite a causa del fatto che erano proibite? E ancora, se il cardinale sapeva di agire contro la volontà e le disposizioni del papa, senza nemmeno informarlo, si può sinceramente affermare che “non le considerava come atti di sfida alla politica vaticana”, quando ciò è esattamente quello che erano? [3] Ovviamente, Wojtyła non sollevò la questione “davanti alle autorità” perché credeva che in questo caso esse fossero nel torto. Inoltre l’affermazione per cui, in uno sforzo per “sanificare” l’evento, si sostiene che Wojtyła “forse credeva che la Santa Sede e il Papa fossero a conoscenza del fatto che a Cracovia si stessero facendo cose del genere” è totalmente gratuita. Dove sono le prove di ciò? Fu proprio a causa del fatto che il Papa e il suo Segretario di Stato dell’epoca non si fidavano del giudizio e della discrezione di eroi e confessori della fede come il cardinale Stefan Wyszyński o (come vedremo più avanti) il cardinale Josyf Slipyj che il Vaticano aveva proibito le ordinazioni, sotterranee o alla luce del sole che fossero. Weigel non dovrebbe fare null’altro che attenersi alla verità: come giustamente dice, il cardinale sapeva di avere un obbligo davanti a Dio, e un dovere verso i compagni di fede sofferenti. E questo è tutto ciò che occorre dire. [4]

Secondo quanto riporta un altro biografo di Karol Wojtyła:
Wojtyla aveva con la Primavera di Praga un legame più grande di quanto potesse lasciar trasparire. Nel corso degli anni, aveva gradualmente ampliato la sua attività di ordinazione segreta di sacerdoti clandestini cecoslovacchi. Almeno a partire dal 1965 iniziò ad educare ed ordinare candidati al sacerdozio sotto copertura provenienti da paesi comunisti come l’Ucraina, la Lituania e la Bielorussia, dove pure i seminari erano stati chiusi. Alcuni candidati, per arrivare in Polonia, attraversavano di nascosto il confine, mentre altri si organizzavano tramite lavori secolari che gli permettevano di viaggiare legalmente; per esempio, uno di essi era uno psicologo che visitava periodicamente un istituto ospedaliero polacco. Wyszynski, a Varsavia, era a conoscenza della natura, se non dei dettagli, di queste attività. Se le autorità ne avessero saputo qualcosa, avrebbero con ogni probabilità arrestato Wojtyla. [5]
Che siamo o meno tra gli entusiasti di “Giovanni Paolo il Grande”, una cosa è chiara: ciò che ha fatto a Cracovia era del tutto giustificato e va ad accrescere, piuttosto che a sminuire, il lustro della sua persona.
Ordinazioni Episcopali Clandestine
Ora è opportuno guardare al caso parallelo del cardinale Josyf Slipyj (1892-1984), del quale è stata introdotta a Roma la causa di canonizzazione. Egli è andato un passo più in là rispetto a quanto fatto da Wojtyła, eseguendo ordinazioni episcopali proibite e clandestine, in ragione della sua intima convinzione che il bene della Chiesa Greco-cattolica Ucraina (CGCU) nell’Unione Sovietica lo richiedesse. Padre Raymond J. De Souza riassume la vicenda in questi termini:
Nel 1976, il capo della CGCU, il cardinale Josef Slipyj, che viveva in esilio a Roma dopo aver passato 18 anni in un gulag sovietico, temeva per il futuro della CGCU. Avrebbe avuto ancora vescovi a guidarla, dal momento che lo stesso Slipyj aveva ormai più di 80 anni? Così ordinò clandestinamente tre vescovi, senza il permesso del Santo Padre, il Beato Paolo VI. All’epoca, la Santa Sede seguiva una politica di deferenza nei confronti del blocco comunista: Paolo VI non avrebbe dato il permesso per l’ordinazione di nuovi vescovi per paura di contrariare i sovietici. La consacrazione di vescovi senza mandato papale è un crimine canonico molto grave, per il quale è prevista la pena della scomunica. Il beato Paolo VI - che probabilmente sapeva, in via ufficiosa, ciò che Slipyj aveva fatto - non comminò alcuna sanzione. [6]
Ho recentemente discusso di questo argomento con una fonte assai preparata che aveva letto le Memorie del cardinale Slipyj, non ancora disponibili in inglese. Questa mi riferì che il cardinale era stato attirato a Roma col pretesto di “un incontro”, e poi gli fu stato detto che non poteva lasciare Roma per tornare in Unione Sovietica a vivere e soffrire con il suo popolo, per quanto egli fosse ben disposto a tornare nel gulag. Per lui era una fonte di grande sofferenza vivere comodamente a Roma mentre il suo gregge faticava sotto l’oppressione dei comunisti e degli ortodossi. Come scrive Jaroslav Pelikan in Confessor Between East and West:
Qui in esilio, qui nella Roma per la quale lui e la sua chiesa avevano fatto tanti sacrifici, il metropolita ucraino si sentiva sempre più accerchiato da quello che chiamò, in uno dei sottotitoli di un documento mandato al papa, l’“atteggiamento negativo” che continuamente incontrava da parte delle “sacre congregazioni della curia romana”. Talvolta, nella sua esasperazione per quell’atteggiamento, ricorreva persino all’iperbole di affermare che mai era stato maltrattato dagli atei in Unione Sovietica quanto lo era ora da parte di altri cattolici e di confratelli nel sacerdozio a Roma. [7]
A dire della mia fonte sopramenzionata, Paolo VI certamente sapeva delle ordinazioni episcopali segrete, ma decise di non punire il Cardinale perché diffusamente venerato come Confessore della Fede. Uno dei vescovi ordinati in segreto era Lubomyr Husar: in seguito, Giovanni Paolo II riconobbe ufficialmente la sua consacrazione, lo nominò Arcivescovo Maggiore della Chiesa Greco-cattolica Ucraina e lo creò cardinale nel 2001. [8]

