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sabato 5 marzo 2022

Mons. Arthur Roche su “Traditionis custodes”: una nuova intervista a conferma del cambiamento della “lex credendi”

Nella nostra traduzione da Le blog de Jeanne Smith, il resoconto di un'intervista rilasciata da mons. Arthur Roche a The Tablet da cui ormai appare senza più remore (ne abbiamo già avuto una esplicita dimostrazione qui) l'evoluzione ormai avanzata dell'approccio conciliare alla Liturgia in chiave di rottura con la Tradizione. L'intervista, oltre a mostrarci fortemente ribadita l'irriducibile ostilità alla Liturgia tradizionale del prefetto della Congregazione per il Culto Divino, che coincide esattamente con l'atteggiamento del papa, rivela anche quanto la tendenza dei seminaristi nonché dei sacerdoti di recente ordinazione ad avvicinarsi al Rito Romano antico debba essersi tanto incrementata da indurre la Santa Sede a misure draconiane quali un documento sulla formazione liturgica dei seminaristi visto che parla della necessità di insegnare «la ricchezza della riforma liturgica». Mala tempora... Ci sarebbe da scrivere un volume per confutare le affermazioni dell'attuale prefetto del culto divino; quindi non ho potuto fare a meno di inserire alcune chiose, diversi link e alcune polpose note, che sostanzialmente sono diventate un altro articolo. E tenete conto che mi sono limitata all'essenziale... Qui l'indice degli articoli su Traditionis custodes e Responsa.

Monsignor Arthur Roche, prefetto della Congregazione per il culto divino, ormai non nasconde nulla del suo approccio alla liturgia riformata dopo il Concilio: essa costituisce una nuova lex orandi rispondente alla visione della Lumen gentium che non vede più la Chiesa come una “società perfetta” ma come il popolo di Dio in cammino [vedi]. In un'intervista a Christopher Lamb del quotidiano cattolico britannico The Tablet – un vaticanista che nel 2020 ha pubblicato un libro in cui difende e incensa papa Francesco contro le «guerriglie» dei «conservatori» – l'arcivescovo inglese spiega ulteriormente queste considerazioni, che in realtà riguardano il significato dottrinale della Messa di Paolo VI e gli obiettivi profondi di Traditionis Custodes.

Sotto il titolo "Un prefetto sotto pressione", Christopher Lamb firma un'analisi in cui riporta, a volte indirettamente, le parole del vescovo Roche. Presenta il prelato come «l'uomo che svolge un ruolo essenziale nel tracciare un cammino stabile attraverso le turbolenze delle 'guerre liturgiche'», così pienamente presupposte. A 71 anni, poco è cambiato dalla sua nomina a capo della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti nel disfare l'opera di Benedetto XVI. È, commenta Lamb, «una delle posizioni più delicate ed esigenti nella Chiesa, che lo obbliga a lavorare in stretta collaborazione con il papa e i vescovi di tutto il mondo. »

Mons. Roche gli ha confidato l'obiettivo del suo dicastero che, secondo Lamb, è « perseguire l'attuazione del documento del Concilio Vaticano II sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium. È, dice, la sua 'Magna Carta'. »1

C'è perlomeno il merito della chiarezza, soprattutto quando mons. Roche sottolinea – sempre secondo Lamb – «che l'intenzione del papa era quella di 'portare l'unità' alla Chiesa e di porre fine all'idea che ci siano due Chiese diverse con due diverse liturgie». Così, i due riti, l'antico e il nuovo, non si presentano più come le due «forme» del rito romano perché corrisponderebbero, secondo Roche, a «due Chiese diverse». 

