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lunedì 20 dicembre 2021

“Responsa ad dubia” sull'applicazione del m.p. “Traditionis custodes”. Un'analisi di Guido Ferro Canale

Ringrazio Guido Ferro Canale che ci ha fatto pervenire le sue osservazioni su Responsa ad Dubia della Congregazione del culto divino — da riguardare essenzialmente come un'istruzione sull'attuazione del Traditionis custodes — pubblicata il 18 dicembre. La trattazione ripresa di seguito è tecnica ma chiara e limpida e consente un'analisi articolata e rigorosa a tutto campo. 
Aggiungo una notazione già espressa, che svilupperò ulteriormente altrove e che purtroppo resta valida, riferita al prevalere ormai consolidato della prassi, perfino su basi arbitrarie, sulla dottrina. L'analogia con quanto ormai accade a livello civile è evidente. Ne conosciamo le cause; ma il difficile è coordinare le soluzioni. Il vero problema è che, mentre chi ama la tradizione è collocato in un ordine costituito e reagisce in punta di diritto, gli interlocutori che hanno in pugno la chiesa sono immersi nel fluido cangiante orizzonte conciliar-storicista che va oltre ogni norma e fa dell'arbitrio la sua regola aurea. Ed è per questo che non rispondono mai nel merito agli argomenti fondati sul magistero perenne, cambiando nome alla fedeltà che per loro è fissismo, rigidità, pelagianesimo... E così l'incomunicabilità è totale e, mentre le loro determinazioni incidono sulla realtà, noi non riusciamo più nemmeno ad arginarle se non con le nostre denunce per chi ha orecchi per intendere. E siamo sempre più all'angolo con la prospettiva di dover custodire il nostro tesoro in clandestinità. Tuttavia oggi, rispetto all'immediato post-concilio, il fronte di resistenza dell'intero orbe cattolico è più allargato, in parte anche grazie ai provvidenziali effetti del Summorum e alle comunicazioni più immediate e dirette che riusciamo ad intrecciare con impegno inesauribile. Vedremo... (M.G.)

Responsa ad dubia” sull'applicazione del m.p. “Traditionis custodes”.
Un'analisi


Sul Bollettino della Sala Stampa della S. Sede, in data 18 dicembre 2021, sono stati pubblicati undici dubia relativi all'applicazione del m.p. “Traditionis custodes” (di cui è stato ora diffuso anche il testo latino), insieme con le relative risposte, tutte corredate di note esplicative che illustrano la mens del Dicastero, e una lettera di accompagnamento del Prefetto, Ecc.mo Mons. Arthur Roche, datata al 4 dicembre in quanto anniversario della promulgazione della “Sacrosanctum Concilium”.

Non mette conto soffermarsi sulle affermazioni di carattere generale relative al senso dell'intervento normativo pontificio, che riecheggiano quelle già formulate dal legislatore stesso (e come potrebbero fare altrimenti?). Invece, è bene esaminare le singole risposte, perché – se tutte appaiono peggiorative della condizione dei fedeli anche rispetto ad un'onesta lettura del m.p. di riferimento, quindi di legittimità almeno problematica - più di una è senz'altro contra legem.

