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lunedì 28 febbraio 2022

Il canonista p. Gerald Murray afferma che il contenuto dei Responsa “va oltre ciò che è canonicamente ammissibile”

Nella nostra traduzione da Rorate Caeli. Importante intervista al canonista padre Gerald Murray, in cui vengono spiegati tutti i modi in cui i Responsa vanno oltre Traditionis Custodes e quindi non godono di legittimità canonica. Qui la sua posizione su Amoris Laetitia. Nell'ipotesi che TC e Responsa debbano essere presi sul serio, le precisazioni di padre Murray sono inconfutabili e devono essere portate all'attenzione dei vescovi. Nella sostanza, i Responsa offrono indicazioni autorevoli su disposizioni che non si trovano nel documento che chiariscono, e in questo caso vanno al di là di quanto è canonicamente ammissibile. Vi è quindi un fondato dubbio che queste disposizioni godano di autorità canonica. Qui l'indice degli articoli su TC e Responsa.

Il canonista p. Gerald Murray afferma che il contenuto dei Responsa
“va oltre ciò che è canonicamente ammissibile”
Recentemente sono state pubblicate due valutazioni — basate sul diritto canonico — dei Responsa ad dubia della Congregazione per il Culto Divino. La prima è stata scritta dal domenicano p. Pius Pietrzyk, OP, STL, JD, JCD, ed è stata pubblicata qui da Edward Pentin. La seconda è un'intervista di Diane Montagna a p. Gerald Murray, un esperto di diritto canonico ben noto per le sue numerose apparizioni su EWTN; il testo completo si può trovare qui. Entrambi i canonisti sostengono che la Traditionis Custodes e i Responsa sono strumenti canonicamente validi e hanno valore legale; entrambi riconoscono però candidamente le irregolarità, le contraddizioni e le disordinate ambiguità tanto all'interno dei documenti quanto in riferimento l’uno all’altro, per non parlare delle innumerevoli crisi pastorali che essi hanno causato. Entrambi consigliano ai vescovi di fare pieno uso, senza impedimenti, del loro diritto canonico di dispensare da disposizioni dannose o irrilevanti e, in generale, di fare ciò che è necessario per soddisfare le lodevoli aspirazioni spirituali e i fondamentali bisogni  dei sacramenti dei loro greggi. Grati per il consenso di The Remnant, riportiamo di seguito alcuni passaggi chiave dell’intervista a p. Murray. — PAK
La Costituzione Apostolica Pastor Bonus regola le attività delle diverse Congregazioni della Curia Romana. L’articolo 15 afferma che “le questioni vanno trattate secondo il diritto … ma con mezzi e giudizi pastorali, attenti alla giustizia e al bene della Chiesa e specialmente alla salvezza delle anime”.

Come istruzione, ogni nuova norma può essere legalmente vincolante solo su quelle questioni specificamente trattate in TC. Un’istruzione su un documento non può andare oltre ciò che il documento stesso stabilisce.

I poteri di dispensa concessi nel canone 87 possono essere usati con discrezionalità da un vescovo nella sua diocesi. Tale decisione non è una forma di disobbedienza a TC o ai Responsa, ma piuttosto un esercizio pastoralmente giustificato della legittima autorità del vescovo per il “benessere spirituale” dei fedeli della sua diocesi ….

[Riguardo al chiedere una dispensa per utilizzare chiese parrocchiali per la celebrazione della messa tradizionale in latino:] Non c'è bisogno di chiedere alla Congregazione per il Culto Divino qualcosa di cui si ha già diritto in virtù della legge generale della Chiesa.

