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martedì 13 settembre 2022

La liturgia bizantina, la Messa tradizionale in latino e il Novus Ordo: due sorelle e un estraneo

Nella nostra traduzione da New Liturgical Movement un testo di Peter Kwasniewski che mette in risalto lo stretto legame spirituale tra il Rito romano antico e la divina liturgia bizantina e alcune incoerenze quando questa si confronta col Novus ordo. Fermo restando tuttavia – come dice papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo – che “È dalla tradizione apostolica (ex apostolica traditione) che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone”, fulcro del Santo Sacrificio. Mentre il beato Ildefonso Schuster dichiara che il Liber Pontificalis ci attesta l’origine apostolica della liturgia romana e che “ripetendo oggi dopo tanti secoli nella Messa la prece consacratoria, noi possiamo esser sicuri di pregare, non solo già colla fede di Damaso, d’Innocenzo, di Leone Magno, ma colle stesse parole che prima di noi essi ripetettero all’altare e che anzi santificarono la primigenia età dei Dottori, dei Confessori e dei Martiri”.

La liturgia bizantina, la Messa tradizionale in latino e il Novus Ordo: due sorelle e un estraneo
di Peter Kwasniewski

Per me — e, credo, per la maggior parte dei tradizionalisti — è evidente che la Divina Liturgia bizantina e la Messa tradizionale romana sono strettamente imparentate spiritualmente e che il Novus Ordo si discosta dall’eredità che le accomuna.

Ma a volte ci si imbatte in cattolici bizantini che, fuorviati dalle somiglianze superficiali tra la liturgia bizantina e la celebrazione Novus Ordo (ad esempio, il fatto che entrambe siano spesso celebrate in una lingua volgare pronunciata in modo udibile) e dalle evidenti differenze tra la liturgia bizantina e il rito tradizionale romano (per es., il fatto che ci sia molto più silenzio in quest’ultimo che nella prima e che il popolo sembri svolgere un ruolo più “attivo” nell’una che nell’altro), sostengono che le liturgie bizantina e Novus Ordo sono spiritualmente più affini tra di loro, e quindi, quando viene presentata loro la scelta, scelgono l’usus recentior romano piuttosto che l’usus antiquior. Protagonisti e apologeti della riforma liturgica romana, in effetti, spesso si spacciano per estimatori della tradizione orientale e amano sottolineare i tanti tratti apparentemente “orientali” della liturgia neoromana.

Ora, se è vero che la liturgia bizantina e la liturgia tradizionale latina hanno molto più in comune tra di loro di quanto l’una o l’altra abbia con il Novus Ordo, dovremmo essere in grado di affermare esattamente in cosa consiste questa comunanza. Propongo di osservarla nei seguenti principi, che elenco prima di esporli:
  1. Il principio della Tradizione;
  2. il principio del mistero;
  3. il principio dello stile solenne;
  4. il principio di integrità o stabilità rituale;
  5. il principio di spessore;
  6. il principio dell’adeguata e ripetuta preparazione;
  7. il principio di veridicità;
  8. il principio della gerarchia;
  9. il principio del parallelismo;
  10. il principio della separazione. 
1. Il principio della Tradizione. Entrambe le liturgie sono il risultato di uno sviluppo organico di un antico nucleo apostolico, trasmesso attraverso secoli di fede viva; infatti, nonostante le attribuzioni di questa o quella liturgia a un santo famoso come San Giovanni Crisostomo o San Basilio, il rito è opera di vari santi, molti dei quali non siamo in grado nemmeno di nominare. Nessuna liturgia bizantina o romana classica è il prodotto di un comitato d’avanguardia di esperti senza contatto con il popolo e prigionieri di teorie alla moda da tempo in declino. Possiamo definire principio della tradizione l’atto di ricevere ciò che si tramanda. In parole povere: non è che una liturgia è buona perché l'autorità della Chiesa la ritiene buona; semmai, la Chiesa sa che è buona perché l’ha ricevuta. Qui miniamo le fondamenta di quel bizzarro ultramontanismo occidentale che considera la liturgia nient’altro che ciò che l’autorità papale ha promulgato, come se la liturgia fosse un’argilla infinitamente malleabile la cui forma è interamente lasciata alla volontà dello scultore. Prima di Paolo VI, l’autorità pontificia promulgava ciò che era già conosciuto e amato come tradizionale nella Chiesa latina. [1]