Va inoltre rilevato che l’azione del cardinale Slipyj si colloca in un periodo in cui era ancora in vigore il Codice di Diritto Canonico piano-benedettino (1917). Il can. 2370 del Codice del 1917 recita: “Episcopus aliquem consecrans in Episcopum, Episcopi vel, loco Episcoporum, presbyteri assistentes, et qui consecrationem recipit sine apostolico mandato contra praescriptum can. 953, ipso iure suspensi sunt, donec Sedes Apostolica eos dispensaverit” (Il Vescovo che consacra un altro Vescovo, e gli eventuali Vescovi o sacerdoti che partecipano al posto dei Vescovi, e colui che riceve la consacrazione senza mandato apostolico, contro la prescrizione del can. 953, sono sospesi ipso iure [da questa stessa legge, cioè senza la necessità di una dichiarazione] fino a quando la Sede Apostolica non li abbia dispensati). Il tenore del Codice chiarisce che tale clero è sospeso non in virtù di un annuncio della pena ma semplicemente a causa di ciò che ha fatto, vale a dire aver eseguito consacrazioni senza mandato apostolico - cosa che Paolo VI mai ha concesso a Slipyj. Un positivista giuridico direbbe che la sospensione in cui il cardinale era incorso si sarebbe dovuta rimuovere espressamente, in seguito. Eppure, il fatto che tale sospensione non sia mai stata revocata è un’eloquente testimonianza del ruolo dell’epikeia nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto. In breve: sussisteva una situazione nella quale il canone, semplicemente, non dispiegava alcun effetto. Ciò dovrebbe farci riflettere sui limiti del positivismo giuridico.

Écône vista sotto una nuova lente
Quando la Chiesa è sotto attacco ed è in gioco la sua sopravvivenza, o quando è gravemente minacciato il suo bene comune, una flagrante “disobbedienza” ai comandi o alle leggi del papa può essere giustificata – anzi, non solo giustificata, ma giusta, meritoria: insomma, una cosa da santi. Nessuno ha mai messo in dubbio che il papa abbia il diritto di stabilire le norme relative alle consacrazioni episcopali, e che i cardinali Wojtyła e Slipyj abbiano indiscutibilmente e scientemente violato il diritto canonico, cosa che avrebbe dovuto meritargli un posto di disonore - se non di obbrobrio - a fianco di Mons. Lefebvre. E invece, li celebriamo come eroi della resistenza contro il comunismo.

La ragione di ciò è che riconosciamo una legge più fondamentale di quella dei dettami canonici: salus animarum suprema lex, la salvezza delle anime è la legge suprema. È per la salvezza delle anime che esiste l’intera struttura del diritto della Chiesa: esso non ha altro scopo se non quello di proteggere e promuovere la condivisione col genere umano della vita stessa di Cristo. In circostanze normali, le leggi ecclesiastiche creano una struttura all’interno della quale la missione della Chiesa può svolgersi in modo ordinato e pacifico. Ma possono esistere situazioni di anarchia o dissoluzione, di corruzione o apostasia, in cui le strutture ordinarie diventano impedimenti, e non facilitatori, della missione della Chiesa. In questi casi, la voce della coscienza impone di fare ciò che è necessario, con prudenza e carità, per il raggiungimento della legge sovrana.