La cura del bene spirituale dei fedeli, consentendo a coloro che trovano ispirazione e forza nella messa tradizionale in latino di venerare Dio nella forma straordinaria del rito romano, è stata proprio la ragione per cui Papa Benedetto ha emanato Summorum Pontificum [SP]. Tale cura pastorale si estende a tutti coloro che desiderano venerare Dio in questo modo, e Papa Benedetto non ha mai dato a intendere che ci fosse una data limite, tale per esempio da rendere chiunque fosse nato dopo l’entrata in vigore del Novus Ordo non idoneo a frequentare il la messa tradizionale in latino. Ciò che è buono in sé e per sé — e ciò vale anche per una forma immemorabile del culto cattolico — dovrebbe essere sempre promosso dalla Chiesa. Ogni insinuazione secondo la quale i cattolici che non sono cresciuti frequentando la messa tradizionale in latino prima del Vaticano II non dovrebbero parteciparvi è pastoralmente non incisiva e ignora il fatto che molti giovani cattolici hanno frequentato tranquillamente questa messa da quando Papa Giovanni Paolo II ha liberalizzato la sua celebrazione 34 anni fa, nel 1988.

Mi sento di poter asserire che, poiché TC non prevede alcuna revoca del permesso di cui all'articolo 9 §1 di SP per la celebrazione dei sacramenti del Battesimo, della Cresima, della Penitenza, del Matrimonio e dell'Unzione degli infermi, tale permesso è ancora canonicamente in vigore dopo la promulgazione di TC …. TC non ha abrogato SP nel suo insieme, ma solo quelle disposizioni di SP che “non sono conformi alle disposizioni di” TC. Le nuove restrizioni all’uso del Rituale Romano e il divieto all’uso del Pontificale Romano, che si trovano nei Responsa, non si trovano nel testo del TC, e contraddicono le disposizioni non abrogate dell’articolo 9 di SP. Ciò che TC non menziona chiaramente non è da essa regolato. I Responsa offrono indicazioni autorevoli su disposizioni che non si trovano nel documento che chiariscono, e in questo caso vanno al di là di quanto è canonicamente ammissibile. Vi è quindi un fondato dubbio che queste disposizioni godano di autorità canonica.

Direi, in ogni caso, che le disposizioni non abrogate di SP 9 rimangono in vigore, poiché un Motu Proprio pontificio prevale su un’istruzione come i Responsa della Congregazione per il Culto Divino, anche con la loro approvazione pontificia. È interessante notare che SP non concede il permesso per l’amministrazione del sacramento dell’Ordine secondo il Pontificale Romano in uso nel 1962. Le congregazioni Ecclesia Dei, invece, godono del diritto di utilizzare il Pontificale Romano più antico in conformità con le loro costituzioni pontificie approvate, che rimangono in vigore e non vengono in alcun modo modificate da TC o dai Responsa.

Qui sopra sostengo che TC non ha abrogato le disposizioni di SP 9 che consentono l’uso del Pontificale Romano per l’amministrazione del sacramento della Cresima. Noto anche che c’è un'eccezione che riguarda l'uso del Pontificale Romano per il conferimento degli Ordini Sacri che avrebbe dovuto essere annotata nei Responsa, e cioè che i vescovi sono autorizzati a conferire il Sacramento dell'Ordine utilizzando il Pontificale Romano più antico per conto delle congregazioni Ecclesia Dei che, per loro costituzione, godono dell’uso dei libri liturgici più antichi, compreso il Pontificale Romano stesso.

Queste autorizzazioni papali [quella di amministrare l’assoluzione e fare da testimoni ai matrimoni concessa alla FSSPX] non sono state revocate né da TC né dai Responsa. Quindi ci troviamo di fronte a un frangente anomalo in cui i sacerdoti della FSSPX, che si trovano in una situazione canonicamente irregolare, sono autorizzati da Papa Francesco a usare il Rituale Romano, mentre alla maggior parte dei sacerdoti canonicamente regolari viene negata questa possibilità …. La lodevole generosità di papa Francesco è negata ai sacerdoti che si sottomettono pienamente alla sua autorità, a meno che non facciano parte del piccolo numero assegnato alle parrocchie personali dedicate alla celebrazione della messa tradizionale in latino. Queste autorizzazioni evidenziano ancora una volta che l’affermazione secondo cui solo i libri liturgici riformati costituirebbero la lex orandi della Chiesa è falsa: essa è infatti confutata da questa stessa autorizzazione papale a continuare a usare i riti più antichi.