Ciò vale in modo particolare per la prima: si afferma qualcosa di abbastanza ovvio, cioè la possibilità di dispensa dal divieto di mantenere le celebrazioni secondo il Messale del 1962 nelle chiese parrocchiali in caso di oggettiva impossibilità di trasferirle altrove, ma la formulazione del responso, e prima ancora del quesito, implica che tale concessione spetti alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, su richiesta del Vescovo. Il che è falso: ai sensi del can. 87 §1, già applicato in re da molti Ordinari, il Vescovo diocesano può dispensare direttamente da tutte le leggi emanate dalla Sede Apostolica, salvo che Essa si sia riservata in modo espresso tale facoltà, e l'art. 7 del “Traditionis custodes” si limita ad attribuire alla Congregazione la competenza a vigilare sull'applicazione delle nuove norme da esso recate, senza formulare una riserva del genere. Del resto, non si vede come la Congregazione potrebbe valutar meglio del Vescovo quella che è, in buona sostanza, una questione di puro fatto. I fedeli, semmai, potrebbero rivolgersi al Dicastero chiedendo tale dispensa, perché la S. Sede ha sempre il potere di intervenire direttamente e non solo in seconda istanza; ma, nella prassi della Curia Romana, simili richieste vengono quasi sempre rimandate al Vescovo del luogo... e sarebbe ben strano il contrario. Infatti, le alternative possibili sono solo due:
  1. la Congregazione si limita a mettere un “visto, si approva” alla relazione del Vescovo che spiega perché non si possa fare altrimenti;
  2. la Congregazione, ogni volta, invia una missione sul posto e verifica quanto le è stato detto.
Nessuna delle due ipotesi appare molto sensata. In realtà, il Dicastero, se interpellato da un Vescovo, dovrebbe semplicemente rispondere: “Utatur iure suo”; se interpellato dai fedeli, accordare un c.d. rescritto in forma commissoria, in cui o si concede la grazia purché siano veri i fatti esposti e si incarica l'Ordinario di verificare, oppure si lascia a lui anche valutare l'opportunità di concederla (cfr. can. 70).
In ogni caso, è importante notare che, fin quando l'autorità interpellata non provveda, lo status quo ante resta pienamente valido ed efficace (nonostante la legge sopravvenuta) e che i provvedimenti della Congregazione sono impugnabili presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica anche rispetto alla sussistenza o meno dei fatti rilevanti per la concessione della grazia in discorso.[1]

Il secondo quesito riguarda la possibilità di celebrare i Sacramenti secondo il Rituale e il Pontificale anteriori, ammessa solo per il Rituale e solo nelle superstiti Parrocchie personali.

Al riguardo, occorre anzitutto precisare che il “Traditionis custodes”, come già il “Summorum Pontificum”, di per sé lascia intatto il m.p. “Ecclesia Dei” nn. 5 e 6 lett. a), cioè la legge-quadro sulla scorta della quale sono stati eretti tutti i vari Istituti detti appunto “dell''Ecclesia Dei'” (lo ha puntualmente notato la Fraternità S. Pietro, mentre non sembra d'accordo don Barthe). Oggi è invalso l'uso di dire “ex-Ecclesia Dei”, come se la denominazione andasse riferita alla Commissione soppressa: errore politico oltreché giuridico, perché dimentica o trascura l'importanza di una legge ecclesiastica universale che – pur senza mettere in discussione le riforme postconciliari come tali – ha riconosciuto il persistente diritto di cittadinanza delle “precedenti forme liturgiche e disciplinari della traditione latina”. Può darsi che domani un nuovo provvedimento cambi o provi a cambiare le carte in tavola; ma oggi questi Istituti esistono ancora di pieno diritto e, siccome il “Traditionis custodes” li tange solo per quel che riguarda l'apostolato attivo nelle varie Diocesi, conservano il privilegio, loro accordato all'atto dell'erezione, di utilizzare il Pontificale Romanum in vigore nel 1962 per gli Ordini maggiori e minori, oltreché per qualunque altra funzione intendessero celebrare. Lo stesso vale a fortiori per l'Amministrazione Apostolica personale di Campos, la cui erezione è stata disposta direttamente dal Papa proprio in questi termini e che, dovesse mai perdere questa nota caratteristica dell'uso esclusivo ed integrale dei libri liturgici antecedenti la riforma, secondo logica andrebbe soppressa tout court, perché non avrebbe più senso mantenere in vita un “doppione” della Diocesi di Campos.
Questo pur doveroso rilievo, però, non deve nascondere l'importanza del problema: la risposta implica un giudizio di avvenuta abrogazione dell'art. 9 del “Summorum Pontificum”,[2] oltreché un conseguente divieto generale di utilizzo sia del Pontificale sia del Rituale.[3] Ma tale valutazione è erronea in diritto: in primo luogo, nel “Traditionis custodes” manca una clausola finale del tipo “il 'Summorum Pontificum' è abrogato e, in difetto di una simile statuizione espressa, l'effetto abrogativo non può che esser limitato ai casi di contrarietà testuale; ma le nuove disposizioni tacciono del tutto sui libri liturgici diversi dal Messale, quindi, ai sensi del can. 21, deve intendersi che le precedenti rimangano intatte, semmai con un trasferimento del potere di autorizzare l'uso del Rituale in capo al designando delegato del Vescovo, dal momento che ciò rientra senza dubbio nella cura pastorale dei fedeli.[4] Pensare, poi, che l'art. 1 TC possa comportare un simile divieto generale è tanto più assurdo in quanto non lo comporta nemmeno per il Messale, unico libro di cui si preoccupi.