A proposito dei Responsa giunti, poco prima di Natale, a precisare le modalità di applicazione della Traditionis Custodes, Lamb scrive, in un passaggio decisamente molto rivelatore:
Questi chiarimenti hanno precisato che le cresime e le ordinazioni secondo le liturgie precedenti al Concilio Vaticano II sono ora vietate e hanno raccomandato alle parrocchie di non pubblicizzare le messe tridentine nei loro bollettini. Molti membri di piccoli gruppi fedelissimi legati al Messale del 1962 sono affranti. Si lamentano del fatto che il papa abbia «cancellato» la forma di messa a cui sono legati.
È obiettivo del papa, chiedo all'arcivescovo, di veder scomparire la liturgia pre-Vaticano II? «È chiaro che papa Francesco, così come i suoi predecessori, presta grande attenzione a chi ha difficoltà e quindi è ancora possibile utilizzare il Messale del 1962 », ha replicato. «Ma non è la norma. È una concessione pastorale». Roche ha aggiunto: « Non posso sapere» se la vecchia forma della Messa finirà per cadere in disuso». Ma sottolinea che l'obiettivo della Traditionis Custodes è quello di avvicinare le persone « alla comprensione di quanto chiesto dal Concilio ».
Le recenti decisioni del papa hanno un profondo fondamento teologico, sottolinea [Dunque è innegabile che i due riti veicolano teologia ed ecclesiologia diverse -ndT]. La domanda non è che alcuni cattolici abbiano una preferenza personale per il latino. Si tratta di come la Chiesa vede se stessa e vede la sua missione. È il vecchio adagio Lex Orandi, Lex Credendi : il modo in cui preghiamo è il modo in cui crediamo. Roche fa notare che la costituzione dogmatica del Vaticano II sulla Chiesa, Lumen Gentium, si è allontanata dal modello della Chiesa come «società perfetta» verso la nozione biblica della Chiesa come popolo di Dio, pellegrina [vedi]. Nel primo modello, dice, era il sacerdote a « rappresentare le intenzioni del popolo» e le trasmette a Dio nella liturgia. Il Vaticano II lo ha cambiato. «Attraverso la comprensione del sacerdozio di tutti i battezzati, non è più semplicemente il sacerdote solo che celebra l'Eucaristia, ma tutti i battezzati che celebrano con lui»2, spiega Arthur Roche. « È certamente la comprensione più profonda di cosa significhi 'partecipazione'. Non solo leggiamo, cantiamo, spostiamo oggetti nel santuario o gestiamo i ragazzi o altro, ma entriamo profondamente nella vita divina, che ci si è manifestata nel mistero pasquale [vedi]. »
È quindi la concezione del sacerdozio e quella del sacrificio eucaristico che sono in discussione nella prospettiva della Traditionis Custodes, e il desiderio primario non è quello di evidenziare una «continuità» del Vaticano II in relazione alla tradizione della Chiesa, ma cosa "ha cambiato" il Vaticano. Senza soffermarsi sull'effettiva possibilità di una “ermeneutica della continuità”, basti qui osservare la presunta scelta di una “ermeneutica della rottura”. [Anche qui smentisce (ma in realtà porta alle estreme conseguenze) l'intenzione di Benedetto XVI di insistere sulla storicistica "ermeneutica della continuità  nella riforma del nuovo soggetto-Chiesa", anziché  nell'oggetto-rivelazione. Il che sostanzialmente, sia pure in maniera criptica ad uno sguardo superficiale, provoca gli stessi esiti  -ndT].
Continuiamo con Christopher Lamb:
Anche la liturgia risultante dal Concilio, spiega l'arcivescovo, è molto più «ricca» di quanto non fosse nel 1570 (quando la Messa tridentina fu promulgata da papa Pio V). Tutte le scritture sono ora disponibili, insieme a una maggiore varietà di preghiere, consentendo una «maggiore sensibilità» alle situazioni delle persone. «La liturgia non è accessoria alla nostra identità», sottolinea Roche. «La liturgia è le viscere della Chiesa, che generano i cristiani e alimentano la vita cristiana.»