Col passare degli anni, osservando la Chiesa cattolica discendere sempre più nel caos dottrinale, morale e liturgico, non posso più accettare l’opinione che Mons. Marcel Lefebvre si sia reso colpevole di una “ingiusta disobbedienza”. [9] Egli si è trovato stretto in una situazione terribile, con un Vaticano ostile che sembrava non curarsi minimamente della tradizione (e - santo cielo! - come sembra averci riportato nella stessa situazione questo 2021!), e una diaspora mondiale di cattolici tradizionali che guardavano a lui per una soluzione semi-stabile. L’imposizione del Novus Ordo e l’aggiornamento teologico lanciato dal Concilio fu una sorta di “Ostpolitik con la Modernità” contro la quale Lefebvre giustamente protestava, e contro la quale era disposto a compiere un passo decisivo quando la Fede appariva minacciata come mai prima.

Le azioni di Wojtyła e Slipyj mettono Écône sotto una nuova luce. Ciò non equivale a dire che tutte le difficoltà svaniscono come d’incanto, perché a chiunque, amico o nemico, è chiaro che non è normale avere una società di sacerdoti che opera nelle diocesi di tutto il mondo senza giurisdizione ufficiale, e occorre pregare per una felice soluzione a una situazione di emergenza attizzata da coloro che, trascurando ogni dovere, permisero al fumo di Satana - e ora, pare ovvio dirlo, a fascine e fascine di finocchi ardenti - di pervadere la Chiesa di Dio. Quando un edificio è in fiamme, si cerca di spegnere l’incendio e di soccorrere le vittime con ogni mezzo a disposizione, piuttosto che aspettare l’arrivo dei vigili del fuoco, soprattutto se si sa per amara esperienza che il capo squadra è assenteista, o addormentato, o ubriaco, o convinto che il fuoco sia benefico, e che la maggior parte dei vigili del fuoco sono degli idioti incompetenti i cui metodi non funzionano o, peggio, sono pagati dai piromani per gettare benzina sul fuoco.

Di una cosa si può essere certi: di questa crisi non possono essere accusati coloro che, consapevoli del loro obbligo davanti a Dio e del loro dovere verso i compagni di fede sofferenti, vi hanno risposto come meglio potevano, con le armi luminose dell’obbedienza alla legge ultima che governa tutte le altre: salus animarum suprema lex.

Una lezione per noi
Se il Vaticano, sulla scia della Traditionis Custodes, avesse l’ardire di vietare le ordinazioni sacerdotali nel rito tradizionale, sarebbe del tutto giustificabile per un vescovo consapevole della posta in gioco [10] continuare a ordinare sacerdoti in modo tradizionale ma clandestino, senza richiedere - né ottenere - alcuna autorizzazione. Anche se il nuovo rito dell’ordinazione è valido (come lo è il nuovo rito della Messa), esso è, in termini liturgici, gravemente difettoso, inadatto e inautentico. L’autorevole testimonianza, la priorità e la superiorità della lex orandi del rito tradizionale devono essere preservate nella vita della Chiesa fino al momento in cui il Pontificale Romanum tridentino potrà essere universalmente restaurato.

Allo stesso tempo, vediamo che Wojtyła e Slipyj hanno agito clandestinamente, il che ci suggerisce che azioni come le loro non devono necessariamente essere annunciate in modo pubblico e, per così dire, dare spettacolo. Essi stavano rispondendo a una situazione impellente e disperata, con tutta la calma e la risolutezza di cui erano capaci. Nel dire ciò, non voglio sottintendere l’impossibilità di una situazione in cui tali azioni non potrebbero giustamente essere compiute alla luce del sole, ma piuttosto, voglio sottolineare che quando ciò che è richiesto è una disobbedienza materiale, normalmente la via clandestina è preferibile a quella pubblica.

Ciò ha ovvie implicazioni per la nostra situazione attuale. Se, in buona coscienza, un sacerdote sceglie di non ottemperare ai mandati o alle prescrizioni ingiuste provenienti dall’autorità ecclesiastica, egli non deve necessariamente annunciare al mondo che non obbedirà, ma dovrebbe semplicemente disobbedire e continuare con la sua opera pastorale e sacerdotale. Se e quando incorresse in sanzioni, non dovrebbe farne un polverone, ma ignorarle e andare avanti. Ancora una volta, la parola chiave è normalmente: ci possono essere momenti in cui la resistenza aperta è la via migliore, come nel caso dell’occupazione della chiesa di St. Nicolas du Chardonnet a Parigi sotto la guida di Mons. Ducaud-Bourget e la presa della chiesa di Saint Louis du Port Marly, la cui porta era stata murata. [11]

Indiscutibilmente, la tentazione di ricorrere immediatamente ai social media, con i pro e i contro del sostegno popolare che essi generano, rende più difficile che mai un buon discernimento su quale sia la linea di condotta più prudenziale (che potrebbe rivelarsi il “restare sotto i radar”).