Credo che il problema avrà un'importanza pratica relativamente limitata; tuttavia, la posizione assunta dal Dicastero potrebbe risolversi nel diniego – veramente odioso – di esequie more antiquo, di Battesimi e Matrimoni, ma anche delle processioni e, in astratto, perfino delle benedizioni.[5]
Per giunta, sembra il caso di osservare (rilievo per cui ringrazio l'amico Simone Silvagno) che il Messale non contiene un rito per la S. Comunione dei fedeli, il quale si trova solo nel Rituale: il Codice delle rubriche, n. 502, rinvia ad esso espressamente... ma solo per la Comunione extra Missam, che quindi, se volessimo adottare una lettura formalistica eppur coerente con la premessa, sarebbe l'unica permessa. Trattandosi però di un rito assai odiato dai paladini della riforma, un simile esito difficilmente corrisponderebbe alla mens legislatoris. Non resta, quindi, che prendere atto che la Congregazione non conosce il rito che sarebbe chiamato a regolare: niente di strano, dato che non se n'è più occupata almeno dal m.p. “Ecclesia Dei” in avanti... ma un po' più di studio e cautela eviterebbero figuracce, prima ancora che possibili danni. A scongiurare questi ultimi, comunque, per fortuna basta la semplice epieikeia: checché si pensi del responso in sé, appare evidente che, se il caso specifico fosse stato noto al Dicastero nei suoi esatti termini, la risposta sarebbe stata diversa. Quindi, si può continuare tranquillamente ad amministrare la Comunione infra Missam come da Rituale.

Il terzo quesito riguarda la possibilità di revocare la facoltà di celebrare secondo il Messale del 1962 al Sacerdote che “non riconosca la validità e la legittimità della concelebrazione – rifiutandosi di concelebrare, in particolare, nella Messa Crismale”.

Ora, se qualcuno non ritiene valida la concelebrazione, è giusto opporgli l'indefettibilità delle leggi ecclesiastiche universali, trattandosi di un uso ammesso tanto in Oriente quanto in Occidente, sebbene circoscritto, nel rito romano e prima della riforma, alla Messa di ordinazione sacerdotale. Se invece nega la legittimità, cioè a rigor di termini la natura di legge all'odierno rito della concelebrazione, non si vede su cosa possa basarsi: tutto ciò che il concelebrante è strettamente tenuto a fare è proferire la formula consacratoria. Quindi, fin qui non dovrebbe porsi proprio nessun dubbio: altro che pensare a quella specifica concessione, qui bisogna verificare molto bene la preparazione teologica del soggetto in questione, per non dire la sua ortodossia.

Senonché, il dubium aggiunge una circostanza ben familiare a chi ricordi un po' le vicissitudini della Liturgia tradizionale al tempo dell'indulto: il rifiuto di concelebrare alla Messa Crismale. E allora occorre qualche precisazione in più. Un tale rifiuto può nascere dall'atteggiamento fin qui descritto, nel qual caso la risposta del Dicastero sembra ineccepibile; ma il can. 902 stabilisce che ogni Sacerdote ha sempre il diritto di celebrare in forma individuale. Non esiste una stretta obbligatorietà neppure per la concelebrazione alla Messa Crismale; tuttavia, il modo in cui essa è stata costruita (come segno visibile dell'unità del clero operante in Diocesi attorno al Vescovo) rende senza dubbio raccomandabile che tutti vi prendano parte. Il che ha creato problemi seri agli Istituti dell'“Ecclesia Dei”, come si è visto da ultimo con la recente vicenda dell'espulsione della Fraternità S. Pietro da Digione; e di fatto, siccome un prete diocesano interessato dal TC è quasi sempre “biformalista”, sembra quasi impensabile che possa rifiutarsi di concelebrare, oltretutto per ragioni di principio anziché di impegni pastorali, quindi – malgrado la formulazione onnicomprensiva - questa risposta riguarda essenzialmente proprio quegli Istituti, ai cui membri l'autorizzazione è necessaria in vista dell'apostolato esterno, dunque per le SS. Messe cum populo.