Mons. Roche contesta anche l'affermazione dei critici secondo cui le riforme liturgiche sono state imposte da un comitato che non ha rispettato la volontà dei Padri conciliari [Vedi nota 1]. Definisce questa affermazione « ridicola» e mi dice che gli archivi della sua congregazione mostrano che Paolo VI ha esaminato i nuovi testi liturgici «pagina per pagina" dalle 21:00 alle 23:00, settimana dopo settimana. Mentre i cambiamenti liturgici ed ecclesiologici del Vaticano II sono stati approvati in modo schiacciante dai vescovi che vi hanno partecipato, Roche ha affermato che il ragionamento alla base delle riforme non è ancora «completamente compreso». La formazione, dice, è stata « molto insufficiente» in alcuni ambiti della vita cattolica, e questo è ancor più vero che altrove nei seminari3, dove forti correnti spingono per un ritorno agli stili di vestiario e liturgici di prima del Vaticano II.
Dove si comprende che è per mancanza di formazione che i seminaristi di oggi si lasciano sedurre dalla liturgia tradizionale – bisogna pensarci! Christopher Lamb continua:
Non è raro che sacerdoti neo-ordinati che escono dai seminari del mondo occidentale inizino a celebrare quasi subito la Messa tridentina. La Congregazione guidata da Roche invita i seminari a insegnare «la ricchezza della riforma liturgica richiesta dal Concilio Vaticano II », e qualsiasi sacerdote neo-ordinato che desideri celebrare la Messa utilizzando i libri liturgici pre-Vaticano II dovrà ottenere l'autorizzazione dalla Santa Sede. «Il Santo Padre è preoccupato per la formazione », dice Roche, secondo il quale ha chiesto ai membri della sua congregazione, che comprende vescovi e cardinali di tutto il mondo, di discutere di questo tema due anni fa. «Tutti sentivano che la formazione era piuttosto inadeguata nei seminari in generale, così come nella vita della Chiesa.» (vedi nota 3)
Ma è perché i seminaristi non hanno ricevuto una formazione sufficientemente solida nella fede e nel sacerdozio, o perché si sono mostrati così volentieri attratti dalla liturgia tradizionale?
Mescolando sempre citazioni letterali e indirette, Lamb scrive:
Come risponde l'Arcivescovo alle affermazioni secondo cui la Santa Sede non sta facendo abbastanza per impegnarsi con coloro che si sono impegnati nel Messale del 1962? « Non credo sia vero », risponde il vescovo Roche. Ha incontrato gruppi tradizionalisti e le questioni che sollevano probabilmente continueranno a essere discusse. (Alcuni giorni dopo la nostra intervista, viene annunciato che il Papa ha incontrato una confraternita di sacerdoti tradizionalisti e ha concesso loro la concessione di continuare a celebrare i sacramenti secondo l'antico rito [vedi]). Inoltre, i Responsa ad dubia che l'arcivescovo ha pubblicato a dicembre, che alcuni ritenevano indebitamente restrittivi, sono una risposta a domande specifiche rivoltegli dai vescovi. Ha presentato il documento direttamente al papa lo scorso novembre, che lo ha approvato. Non si tratta di rispondere alle preferenze liturgiche di un gruppo, dice. «La Chiesa ci dona la liturgia. Preghiamo come comunità ecclesiale e mai semplicemente come individui o per una questione di preferenze personali.»4
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, spiega l'arcivescovo, hanno fatto concessioni pastorali a coloro che non potevano accettare le riforme liturgiche del Concilio e, con il Summorum Pontificum del 2007, Benedetto XVI ha revocato molte restrizioni all'uso della vecchia forma. Ma Roche dice che l'indagine sui vescovi di tutto il mondo ha mostrato che quella che era iniziata come una concessione si era trasformata in una « promozione di un ritorno a ciò che esisteva prima del Concilio Vaticano II » [ma gli esiti del questionario sono stati falsati: vedi -ndT]. Ciò « non poteva essere tollerato perché il Concilio aveva cambiato il modo di procedere. È semplice». Non era mai stata intenzione di Benedetto XVI incoraggiare queste divisioni nella Chiesa. Benedetto XVI aveva anche sperato che le sue concessioni riportassero in vita coloro che «operavano fuori dai recinti della Chiesa », ma, come fa notare Roche, non ci sono molte prove che ciò sia avvenuto (si parla qui della Fraternità San Pio X istituita dell'arcivescovo Marcel Lefebvre). [Anche questa affermazione è falsa per espressa dichiarazione di Benedetto XVI -ndT]
« Il Concilio ha cambiato il modo di procedere»: anche qui è chiaro: ciò non sarebbe compatibile con il modo in cui generazioni di santi hanno pregato e celebrato da molto tempo prima di San Pio V!