Conclusione
Uno dei tanti modi in cui l’opera di Mons. Lefebvre riesce oggi riavvalorata è questo: egli vide che doveva continuare a ordinare sacerdoti (e, d’altra parte, vescovi) nel rito tradizionale. L’usus antiquior è un tutto indivisibile: una lex orandi unitaria, coerente, trasmessa di generazione in generazione, che incarna la lex credendi della fede cattolica. Sì, ci sono sacerdoti che sono stati ordinati validamente nel nuovo rito (come lo era l’arci-tradizionalista p. Gregory Hesse) e che in seguito si sono uniti alla FSSP, alla FSSPX, etc. Ma mantenere intatti e vivi, a tutti i livelli, gli antichi riti di ordinazione è più importante di quanto la maggior parte delle persone si renda conto.

Se la Congregazione per il Culto Divino o la Congregazione per i Religiosi dovessero chiedere di non utilizzare più gli antichi riti di ordinazione, quello, pure, dovrà essere per noi il momento del “non possumus”: questo, semplicemente, non possiamo accettarlo. Ma, ancora di più, sarà il momento della più grande sfida dei prossimi anni: ci saranno cardinali, arcivescovi, vescovi che, in tali circostanze, saranno disposti a conferire in clandestinità gli ordini sacri nei riti tradizionali? Nostro Signore che, nella sua Provvidenza, ci ha donato il glorioso patrimonio della Chiesa di Roma, provvederà certamente alla sua conservazione nell’ora del bisogno.
[Traduzione a cura di Carlo Schena, testo rivisto dall’autore]
__________________________________ Note:
[1] Weigel sembra non aver letto il libro Windswept House, altrimenti avrebbe dimostrato un atteggiamento meno naïf sulla figura del cardinale Agostino Casaroli (il cardinale Cosimo Mastroianni, nella finzione appena mascherata di Martin) o, se è per questo, di Paolo VI.
[2] George Weigel, Witness to Hope: The Biography of John Paul II, rev. ed. (New York, Harper Perennial, 2020), p. 233 [questa e tutte le seguenti citazioni sono tradotte del traduttore del presente articolo, e non corrispondono necessariamente alle versioni ufficiali in italiano delle opere da cui sono tratte, NdT].
[3] Secondo alcuni, la proibizione delle ordinazioni clandestine si applicava alla sola Cecoslovacchia, per cui Wojtyła, facendo venire i seminaristi da lui a Cracovia, eludeva abilmente il problema, e di fatto non agiva in disubbidienza di alcuna regola. In ogni caso, si può essere certi di una cosa: il motivo del divieto era quello di blandire le autorità comuniste, che di certo non sarebbero state contente di sapere che i seminaristi, per farsi ordinare, non facevano altro che attraversare il confine (secondo Jonathan Kwitny, Wojtyła effettuava ordinazioni segrete anche per le Chiese d’Ucraina, Lituania e Bielorussia). Quindi, l’Ostpolitik vaticana avrebbe sicuramente fermato ciò che Wojtyła stava facendo, se lo avesse scoperto. Si potrebbe affermare, quindi, che quanto il Cardinale di Cracovia fece era contrario all’intenzione nota o desumibile del legislatore, ma non contrario al fine di ogni legge ecclesiastica, cioè la salvezza delle anime. E questo è il punto principale che voglio evidenziare in tutti gli esempi discussi in questo articolo. Come l’uomo non è fatto per il sabato, ma il sabato per l’uomo, così anche la Chiesa non è fatta per il diritto canonico, ma il diritto canonico per la Chiesa.
[4] Il fatto che Weigel abbia saputo di queste ordinazioni soltanto per ammissione personale dello stesso Giovanni Paolo II nel 1996, come riporta la corrispondente nota a piè di pagina nel suo libro, dimostra che Wojtyła non aveva remore di coscienza per quanto aveva fatto: non intendeva farne mistero, per lo meno una volta che la tempesta era passata. Vale anche la pena di sottolineare che se Wojtyła avesse ricevuto da Roma una sorta di cenno o indicazione che avrebbe dovuto procedere (come arbitrariamente Weigel immagina), lo avrebbe senz’altro menzionato al biografo nel raccontargli la storia. Cosa che non fece, e sembra infatti molto più credibile ritenere che non ci sia stata alcuna discussione tra Roma e Wojtyła su questo punto.