2. Il principio del mistero. Entrambe le liturgie esibiscono il principio del mistero: la liturgia è palpabilmente sacra, un’opera e un prodigio che Dio compie in mezzo a noi, a cui l’uomo può unirsi con timore e tremore. La liturgia tradizionale è come una nube in cui dimora Dio e alla quale Mosè osa avvicinarsi. Un incontro con un ordine del giorno, condotto da dirigenti aziendali, caratterizzato da molta lettura di testi e condivisione di compiti, non ha senso. Giaciamo prostrati su una terra santa davanti al roveto ardente dell’autorivelazione divina.

3. Il principio dello stile solenne. Le preghiere e le lezioni delle liturgie tradizionali orientali e occidentali sono o cantate da cantori, diaconi, suddiaconi e cori, o sussurrate nel santuario dal sacerdote, ma mai recitate semplicemente come se fossero il telegiornale o una lezione scolastica. Parte di questa solennità è l’uso di ciò che potremmo chiamare “linguaggio elevato”. In Oriente esso assume la forma di squisite composizioni poetiche; in Occidente, di venerabili locuzioni latine. Il latino è veramente, propriamente e definitivamente la lingua della Chiesa cattolica romana, così come i volgari sono le lingue dei riti orientali. [NOTA: Alcuni lettori hanno espresso riserve nei confronti della mia affermazione secondo cui le lingue dei riti orientali dovrebbero essere chiamate volgari senza ulteriori specificazioni. Cfr. la Nota *** allegata a questo articolo.] Qualcosa che in Occidente dura da 1.600 anni non è un caso fortuito ma un principio costitutivo, come ha dichiarato nientemeno che Papa San Giovanni XXIII nella sua Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, firmata sull’altare di San Pietro nel 1962. Chi frequenta l’usus antiquior è ben consapevole del potente effetto sui fedeli dell’uso cerimoniale di una lingua antica che ha acquisito con il passare del tempo un vigore numinoso. Il fatto stesso che questa lingua sia riservata a un uso particolare, che sia per così dire consacrata al pubblico culto di Dio, rappresenta oggettivamente e soggettivamente quella separazione del sacro dal profano che sta al cuore della religione sacrificale.
4. Il principio dell’integrità rituale. Sia la Divina Liturgia che la Messa tradizionale in latino preesistono a ogni altra celebrazione eventuale come riti determinati e pienamente articolati che il clero e il popolo seguono con umile obbedienza. Le preghiere, le antifone, le letture, i gesti e i canti sono fissati e prescritti; soprattutto la preghiera più santa, l’anafora, o è immutabile (in Occidente) o determinata dal calendario liturgico (in Oriente). In questo modo, le preferenze o le scelte personali del celebrante non guidano mai l’azione. Possiamo definire questo fatto principio di stabilità, poiché l’integrità rituale garantisce al clero e al popolo una roccia inamovibile su cui costruire la propria vita spirituale.

5. Il principio di spessore. L’antica liturgia romana, così come l’antica liturgia bizantina, è pervasa di contenuti dogmatici, morali, mistico-ascetici. Le preghiere sono fitte, ricche e colme di religiosità. Sono un arazzo poetico della Scrittura e di altre espressioni devote. Il Novus Ordo è palesemente esiguo al confronto. Si pensi ai vari tropari della tradizione bizantina, o alla ricchezza di antifone proprie del rito romano, e alle collette, ai segreti e alle postcomunioni, quasi nessuna delle quali è sopravvissuta intatta al bisturi censorio del Consilium. [2]

6. Il principio della preparazione. Strettamente connesso con quanto sopra è il principio di una preparazione adeguata e ripetuta. Sia in Oriente che in Occidente, il clero e i ministri si preparano a fondo per il loro compito prima della liturgia, sia sedendosi a un tavolo a preparare le offerte con abbondanti preghiere, sia ai piedi dell’altare recitando il Salmo 42, il Confiteor e le preghiere di ingresso. Come si può immaginare di uscire dalla sacrestia e di camminare fino all’altare come se niente fosse? Come se si stesse andando a un pranzo di raccolta di fondi?