È plausibile che la FSSPX continui a cercare di riconciliarsi pienamente con la Chiesa sapendo che questa autorizzazione papale non è più concessa alla maggior parte dei sacerdoti di rito latino? Come può essere considerato giusto il fatto che, all’atto pratico, la disobbedienza sia ricompensata con l’autorizzazione a far uso dei riti liturgici più antichi nella speranza di ristabilire la piena unità con la Chiesa, mentre ai sacerdoti obbedienti al Papa è vietato usare quegli stessi riti con la tesi che tale uso promuove la disunione nella Chiesa?

L’unità della Chiesa non dipende da “una sola e identica preghiera”, bensì dalla comune professione della fede cattolica, dalla debita sottomissione ai pastori della Chiesa e dalla ricezione dei sacramenti che vengono celebrati in una varietà di riti liturgici sia nelle Chiese Orientali Cattoliche sia nel Rito Latino (Rito Ambrosiano, Ordinariato Personale per ex anglicani, Rito Domenicano, et al.). L’uso continuato, seppur limitato, della messa tradizionale in latino, autorizzato dal papa, dimostra anche che l’unità della Chiesa non dipende in alcun modo dall’uniformità della pratica liturgica. Cercare di introdurre un’uniformità liturgica all’interno del rito latino comporterebbe logicamente la soppressione di tutti gli altri riti liturgici attualmente in uso nella Chiesa latina. Piuttosto, si potrebbe ragionevolmente concludere che l’obiettivo espresso in TC e nei Responsa di stabilire l’uniformità della lex orandi del rito latino significhi proprio la soppressione di una sola espressione diversa dai riti liturgici riformati. Quindi non si tratterebbe della tanto ricercata uniformità, bensì della soppressione della sola messa tradizionale in latino.

La chiara assunzione di questa domanda [Dubium #3] è che un sacerdote che sceglie di non concelebrare alla Messa Crismale o ad altre Messe, come è suo diritto, sia sospettato di non riconoscere la validità e la legittimità della concelebrazione stessa. I Responsa affermano: “La scelta esplicita di non partecipare alla concelebrazione, in particolare alla Messa Crismale, sembra esprimere una mancata accoglienza della riforma liturgica e una mancanza di comunione ecclesiale con il Vescovo …”. Si tratta di un sospetto infondato che suppone che il sacerdote rifiuti la validità e la legittimità della concelebrazione, rifiuti la riforma liturgica nel suo insieme e si situi inoltre al di fuori della comunione ecclesiale con il vescovo. Tale conclusione avventata sulle intenzioni dei sacerdoti che scelgono di non concelebrare la Messa mettono questi uomini nella posizione di essere ritenuti colpevoli di gravi reati per il semplice esercizio del loro diritto canonico di celebrare individualmente la Messa.

Il diritto canonico sancisce che nessun sacerdote può essere obbligato a concelebrare la Messa: il canone 902 afferma infatti che “i sacerdoti possono concelebrare l'Eucaristia; sono, tuttavia, pienamente autorizzati a celebrare individualmente l'Eucaristia”. Pertanto, la decisione di non concelebrare la Messa è di per sé perfettamente lecita, e non deve far sorgere il sospetto che un determinato sacerdote che sceglie di non concelebrare lo faccia perché “non riconosce la validità e la legittimità della concelebrazione”. Solo una prova concreta del fatto che un sacerdote ritenga che la concelebrazione della Messa sia invalida e illegittima dovrebbe indurre il suo superiore ecclesiastico chiedergli di correggere questa affermazione erronea o di affrontare sanzioni canoniche. La concelebrazione resta una libera scelta di ogni sacerdote, con la possibile eccezione della Messa celebrata al momento della sua ordinazione sacerdotale, ove il rito presuppone che il sacerdote neo-ordinato concelebri la Messa con il vescovo ordinante a partire dal momento immediatamente successivo alla sua ordinazione.