Il riferimento all'intervista continua:
Gli piace lavorare per Francesco, e descrive ciò come « una grande ispirazione» e che per lui « il Santo Padre è un fratello vescovo». Esclude l'idea che il prossimo papa possa guidare la Chiesa in una direzione diversa. «Resistere contro Pietro è un atto sorprendente, pieno di arroganza », ha scritto Roche in risposta a una domanda che gli ho inviato via email. La convinzione che « le cose cambieranno sotto un nuovo pontificato non solo è fuori luogo, ma rivela una grande ignoranza del mandato conferito a tutta la Chiesa dal Concilio Vaticano II» [Il concilio che voleva eliminare i dogmi è divenuto il nuovo ineludibile superdogma che ha oltrepassato l'insegnamento costante della Chiesa -ndT].
L'arcivescovo Roche afferma che il suo ministero sta già attuando lo stile sinodale della Chiesa che Francesco sta cercando di stabilire [vedi]. Nel 2017 il papa ha emesso una decisione, Magnum Principium5, che ha conferito ai vescovi maggiore autorità sulle traduzioni liturgiche, e Roche spiega che con loro lavora collegialmente: «Abbiamo cambiato il modo di lavorare con i vescovi rispetto a quando sono arrivato nel congregazione. »
Cos'è meglio infine? Se la messa tradizionale non è più un'opzione seria agli occhi di mons. Roche, che si pone come portavoce di papa Francesco, ci sono scelte liturgiche che hanno tutta la sua simpatia. Come spiega Christopher Lamb:
L'ufficio di Roche è anche responsabile della supervisione degli adattamenti, o usi, del rito romano per diversi paesi. Segue la richiesta del Vaticano II di «legittime variazioni e adattamenti» all'interno dello stesso rito. Al sinodo del 2019 sull'Amazzonia [vedi], i vescovi hanno chiesto di adattare la liturgia per includere le tradizioni e i simboli di questa regione, come è stato fatto con l'uso zairese del rito romano, utilizzato nell'Africa subsahariana. « Abbiamo passato gli ultimi 50 anni a tradurre, la prossima fase riguarderà l'adattamento », afferma Roche. La descrive come una «questione delicata» . 
Delicata, forse, ma accettata e desiderata in linea di principio.
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Note di Chiesa e post-concilio
1. Di fatto, mentre la Sacrosanctum Concilium annunciò una revisione dei riti e articolò alcuni principi e linee guida per essa, di fatto il Concilio non intraprese quella riforma né pubblicò alcun libro liturgico proprio. Paolo VI affidò il lavoro a uno speciale super-comitato ad hoc, il Consilium, i cui progetti raggiunsero il completamento e furono da lui approvati diversi anni dopo la conclusione del Concilio. Inoltre non possiamo ignorare che i "ma anche" disseminati nei principi e linee guida della Sacrosanctum concilium sono gli spiragli aperti sulle future innovazioni in discontinuità con la tradizione liturgica. Due esempi: il primo sulla dicotomia Sacrificio/Cena, il secondo sulla musica sacra 
  1. Ricordando che la Santa Messa è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, si offre dal Sacerdote a Dio sull’altare in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce, il n.47 della Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, passa sotto silenzio sia il fine propiziatorio (espiatorio) del Sacrificio, che il termine transustanziazione, peraltro inopinatamente assente dall'intero documento. Notevoli perplessità suscita anche il n. 48, nel quale viene oltrepassata la Mediator Dei [vedi] non distinguendo l’azione del fedele da quella del sacerdote, mentre il n.106 descrive “il mistero pasquale” (enfatizzato accentuando la Risurrezione), con espressioni che presentano la S. Messa essenzialmente come memoriale e “sacrificio di lode”, alla maniera dei protestanti. La tavola del banchetto al posto dell’Altare del sacrificio ne è l’immagine plastica. 
  2. la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana», SC 116) o si auspica un nuovo impulso editoriale della gregorianistica («Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X. ...Conviene inoltre che si appronti un’edizione contenente melodie più semplici, ad uso delle chiese minori», SC 117); la contraddizione è sotto gli occhi di tutti: la dichiarazione conciliare ufficiale, da un lato, il ferreo ostracismo del gregoriano dal tempio, dall’altro.
2. Assemblea celebrante.  Nella SC appaiono già gli elementi della definizione della montiniana Nuova Messa, nell’art. 7 della Institutio Novi Messali Romani, del 1969, tuttora vigente: “La Cena del Signore o Messa è la santa assemblea o riunione del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore” [memoriale è diverso da memoria nel senso ebraico di ziqqaron=riattualizzazione: "fate questo in memoria di me". Prevale l'aspetto narrativo e non quello attuativo,  vera Actio di Cristo -ndT]; definizione che suscitò a suo tempo le angosciate quanto inutili proteste di tanti fedeli e sacerdoti, e la ben nota presa di posizione dei cardinali Ottaviani e Bacci, a causa del suo evidente carattere protestante. 