[5] Jonathan Kwitny, Man of the Century: The Life and Times of Pope John Paul II (New York, Henry Holt, 1997), p. 220.
[6] “Ukrainian Cardinals Husar and Slipyj are heroes to Church community”, The Catholic Register, 22 giugno 2017. Secondo un’altra fonte, l’anno era il 1977. Al momento della stesura di questo articolo, De Souza sembra riconoscere come legittima la beatificazione di Paolo VI; molti cattolici tradizionali mettono in dubbio tanto il metodo quanto la validità della sua “canonizzazione”. Per una spiegazione completa, si veda Peter A. Kwasniewski, ed., Are Canonizations Infallible? Revisiting a Disputed Question (Waterloo, Ontario, Arouca Press, 2021), specialmente pp. 219-41.
[7] Jaroslav Pelikan, Confessor Between East and West: A Portrait of Ukrainian Cardinal Josyf Slipyj (Grand Rapids, Michigan: William B. Eerdmans, 1990), p. 173. In questo libro sono riportati trovare degli “interessanti” esempi di Ostpolitik; si vedano, ad esempio, pp. 182-86.
[8] La storia della CGCU è una di quelle che riaccende la speranza. Si considerino le seguenti statistiche, e l’analogia che se ne può ricavare guardando allo stato della Chiesa di rito latino e alla sua condizione di “morte e risurrezione” liturgica che va dagli anni ‘60 fino ad oggi, in cui si colgono le prime avvisaglie di una ripresa grazie al movimento tradizionale: “Nel 1939, la CGCU contava circa 3.000 sacerdoti in Ucraina. Nel 1989, dopo 50 anni di guerra e persecuzione, il numero di sacerdoti si era ridotti del 90%, a soli 300. Con un’età media di 70 anni, il clero della CGCU era ad appena una generazione dall’estinzione; ma poi avvenne la liberazione divina, e la risurrezione di una Chiesa di martiri. Dopo quasi 30 anni, la CGCU ha di nuovo 3.000 sacerdoti con un’età media di 39 anni. Ci sono circa 800 seminaristi per cinque milioni di fedeli della CGCU sparsi in tutto il mondo” (ibid.).
[9] Raccomando sul punto l’analisi comprensiva ma non acritica della figura di Lefebvre che si legge in H.J.A. Sire, Phoenix from the Ashes: The Making, Unmaking, and Restoration of Catholic Tradition (Kettering, Ohio, Angelico Press, 2015), pp. 410-30, et passim. È ancora mia opinione, in linea con l’articolo che ho pubblicato su 1P5 il 3 aprile 2019, che le cappelle della FSSPX dovrebbero essere frequentate in caso di emergenza o impossibilità morale, cioè se entro una distanza ragionevole non è disponibile un’altra parrocchia o cappella tradizionale in unione con l’Ordinario del luogo. Lo dico come qualcuno che non ha assolutamente alcuna animosità verso i frequentatori della FSSPX, alcuni dei quali sono amici personali, e che senz’altro ha nulla meno del più alto rispetto per quei sacerdoti che hanno continuato a dir Messa e ad amministrare i sacramenti durante la “pandemia”, laddove la risposta mainstream è stata scandalosamente inadeguata.
[10] Con ogni probabilità, nessuna parte della liturgia ha subito tanto danno quanto i riti di ordinazione, che toccano più intimamente l’esistenza e il bene della Chiesa sulla terra. Un testo classico su questo argomento è The Order of Melchisedech di Michael Davies; opera che, dopo essere stata per molto tempo fuori stampa, è stata recentemente ripubblicata da Roman Catholic Books (il link vi porterà al sito del Sophia Institute, che lo sta distribuendo). Davies illustra la distorsione protestante e modernizzante nei nuovi riti di ordinazione e sostiene l’urgenza di mantenere e ripristinare quelli tradizionali. Per un confronto ravvicinato tra il nuovo e il vecchio rito, con alcune sorprendenti conclusioni, si veda Daniel Graham, Lex Orandi: Comparing the Traditional and Novus Ordo Rites of the Seven Sacraments (n.p., Preview Press, 2015), pp. 159-85. Spero di poter tornare su questi argomenti in un prossimo articolo.
[11] Per saperne di più sull’eroismo di questa generazione postconciliare, si veda https://rorate-caeli.blogspot.com/2020/12/resistance-is-never-futile-interview.html.

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