Questo cambiamento, che si trova nella versione latina dei Responsa [vale a dire, il fatto che TC ora, nel caso dei nuovi sacerdoti che celebrano la messa tradizionale in latino, non richieda più solo la consultazione ma anche ma una licentia che deve essere concessa da Roma], è sbalorditivo, dato che i Responsa sono stati emanati il 16 luglio 2021, in italiano, con traduzioni in inglese e tedesco pubblicate lo stesso giorno. Nell'originale italiano, il vescovo diocesano era tenuto a “consultare la Sede Apostolica” su qualsiasi richiesta di un sacerdote ordinato dopo il 16 luglio 2021 di essere autorizzato a celebrare la messa tradizionale in latino. Nei Responsa si fa riferimento al testo latino di TC, che è designato “testo ufficiale a cui fare riferimento”. Come lei ha notato, il testo latino è stato inserito sul sito web del Vaticano nel novembre 2021, mesi dopo la pubblicazione del 16 luglio del testo italiano, dal quale sono state fatte traduzioni in altre lingue moderne. Il testo latino è chiaramente una traduzione del testo italiano in latino, ma contiene questo sostanziale cambiamento di termini che è, di fatto, un cambiamento di legge. La versione italiana sul sito web del Vaticano, a partire dall'11 febbraio 2022, continua ad affermare che il vescovo diocesano “consulterà la Sede Apostolica” prima di concedere ai sacerdoti recentemente ordinati il permesso di celebrare la messa tradizionale in latino. Anche la versione inglese, di quella stessa data, continua a utilizzare la parola consult, “consultare”.

La procedura che consiste nel trasformare un provvedimento canonico dalla richiesta di una consultazione con la Sede Apostolica alla richiesta di un’autorizzazione da parte della stessa Sede Apostolica cambiando le parole che si trovano nel testo italiano emanato in precedenza (che la Santa Sede ha identificato come la fonte da cui sono state ricavate le traduzioni in inglese e in tedesco) all’interno del successivo testo in latino, designato solo dopo la sua redazione testo ufficiale, è un modo irregolare di modificare obblighi legali. Le numerose discrepanze tra le versioni italiana, inglese e latina che si trovano online sono notevoli. L’imposizione di un nuovo obbligo ai vescovi diocesani per mezzo dell’emanazione, quattro mesi dopo, di una versione latina di un Motu Proprio datato 16 luglio 2021, che è entrato in pieno vigore legale il giorno della sua pubblicazione, avrebbe dovuto essere realizzata con una notifica esplicita di tale cambiamento a tutti i vescovi del mondo, e si sarebbe dovuto indicare con chiarezza che questa modifica della legge godeva dell’appoggio papale esplicito.

La “Nota esplicativa” che accompagna questo nuovo provvedimento afferma: “Questa norma ha lo scopo di assistere il vescovo diocesano nella valutazione di tale richiesta: la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti terrà debitamente conto del suo discernimento”. Ciò è sconcertante per due motivi: quale assistenza può fornire la Congregazione per il Culto Divino sull’idoneità di un sacerdote appena ordinato a celebrare la messa tradizionale in latino, tenendo conto del fatto che la Congregazione non ha mai — tranne rare eccezioni — alcuna informazione sul sacerdote? Il fatto che il vescovo abbia deciso di chiedere alla Congregazione il permesso per autorizzare il sacerdote recentemente ordinato a celebrare la messa tradizionale in latino sulla base della propria conoscenza delle capacità e delle caratteristiche di un uomo che ha giudicato idoneo all’ordinazione sacerdotale, non indica forse che egli è sicuro che tale sacerdote sia adatto a celebrare la messa tradizionale?