Come ha notato così bene Catherine Pickstock, la ripetizione delle preghiere in tutte le liturgie autentiche è deliberata e di immensa importanza spirituale. La liturgia bizantina vede il sacerdote pregare spesso in segreto dall’inizio alla fine mentre si prepara ogni volta per il successivo meraviglioso passo che deve essere compiuto nei misteri di Cristo. Non è da meno l’autentica liturgia romana, con il suo ampio Offertorio, le sue tre preghiere di preparazione alla comunione, le preghiere di abluzione, il Placeat e l’Ultimo Vangelo. È noto che si riscontrano molte ripetizioni di alcune preghiere nella Divina Liturgia e nell’usus antiquior romano — nelle prime, le litanie “Signore, pietà” o “Concedi, o Signore”; nel secondo il Kyrie ripetuto nove volte, il triplice Confiteor, il triplice “Domine, non sum dignus” (fatto due volte per indicare la distinzione tra la comunione del sacerdote e quella dei fedeli). [3]

7. Il principio di veridicità. L’intero messaggio evangelico è presente nei lezionari tradizionali: tanto le parti cosiddette “difficili” come quelle più facili. Nel Novus Ordo, come è noto, la Scrittura è pesantemente modificata per conformarsi ai pregiudizi moderni [vedi]. [4] Più in generale, la lex orandi tradizionale contiene e trasmette con vigore apostolico la piena lex credendi della Chiesa cattolica, senza alcuna modifica imposta dalla sensibilità o dalla schizzinosità contemporanee. Così, per fare un esempio tra i mille possibili, la dannazione di Giuda, e la reale possibilità dell’inferno per ognuno di noi, viene insegnata senza batter ciglio, e i salmi imprecatori contro i nostri nemici spirituali sono ampiamente utilizzati. Questo genere di cose viene eliminato o fortemente ridotto nel Novus Ordo. [5] In tal modo, esso non trasmette la pienezza della fede come la troviamo nella Scrittura, nei Padri, nei Concili e nei Dottori della Chiesa. In questo modo viene meno al suo ruolo di lex orandi della Chiesa ortodossa.

Dunque, nelle liturgie antiche si vedono e si ascoltano molte dottrine della fede, che vanno invece studiate e accettate ciecamente nel contesto della liturgia neoromana, perché il rito stesso non le rende evidenti. Consideriamo come esempi la venerazione dovuta ai santi o l’adorazione (latreia) che si deve mostrare al Santissimo Sacramento. Chi frequenta la liturgia bizantina o quella tradizionale romana farà un’esperienza viscerale della venerazione dei santi e dell’adorazione dell’Eucaristia. Al contrario, il Novus Ordo ha sistematicamente ridotto l’attenzione dedicata ai santi [6] e i segni di riverenza da tributare ai meravigliosi misteri di Cristo.
8. Il principio della gerarchia si manifesta nella chiara divisione dei ruoli che spettano al sacerdote, al diacono, al suddiacono, all’accolito, al cantore, etc. Questa diversità non intercambiabile di ruoli è grossolanamente confusa e diluita nel Novus Ordo, con le sue norme molto lasse sui laici che operano nel santuario. Né la liturgia bizantina né l’autentica liturgia romana consentono a laici privi di paramenti di entrare — come per fare un favore — nel santuario e di compiere opere proprie del clero, soprattutto la manipolazione della Santissima Eucaristia. Al contrario, l’identità del sacerdote come mediatore tra Dio e l’uomo è pienamente rispettata e dimostrata nell’azione, e l’identità del laico come persona attivamente presente al sacrificio è parimenti rispettata e dimostrata nell’azione.