La mia opinione personale è che il problema si potrebbe risolvere con un po' di buona volontà da entrambe le parti, come del resto è avvenuto in molti casi e luoghi: premesso che la posizione romana, chiarita al tempo della vicenda della Fraternità S. Pietro (1999-2000) e mai cambiata, afferma che gli Istituti hanno il privilegio di continuare ad usare i libri liturgici precedenti, ma che ciascun loro Sacerdote ha anche il diritto nativo, spettante ad ogni prete della Chiesa latina, di utilizzare quelli riformati e che quindi non possono ritenersi esentati da ogni e qualunque (con)celebrazione Novus in forza del can. 846 §2; precisato, in quanto possa occorrere, che considero corretta questa visione, la quale peraltro spiega bene perché il “Summorum Pontificum” abbia scelto di parlare di due forme di un unico rito; gli uni dovrebbero prendere atto che nessuno dovrebbe mai essere obbligato a concelebrare, gli altri che talvolta l'esercizio del proprio diritto, se non dà scandalo in senso proprio, offre però facili pretesti ai nemici e che dare una dimostrazione concreta del proprio riconoscimento di “validità e legittimità” della nuova Messa non equivale in automatico a tradire le Costituzioni del proprio Istituto di appartenenza (che proprio quel riconoscimento contengono).[6] La questione andrebbe regolata con cura nelle convenzioni tra ciascun Vescovo e l'Istituto di turno, prevedendo ad es. che il concelebrante non sia tenuto ad altro che a recitare la formula consacratoria (meglio ancora: che possa abbandonare la celebrazione in caso di abusi liturgici) o, se si esclude la concelebrazione, che il Sacerdote dell'Istituto assista in abito corale. Ma tutto questo, per l'appunto, presupporrebbe una buona volontà che oggi sembra scarseggiare, anzitutto a Roma: il rischio che la risposta, anche a costo di forzarne la lettera, venga presa a pretesto per rivedere le convenzioni con gli Istituti dell'“Ecclesia Dei” mi sembra, purtroppo, concreto. Se pure non si arriverà ad un tentativo di imporre a tutti i loro membri l'obbligo di partecipare, concelebrando, alla Messa Crismale: staremo a vedere.

Per quanto riguarda la risposta relativa alle letture in volgare, mi limito a dire che il rilievo “Non potrà essere autorizzata nessuna pubblicazione di Lezionari in lingua vernacola che riporti il ciclo di letture del rito precedente” lascia, evidentemente, intatti quelli già approvato e pubblicati dalle singole Conferenze Episcopali tra il 1965 e il 1969, il cui uso appare innegabilmente più pratico rispetto a quello di una Bibbia integrale.

A questo punto, la Congregazione passa ad illustrare quella che, in realtà, è una modifica al TC: per l'autorizzazione da concedersi ai Sacerdoti ordinati dopo la pubblicazione della nuova legge, il requisito della consultazione con la S. Sede, presente nelle versioni italiana e inglese diramate inizialmente, diviene ora, nel testo latino (che peraltro non risulta ancora promulgato mediante pubblicazione in AAS), una richiesta di permesso. La ragione consiste, in sostanza, nello scoraggiare i nuovi Sacerdoti, che dovrebbero invece essere formati in modo tale da preferire la riforma, anche se la Congregazione si impegna a tener in debito conto il “discernimento” del Vescovo.

Mentre per i Sacerdoti già ordinati il provvedimento è qualificato licentia (e il responso che segue che può anche prevedere una data di scadenza, senza dubbio nell'ottica dell'auspicata progressiva estinzione di siffatte Messe), il testo latino di TC 4 non specifica se debba trattarsi di licentia o privilegio. Poiché però la concessione di un privilegio richiede la potestà legislativa, che i Dicasteri di Curia non possiedono e che dovrebbe essere delegata in modo espresso, l'interpretazione corretta è che anche i nuovi Sacerdoti debbano semplicemente essere autorizzati ad esercitare un diritto che già posseggono. Ulteriore conferma, casomai occorresse, che neppure TC ha abrogato il Messale del 1962.

A questo punto, la Congregazione afferma che l'autorizzazione accordata dal Vescovo diocesano vale solo nel territorio della sua Diocesi. Questo è verissimo per quanto riguarda le Messe cum populo, non però per le sine populo, perchè ai sensi del can. 136 la potestà legislativa si esercita validamente anche sui sudditi assenti dal territorio e la licenza dovrebbe, secondo logica, seguire la persona come e più del privilegio personale (che è una deroga al diritto anziché una sua normale applicazione). Da ciò si potrebbe trarre argomento per sostenere che le Messe sine populo non richiedono autorizzazione alcuna, restando invece in vigore l'art. 2 SP.