In altre parole, si potrebbe solo presumere che un vescovo diocesano chieda il permesso alla Santa Sede per i sacerdoti recentemente ordinati che sa essere idonei e che non invierebbe mai i nomi di coloro che giudica non idonei. Se la Santa Sede non richiede ai vescovi di chiedere il permesso per ordinare al sacerdozio un uomo che il vescovo ritenga idoneo dopo una lunga e seria valutazione, perché dovrebbe essere richiesto al vescovo stesso di sollecitare il permesso per concedere a quel sacerdote l’autorizzazione a celebrare la messa tradizionale in latino? Ciò che non viene chiesto dalla Santa Sede per una questione di maggiore entità (idoneità a ricevere il sacramento dell'Ordine) non dovrebbe essere chiesto per una questione di minore entità (idoneità a celebrare la messa tradizionale in latino), a meno che questa nuova disposizione non riguardi in realtà una migliore certificazione dell’idoneità a celebrare la messa tradizionale in latino, ma su quanto affermano i Responsa nel paragrafo successivo: “Il Motu Proprio esprime chiaramente il desiderio che quanto contenuto nei libri liturgici promulgati dai Papi San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sia riconosciuta come l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano: è quindi assolutamente indispensabile che i Sacerdoti ordinati dopo la pubblicazione del Motu Proprio condividano questo desiderio del Santo Padre …”.

Pertanto, sembra che la Congregazione per il Culto Divino possa sfruttare questa occasione condizionando la decisione di concedere o meno ai vescovi il permesso di autorizzare i sacerdoti recentemente ordinati a celebrare la messa tradizionale in latino col verificare, anzi con l’esigere, che il sacerdote sia d’accordo con l'affermazione del Santo Padre secondo cui esisterebbe una sola espressione della lex orandi del rito romano, cioè il Novus Ordo Missae e gli altri riti liturgici riformati. Ciò è sconcertante e contraddittorio perché la Congregazione, incaricata di regolare la lex orandi del rito romano, sta decidendo chi può celebrare la messa tradizionale in latino esigendo che i sacerdoti siano d’accordo sul fatto che tale messa non sia un’espressione della lex orandi del rito romano. Se questo è vero, allora il sacerdote non ha bisogno di tale autorizzazione da parte della Congregazione, poiché quest’ultima non ha alcuna autorità di regolare qualcosa che non sia riconosciuto come espressione liturgica della lex orandi del rito romano.

In realtà, esiste più di un'espressione della lex orandi del rito romano, e la messa tradizionale in latino è una di queste. La Congregazione per il Culto Divino lo riconosce affermando la propria competenza a regolamentare chi può celebrare la messa tradizionale. Quindi non si dovrebbe chiedere a un sacerdote di riconoscere qualcosa che la stessa Congregazione per il Culto Divino in pratica non riconosce, ovvero che la messa tradizionale in latino non è espressione della lex orandi del rito romano.

Voglio anche mettere in risalto che è problematico affermare che è “assolutamente essenziale” che i sacerdoti ordinati dopo la pubblicazione di TC condividano il “desiderio” di papa Francesco circa il riconoscimento dei libri liturgici riformati come “unica espressione della lex orandi di il rito romano”. La dovuta sottomissione al Sommo Pontefice richiede l’obbedienza a leggi debitamente promulgate che regolano i comportamenti esterni, non i pensieri interni. La debita sottomissione non può richiedere la vaga e indeterminata “condivisione dei desideri” di qualsiasi Sommo Pontefice, poiché ciò costituirebbe una violazione della coscienza di un sacerdote il quale, in un caso come questo, era convinto che le disposizioni della SP di Papa Benedetto XVI che riconoscevano la messa tradizionale in latino come legittima espressione della lex orandi di rito romano, corrispondessero ad una corretta e storicamente accurata valutazione della lex orandi. Costringere i sacerdoti ad accettare il giudizio di papa Francesco su una questione che è chiaramente oggetto di dibattito — ovvero se il rito romano abbia più di un’espressione della lex orandi — come condizione per essere autorizzati a celebrare la messa tradizionale in latino sarebbe un abuso del potere coercitivo di cui gode la Congregazione per il Culto Divino.