La liturgia è una vera incarnazione dell’ecclesiologia, e non un’alternativa immaginaria ad essa. Non si potrebbe mai ricavare dal Novus Ordo un resoconto coerente della natura gerarchica del Corpo Mistico, mentre lo si ricava facilmente tanto dalla Divina Liturgia come dalla Messa tradizionale romana. La partecipazione, quindi, è intesa in modo fondamentalmente diverso nelle liturgie tradizionali e nel rito neoromano. L’interpretazione corretta è che la partecipazione dovrebbe adattarsi ai ruoli distinti delle varie parti del corpo e che ciò dovrebbe essere visibile a tutti nell’abbigliamento, nel portamento, nella posizione e nei compiti assegnati — e non assegnati — ai partecipanti. [7]

9. Il principio del parallelismo, che è conforme a quello della gerarchia. In ogni autentica liturgia orientale o occidentale, riscontriamo spesso che accadano più cose contemporaneamente (per usare un termine tecnico, c’è una “liturgia parallela”). Il diacono pronuncia una litania mentre il sacerdote recita le proprie preghiere; il popolo canta il Sanctus mentre il sacerdote inizia il Canone. Chi frequenta le liturgie bizantine o latine tradizionali arriva a vedere la liturgia come un’azione a più livelli composta da molte azioni individuali convergenti su un obiettivo comune. Non è certo una sequenza logica di atti discreti, in cui solo una cosa può aver luogo alla volta (come nella liturgia “sequenziale” o “modulare”, esemplificata nel Novus Ordo). [8]

10. Il principio della separazione. Tutte le autentiche liturgie cristiane conservano e fanno uso rituale della teologia iscritta nell’architettura del tempio dell’Antica Alleanza, che, come insegna la Lettera agli Ebrei, è ricapitolata in Cristo e quindi simboleggiata per sempre nel nostro sacrificio eucaristico. Ad est, la separazione del santuario o sancta sanctorum dalla navata è più evidente per la presenza di un’iconostasi attraverso la quale possono entrare solo alcuni chierici. In Occidente, le tende erano sostituite dal paravento, che nella maggior parte dei luoghi si rimpiccioliva nella balaustra della comunione, ma il santuario rimaneva sempre distinto, elevato e interdetto ai laici. Inoltre, nella liturgia occidentale l’iconostasi visiva ha ceduto il passo a una “iconostasi sonora” del latino alternata al silenzio. Tanto il linguaggio ieratico quanto l’avvolgente assenza di suono stendono un velo sul santo dei santi e proteggono i sacri misteri dalla profanazione del trattamento informale. Quindi, anche se le liturgie orientale e occidentale mettono in atto in modi diversi questo “velare il nostro volto di fronte alla Presenza”, entrambe sono altamente efficienti nel farlo, attirando potentemente l’attenzione del fedele sulla gloria nascosta di Dio.
Al di là di questi principi, che evidentemente puntano alla natura stessa del culto divino, c’è tutta una serie di cose che non sono necessariamente caratteristiche del Novus Ordo, e che eppure lo accompagnano nel 99% delle sue manifestazioni, come per esempio l’orientamento versus populum. Dopo cinquant’anni di orientamento del clero verso il popolo quasi sempre e ovunque e di rimproveri papali a coloro che osano non vederlo con favore, anche il sostenitore più ottimista della Riforma della Riforma non può sostenere che il versus populum non caratterizzi il Novus Ordo nella mente di i suoi architetti, implementatori e utenti finali. 

Rispetto al Novus Ordo, la liturgia bizantina sembra un re accanto a un povero, un Rembrandt accanto a una caricatura, una festa dopo una carestia. Ma rispetto al rito tradizionale romano in tutto il suo intricato splendore e in tutta la sua solennità irreggimentata, è un pari alla tavola della tradizione. Commettiamo un’ingiustizia nei confronti dell’opera dello Spirito Santo nella Chiesa occidentale quando parliamo della liturgia bizantina come dello “standard aureo”, quando invece il rito romano nella sua pienezza — purtroppo, così raramente visto dai cattolici romani! — è pienamente alla sua altezza. È invece il Novus Ordo che dovrebbe essere messo alla porta, perché non ha il diritto di sedere alla tavola regale degli autentici riti liturgici.