Dei due responsi che seguono, non può porre problemi l'affermata necessità di autorizzazione anche in capo a chi sostituisca il Sacerdote assente o impedito; ma quando la si afferma anche per diaconi e ministri istituiti si va, una volta di più, contra legem. TC nulla dispone in proposito; in quanto ordinati o istituiti, detti ministri hanno il dovere di esercitare le rispettive funzioni e il diritto di farlo dove e quando meglio ritengano, salvi gli obblighi di eventuali uffici ricoperti; il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi ha chiarito che l'esercizio dei diritti si può restringere solo per legge, non mediante atto amministrativo; e siccome questi responsi sono un atto amministrativo, sia pur generale, l'obbligo di autorizzazione continua a non sussistere.

Gli ultimi due responsi sono quelli che hanno generato, “a caldo”, le reazioni più forti: in entrambi i casi si nega la facoltà di binare al Sacerdote che celebra secondo il Messale del 1962, “a motivo del fatto che non si configura il caso della 'giusta causa' o della 'necessità pastorale' richieste dal can. 905 § 2: il diritto dei fedeli alla celebrazione eucaristica non viene in alcun modo negato essendo offerta la possibilità di partecipare all’Eucaristia nell’attuale forma rituale.”.

Va detto che il primo caso riguarda la binazione nei giorni feriali; tuttavia, il can. 905 §2 parla di “necessità pastorale” rispetto alle feste di precetto, quindi la risposta si estende anche ad esse almeno per identità di ratio.
Il secondo caso, invece, riguarda il Sacerdote che dovrebbe, nello stesso giorno, celebrare per due gruppi distinti, in entrambi i casi secondo il Messale del 1962: ebbene, perfino in questo caso si ritengono insussistenti, per lo stesso motivo, sia la giusta causa sia la necessità pastorale.
Una risposta del genere è intrinsecamente contraddittoria.

Tralasciato il caso della celebrazione privata, nel sistema di TC un Sacerdote autorizzato dal Vescovo a celebrare per un gruppo di fedeli può essere titolare di un vero e proprio ufficio ecclesiastico, oppure chiamato a sostituire altri, ma in entrambi i casi il Vescovo ha ritenuto che, per il bene dei fedeli, la celebrazione debba avvenire secondo il Messale del 1962 in quei dati giorni, luoghi ed ore. Come pure può aver ritenuto, in ipotesi, di mantenere due gruppi distinti, affidati però ad un solo Sacerdote; e la Congregazione non afferma – né potrebbe farlo – che si tratti di due uffici incompatibili, che non potrebbero essere cumulati. Ebbene, come nota lo stesso Dicastero rispetto al primo quesito, sempre e comunque “si tratta di concessione per provvedere al bene” dei fedeli interessati; e questa è la definizione da manuale di “necessità pastorale”!

Non pretendo che mi si creda sulla parola: trascrivo quindi un commento autorevole al can. 905 §2. il Vescovo “può autorizzare la duplice celebrazione in qualunque giorno della settimana, ma sempre che ricorrano le seguenti condizioni: 1° scarsità di sacerdoti, non solo assoluta ma anche relativa alle necessità pastorali del momento (ad esempio, perché nessun altro sacerdote può celebrare all'ora prevista o anche perché non voglia o non possa obbligarsi a farlo); 2° giusta causa, non occorre che sia grave o pubblica, ma basterà che risponda alle necessità della devozione di un gruppo di fedeli, o che si tratti della celebrazione di una Messa rituale o funebre”; invece, la triplice celebrazione può autorizzarsi “unicamente di domenica o in altre feste di precetto, e sempre che ricorrano le seguenti condizioni: 1° scarsità di sacerdoti, come nel caso già considerato; 2° necessità pastorale, al cui riguardo riteniamo che, essendo scomparso l'aggettivo vera richiesto dal m.p. Pastorale munus I 2, il criterio debba essere ampio, come nel precedente caso, benché applicabile esclusivamente ai giorni di precetto.”.[7]