Nel decreto Ad Gentes  sull’attività missionaria della Chiesa, la variazione nel significato della Messa è ancora più evidente:  vi si dice che i catecumeni partecipano alla S. Messa ossia “celebrano il memoriale della morte e della resurrezione del Signore con tutto il popolo di Dio (definizione – di conio tutto Conciliare – dal sapore vetero-testamentario, che tende a sostituire quella ben più forte e identitaria di “Corpo mistico di Cristo”)” (AG 14), il quale “popolo di Dio” non assiste dunque alla Messa ma la “celebra”, assieme all’officiante, evidentemente; idea che sembra potersi ricavare da SC 48 sopra ricordato.
Qui entra in ballo anche la differenza (sia in grado che in essenza), sostanzialmente annullata in senso protestante, del sacerdozio battesimale dei fedeli da quello ordinato dei sacerdoti.
3. La formazione dei seminari, invece, negli anni post-conciliari è sempre stata carente nel senso opposto. Benedetto XVI, che ne era consapevole, nel 2013 ha emato il Motu Proprio: «Ministrorum institutio» riguardante nuove responsabilità sui seminari. Benedetto in questo caso ha fatto ciò che poteva fare, le sue preoccupazioni sono evidenti ed a modo suo è intervenuto; però poi tutto è dipeso da chi avrebbe dovuto promuovere e applicare le misure, vigilare, correggere ove ce ne fosse necessità. Molte storture e anomalie sono tuttora palesi. Anche perché chi aveva quelle nuove responsabilità mancava della consapevolezza ma anche del coraggio di non cedere alle pressioni dei soliti gruppi egemoni che hanno portato, ahinoi, la Chiesa là dove si trova oggi. Non possiamo ignorare, infatti, che queste modifiche potevano essere una buona notizia nella misura in cui gli influssi neocatecumenali e/o modernisti non inquinino o monopolizzino anche le strutture che hanno acquisito le nuove competenze, delle quali fanno parte purtroppo molti prelati orientati a favore delle realtà ecclesiali foriere dell'attuale crisi nella Chiesa cattolica. Piuttosto, le tendenze riscontate nei nuovi seminaristi, sono la reazione alle carenze e alle deformazioni formative, non la causa, posto che il Rito antico con le sue formule pregnanti veicola, intatto, l'insegnamento costante della Chiesa.
4.  si può attribuire la scelta del Rito cui aderire - e dunque l'attaccamento alla Liturgia bimillenaria - a preferenze personali, come se si trattasse di un gusto o di una moda invece che di spiritualità profonda? Quanto al Preghiamo come comunità mai semplicemente come individui, non possiamo ignorare che il nostro rapporto col Signore è innanzitutto personale e, poi, anche comunitario; mentre è Lui, in base alla nostra fedeltà alla Sua Persona, che ci rende comunità in quanto in comunione con Lui, non secondo le nostre modalità di porci comunitariamente (evidente l'influsso antropocentrico [vedi], non più cristocentrico del necessariamente incriminato concilio... ).
5. Il motu proprio Magnum principium (9.9.2017), modifica il can. 838 del Codice di diritto canonico, riguardante le competenze della Santa Sede, delle Conferenze episcopali e dei Vescovi diocesani nell’ordinamento della liturgia. Si tratta di un colpo di spugna all’istruzione Liturgiam authenticam (7.5.2001), “sull’uso delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana” [prefigurato qui] . Di fatto siamo al 'rompete le righe' anche col decentramento alle Conferenze episcopali della preparazione dei libri liturgici, che mina l'unità e l'universalità de La Catholica. Richiede attenzione il seguente passaggio della Correctio papale (qui) alle affermazioni del card. Sarah in un documento [qui] che attenuava la svolta rivoluzionaria della Lettera Apostolica : «Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgiam Authenticam, così come veniva effettuato nel passato». Tale affermazione unita all’altra secondo cui una traduzione liturgica “fedele” «implica una triplice fedeltà» – al testo originale, alla lingua della traduzione, alla comprensibilità dei destinatari – lascia intendere che Magnum Principium è considerato come l’inizio di un processo che può portare molto lontano in direzione di una vera e propria devolution liturgica. I ‘processi’ innescati come mine vaganti sono più d’uno e la frammentazione nella Chiesa acquista velocità sia sulla dottrina che sulla morale e ora sulla liturgia, fons et culmen di tutto.

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