Se qualcuno obiettasse a questo punto che il Novus Ordo può essere celebrato “in continuità” con la precedente tradizione romana (e quindi in modo non dissimile dalla Divina Liturgia), la mia risposta sarebbe semplice. Molti dei dieci principi sopra riassunti non sono affatto incarnati dal Novus Ordo — deliberatamente — (qui includerei almeno i principi 1, 4, 5, 6, 7 e 9), mentre i restanti principi (2, 3, 8 e 10) potrebbero essere applicati o meno a seconda di chi “presiede” alla celebrazione. In breve, sono possibili ma non necessari. Questo fatto, di per sé, dimostra già il carattere profondamente antitradizionale del Novus Ordo, la cui concordanza con la tradizione dipende dalle libere decisioni del suo celebrante piuttosto che dall’adesione a una regola fissa. [9] Pertanto, il Novus Ordo potrebbe essere celebrato in modo quasi tradizionale, mentre le liturgie bizantina e tridentina devono essere offerte in modo tradizionale: non c’è scelta in proposito. [10]

Già solo in questa differenza possiamo vedere il divario quasi infinito che separa il rito romano moderno da qualsiasi rito storico del cristianesimo, orientale o occidentale. La sua mancanza di densità dottrinale, morale, rubricale e cerimoniale, la sua struttura modulare-lineare-razionalista e la sua “possibilità di scelta” lo separano in sostanza dalla sfera della cultura sacra che abitano in comune l’usus antiquior romano e la Divina Liturgia bizantina. Si potrebbero adattare a questa situazione le parole di Abramo nella parabola di Lazzaro e il ricco: “Tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi” (Lc 16, 26).

Ciò che è veramente sorprendente, dato quanto precede, è il fatto che molti cattolici bizantini ed “esperti” di liturgia orientale — tra cui Robert Taft, S.J. è il più importante — favoriscano la liturgia romana “riformata”, trascurando le monumentali discrepanze e contraddizioni tra i suoi principi di composizione ed esecuzione e gli elementi in comune, come ho mostrato, tra la liturgia bizantina e quella latina tradizionale. In effetti, non è esagerato affermare che la liturgia paolina, sia nel suo insieme che nei suoi particolari, è una deformazione della liturgia latina che non può essere fatta rientrare nella stessa categoria degli autentici riti storici cattolici. Quando i cattolici bizantini preferiscono il Novus Ordo per via di caratteristiche secondarie o terziarie mentre trascurano, tollerano o addirittura sembrano approvarne le deviazioni dai principi fondamentali della liturgia classica, lo fanno quindi a causa di una profonda incoerenza.
Questa non è una semplice questione speculativa. Come sappiamo, i liturgisti disquisiscono da decenni su come “riformare” i riti cattolici orientali per allinearli a Sacrosanctum Concilium e al progetto Bauhaus di Bugnini. La forza combinata di un pregiudizio a favore del pluralismo multiculturale, del conservatorismo intrinseco dell’Oriente e della mancanza di un’autorità centrale in grado di imporre enormi cambiamenti liturgici ha per ora risparmiato ai riti orientali i peggiori eccessi della riforma liturgica. Ma questa fragile pace potrebbe non durare per sempre, soprattutto se la gerarchia a guida della Chiesa continuerà a mostrare i vizi — tra loro gemelli — dell’arroganza e della miopia che hanno afflitto i suoi fedeli negli ultimi cinquant’anni. Spetta quindi a ogni cristiano orientale e a ogni simpatizzante romano comprendere gli errori che hanno condotto ai riti paolini e che sono profondamente radicati in essi e opporsi a qualsiasi riduzione, compromesso o novità nella propria vita liturgica.

Per tornare all’inizio: i cattolici bizantini che amano la propria tradizione liturgica faranno bene a esporsi alla tradizione liturgica occidentale così come è stata conservata e tramandata nell’usus antiquior, e — proprio per amore di ciò che è comune a Oriente e Occidente — ad evitare la liturgia neoromana, con la sua mescolanza di archeologismo inconsistente e novità moderne, la sua dissonanza cognitiva e rottura con la tradizione cristiana, liturgia neoromana che non è altro che una contraffazione sia della tradizione greca che di quella latina, in contraddizione con verità dogmatiche e morali secolari che la liturgia ha sempre mostrato e inculcato ai fedeli. I cattolici romani e bizantini sanno di essere al sicuro, in buone mani, quando partecipano ai riti autentici l’uno dell’altro; ma nessuno dei due può sentirsi al sicuro partecipando al Novus Ordo.