Ora, quando la Congregazione afferma – sempre a margine del primo responso - che “tale celebrazione non è opportuno che venga inserita nell’orario delle Messe parrocchiali essendo partecipata solo dai fedeli aderenti al gruppo. Infine, si eviti che vi sia concomitanza con le attività pastorali della comunità parrocchiale”, il tutto in quanto “non vi è alcuna intenzione di emarginare i fedeli che sono radicati nella forma celebrativa precedente”, ma occorre “ricordare che si tratta di una concessione per provvedere al loro bene (in vista dell’uso comune dell’unica lex orandi del Rito Romano) e non di una opportunità per promuovere il rito precedente”, non ci sono molti dubbi sul fatto che la sua mens sia in linea con TC e la logica restrittiva ad esso sottesa.[8] Ma quando si viene a dire, in buona sostanza, che questa celebrazione non corrisponde mai ad una necessità pastorale e neppure ad una giusta causa, si cade in radicale contraddizione con la stessa possibilità di autorizzarla, legislativamente prevista, perché ogni atto amministrativo canonico presuppone sempre una giusta causa. Per non parlare, poi, del fatto che un'enormità del genere suona a dir poco insultante per i fedeli interessati.

Naturalmente, il risultato ovvio di responsi simili è l'eliminazione delle Messe affidate a preti diocesani. In rigorosa coerenza con la logica del regno bergogliano, che fin dai suoi esordi (vedi alla voce “Francescani dell'Immacolata”) ha inteso colpire anzitutto e soprattutto quella coesistenza delle due forme rituali che per Benedetto XVI era essenziale alla pace liturgica.

Ora, delle due l'una: o si trasferiscono i coetus esistenti, armi e bagagli, sotto la cura pastorale degli Istituti “Ecclesia Dei”, e allora da un obiettivo male potrà perfino derivare un bene maggiore come l'espansione di questi Istituti; oppure, come sembra di gran lunga più probabile in questo momento, la logica è quella di creare una situazione da “comma 22”, in cui è perfettamente legittimo domandar l'autorizzazione perché queste Messe proseguano, ma sostanzialmente impossibile ottenerla.

A questo punto, viene da chiedersi che fare. E il quesito è ineludibile, non solo per l'importanza pratica delle risposte, né soltanto rispetto alle ultime due.

La legge è chiarissima: l'atto amministrativo generale contra legem è nullo e non ha alcun valore.
Per giunta, diversamente dalle voci circolate, questa non è un'Istruzione, che deve passare al vaglio degli altri Dicasteri, ma una serie di responsi della sola Congregazione: non vi è neppure quella relativa garanzia offerta dal controllo preventivo del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.

Però, nel sistema vigente non esiste la possibilità di impugnare direttamente gli atti amministrativi generali, anche perché la loro efficacia sulla posizione dei singoli non è quasi mai diretta ma passa sempre per un provvedimento ulteriore. Questo è appunto il nostro caso: tutte le indicazioni testé fornite dal Dicastero, per essere attuate, devono passare attraverso un provvedimento del Vescovo e, finché questo non sopraggiunga, tutto rimane come prima, de iure et de facto. Sopraggiunto che sia, lo si impugna per far valere il vizio dell'atto generale “a monte”, da cui quello singolare sarebbe altrimenti vincolato.

C'è però un problema serio in questo meccanismo di tutela: il ricorso non sospende l'esecuzione dell'atto impugnato. Il che significa che, salve improbabili pandemie di coraggio vescovile o ancor più improbabili resipiscenze della Congregazione vaticana, intanto che i ricorsi seguiranno l'iter destinato a portarli in Segnatura molte celebrazioni spariranno.