Il canone 1321 § 1 sancisce il principio di diritto penale secondo cui sono punibili solo le violazioni esterne del diritto: “Nessuno è punito, se la violazione esterna della legge o del precetto da lui commessa non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa”. Ciò significa che qualcuno che internamente è in disaccordo con una legge o un precetto, ma osserva comunque quella legge o precetto nel suo comportamento esterno, non può essere punito per questo disaccordo di pensiero. Per analogia di diritto, in materia di concessione dell’autorizzazione alla celebrazione della messa tradizionale in latino, il diniego di tale autorizzazione sulla base del fatto che il sacerdote non condivide il desiderio di papa Francesco che la liturgia riformata sia riconosciuta come unica espressione della lex orandi del rito romano non è canonicamente permissibile.

Come ho asserito qui sopra, a parte casi molto rari, la Congregazione per il Culto divino non ha informazioni indipendenti su un sacerdote appena ordinato. Il vescovo diocesano che chiede per un sacerdote appena ordinato l’autorizzazione a celebrare la messa tradizionale in latino lo ha già trovato idoneo. Interferire sul suo giudizio su una questione in cui è in possesso delle informazioni più complete sul sacerdote è un'ingerenza ingiustificata nel suo ruolo di moderatore della vita liturgica nella sua diocesi.

La giusta causa richiesta per la doppia celebrazione includerebbe la promozione della crescita spirituale dei fedeli che cercano di adorare Dio frequentando la messa tradizionale in latino. Tale giusta causa non può essere adempiuta quando al sacerdote è vietato di celebrare secondo le due forme. Ciò significa che un sacerdote che celebrasse ordinariamente una seconda Messa utilizzando il Messale del 1962 in adempimento della giusta causa di assistenza spirituale ai fedeli devoti alla messa tradizionale in latino, potrebbe celebrare solo una seconda Messa utilizzando il Messale Romano riformato. Ciò ignora il fatto che rispondere in modo favorevole ai fedeli che cercano di adorare Dio nella messa tradizionale, per la celebrazione della quale c’è scarsità di sacerdoti, si qualifica chiaramente come giusta causa come stabilito nel canone 905 §2 ….

La logica di ciò [riduzione della doppia celebrazione perché è disponibile il Novus Ordo] non implicherebbe che, al di là del semplice caso della doppia celebrazione, ogni volta e ovunque sia disponibile la “forma rituale attuale” della Messa, la richiesta dei fedeli di partecipare alla messa tradizionale in latino potrebbe essere ignorato poiché non dà luogo né a una “giusta causa” né a una “necessità pastorale”? Oltre a privare un vescovo diocesano di un mezzo per soddisfare le particolari esigenze pastorali della sua diocesi, queste restrizioni alla doppia celebrazione implicano che la devozione dei fedeli alla messa tradizionale possa essere ignorata e considerata non avente un significato pastorale che richieda una generosa risposta da parte del Pastori della Chiesa. Non mi viene in mente nessun altro gruppo di fedeli nella Chiesa che venga trattato in questo modo.

L’arcivescovo Roche ha scritto nella sua lettera introduttiva ai Responsa: “Come pastori non dobbiamo prestarci a polemiche sterili, capaci solo di creare divisioni, in cui il rito stesso è spesso sfruttato da punti di vista ideologici”. Questa frase è rivelatrice di una mentalità che cerca di giustificare il trattamento duro e spietato di un’intera categoria di cattolici, accusandoli a tutti gli effetti di far cadere su di sé tale trattamento coi loro punti di vista ideologici presumibilmente sterili, divisivi e pretestuosi. Non vengono forniti esempi di questi punti di vista, né vengono identificati i nomi dei loro promotori. La Santa Sede tratta qui l’amore e la difesa della messa tradizionale in latino come indicatore non di una lodevole devozione alla Fede, ma come espressione di punti di vista che “spesso” sfociano in parole e azioni che danneggiano la Chiesa. Questa conclusione non è supportata dalla mia esperienza o conoscenza di ciò che è accaduto nella Chiesa da quando le restrizioni applicate alla messa tradizionale sono state revocate dai Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Sono, al contrario, le recenti azioni intraprese per limitare ed eventualmente eliminare la celebrazione della messa tradizionale che hanno danneggiato la Chiesa.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

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