Questo non deve, a mio avviso, distogliere i fedeli dallo strumento del ricorso gerarchico; anzi, sono dell'idea che, se fosse stato utilizzato più assiduamente in passato e soprattutto nell'immediato post-TC, si sarebbe posto un freno alla tracotanza di chi oggi arriva a negare la stessa applicabilità del concetto di “necessità pastorale” a quelli che sono, fino a prova contraria, fedeli della Chiesa Cattolica che seguono un rito cattolico (cfr. cann. 923 e 1248 §1). Tuttavia, bisogna anche riconoscere ed avvertire che, da solo, questo strumento di tutela rischia di non essere adeguato. Ciò apre la porta alle soluzioni più disparate, rispetto a cui avrebbe poco senso un discorso generale perché non si può ragionare che sul caso concreto; raccomando solo una cosa, lucidità e senso pratico, perché non ha senso lanciarsi in proclami di Resistenza, ovviamente con la maiuscola, se questo non sfocia in un piano per renderla davvero possibile, nonché sostenibile nel lungo periodo. Mi sembra il caso di rinnovare l'esortazione di Giuseppe Sacchetti al primo congresso dell'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici (Venezia, 1874): “Cattolici, preghiamo Iddio che la rivoluzione muoia domani, ma poi lavoriamo com'essa dovesse vivere per sempre
Genova, 19 dicembre 2021
Guido Ferro Canale
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1. In dottrina si discute se siano impugnabili anche i silenzi sulle richieste di grazia, posto che tale possibilità viene espressamente prevista solo al can. 57, che riferisce ai decreti e non ai rescritti. Personalmente sono per l'opinione affermativa, in quanto il silenzio equivale ad un rigetto presunto e il rigetto di una domanda di grazia verrebbe appunto disposto con decreto; mi sembra più importante notare, però, che – perfino se si volesse ammettere l'inesistente riserva alla S. Sede – il silenzio o il grave ritardo della Congregazione rispetto ad istanze che richiedono di essere definite con notevole rapidità farebbe rientrare in gioco il potere di dispensa del Vescovo, stavolta i sensi del can. 87 §2.
2. Dalla Congregazione non viene trattato il problema del Breviario, ma il ragionamento svolto imporrebbe di ritenerlo abrogato a sua volta.
3. Prescindo dal problema, ulteriore e distinto, di una possibile abrogazione dei riti precedenti: siccome a tutt'oggi non esistono né un nuovo Rituale né un nuovo Pontificale, ma solo edizioni riformate di singoli riti, il dubbio affrontato e risolto in termini almeno potenzialmente diversi per ciascuno. Mi sembra che l'art. 9 del “Summorum Pontificum” ce ne dispensi, perché almeno prima facie sembrerebbe presupporre una loro generale vigenza ininterrotta.
4. Tantomeno ha senso ipotizzare, come sembrerebbe fare il responso, che TC 8 possa aver abrogato direttamente gli antichi libri liturgici: se si dettano norme per l'uso di una forma liturgica (come da titolo di TC), la si suppone vigente; se nulla si dice sull'uso di un determinato libro, nulla al riguardo si innova.
5. Non so se da qualche parte siano state riportate in auge le Quarant'ore: nel caso, osservo che l'Istruzione clementina non fa parte del Rituale e quindi resta intatta.
6. In linea generale un gesto del genere non sarebbe mai necessario e non andrebbe mai richiesto, certo non quale conditio sine qua non; ma poniamo il caso, nient'affatto immaginario purtroppo, di un Vescovo che vuole accogliere in Diocesi un Istituto dell'“Ecclesia Dei”, però teme gli attacchi rabbiosi dell'ala più progressista del suo clero e vorrebbe poterli zittire con un argomento facile come, appunto, la concelebrazione alla Messa Crismale. Nessun dubbio che all'Ecc.mo tornerebbe utile un po' più di coraggio, ai reprobi un po' più di sanzioni, e che difficilmente costoro si lasceranno mai persuadere; oltre a loro, però, e ben prima di loro esiste la massa dei semplici fedeli, che nulla sanno della complessità delle questioni in gioco, e su questi l'argomento “Messa Crismale”, proprio per la sua semplicità, farebbe presa, così come, al contrario, susciterebbe uno scandalo non farisaico la mancata presenza a detta concelebrazione, che i soliti noti avrebbero ben cura di far notare.
7. A. MARZOA, ad can. 905, in PONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA S. CROCE (cur.), Codice di Diritto Canonico e Leggi complementari commentato, Roma 2020, pagg. 612-3.
8. Non ne ho parlato rispetto al primo quesito, perché si tratta di auspici che, riproponendo la logica dell'indulto del 1984 (oltretutto in termini assai meno draconiani), cadranno da sé come già è avvenuto a suo tempo: non è possibile, né sul piano legale né su quello materiale, vietare ad altri fedeli di prendere parte a queste celebrazioni, sia perché ne hanno il diritto ai sensi del can. 923, sia perché, anche supposta una scrupolosa schedatura dei componenti del coetus, nessuno avrebbe l'autorità per chiedere i documenti all'ingresso. In più, oggi come oggi, esistono molti altri canali rispetto all'orario delle funzioni parrocchiali...

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