Concludo con le parole di Martin Mosebach: “Tutta la tensione verso l’ecumenismo, per quanto necessaria, deve iniziare non con incontri avvincenti con le gerarchie orientali, ma con la restaurazione della liturgia latina, che rappresenta il vero legame tra la Chiesa latina e quella greca”. [11]
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[1] In The Banished Heart [Il cuore al bando] Geoffrey Hull mostra che il problema dell’interferenza papale nella liturgia risale a molti secoli fa. Tuttavia, riconosce l’abisso che separa tutto ciò che è stato fatto dai papi prima di Paolo VI dalla mostruosa rottura introdotta da Montini. C’è una differenza di natura, non solo una differenza di grado. Conosco un filosofo cattolico che sostiene davvero che l’unico motivo per cui un rito della Messa è valido è perché il Papa l’ha dichiarato tale, e che se il Papa volesse sventrare tutto il contenuto del rito e sostituirlo con qualcosa di totalmente diverso, sarebbe un vero rito cattolico purché contenga le parole di consacrazione.
[2] Carl Olson ha fatto questa osservazione: “Dopo aver frequentato una parrocchia bizantina per quasi vent’anni, posso dire che è interessante osservare come, mentre le liturgie orientali non tacciono nella stessa misura in cui lo fa la messa in latino — in realtà c’è poco silenzio in una liturgia bizantina —, le somiglianze e le convergenze più profonde si trovano nella riverenza, nella trascendenza e nella ricchezza teologica. Francamente, ascoltare molte delle preghiere dette durante una messa del Novus Ordo mi fa perdere la testa. In altre parole, la Divina Liturgia e la Messa in latino parlano entrambe alla mente, al cuore e ai sensi in modi misteriosi e profondi che, sebbene in un certo senso soggettivi, sono al servizio della verità oggettiva e della realtà divina”.
[3] So bene che queste preghiere si sono accumulate nel corso del tempo e che, per esempio, l’Ultimo Vangelo è stato un’aggiunta relativamente tardiva. Ma tutte le aggiunte sono avvenute per una buona ragione; sono state realizzate sotto il gentile influsso dello Spirito Santo. Eliminarle dopo che sono state opportunamente e armoniosamente aggiunte e sono diventate per secoli parte fissa del rito non è altro che un ripudio del loro contenuto teologico e della loro funzione liturgica, e quindi un peccato contro lo Spirito Santo. Sacrosanctum Concilium sbaglia dunque nel ritenere che la liturgia contenga “ripetizioni inutili” che devono essere epurate. In realtà, chi si addentra orante nelle ripetizioni dell’antica liturgia ne comprende lo scopo, che non ha mai presentato difficoltà ai cristiani fino ai preconcetti strettamente razionalisti e utilitaristici dei tempi moderni.
[4] Vedi il mio articolo “A Tale of Two Lectionaries: Qualitative versus Quantitative Measures” [“Storia di due lezionari: misure qualitative contro misure quantitative”] per ulteriori informazioni su questo aspetto preoccupante del lezionario rivisto. [testo italiano qui] [5] Su Giuda, vedi il mio articolo “Damned Lies: On the Destiny of Judas Iscariot” [“Dannate bugie: sul destino di Giuda Iscariota”]; sull'omissione dei salmi, vedi il mio articolo “The Omission of ‘Difficult’ Psalms and the Spreading-thin of the Psalter” [“L'omissione dei salmi ‘difficili’ e l’annacquamento del salterio”].
[6] Il Canone Romano, come l’anafora della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, menziona molti santi. Le neo-anafore riducono severamente questo omaggio e appello.
[7] In Sacrosanctum Concilium, invece, la partecipazione diventa ideologica perché esaltata al di sopra di tutti gli altri principi, il che inevitabilmente provoca distorsioni e corruzione: “A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia” (n. 14); si compari questa affermazione con Tra le sollecitudini di Papa Pio X: “Riteniamo necessario provvedere anzitutto alla santità e alla dignità del tempio”. Forse un concetto migliore rispetto a quello della partecipazione potrebbe essere quello dell’assistenza: ogni membro del corpo assiste alla liturgia, ciascuno secondo il suo posto. L’appartenenza è una categoria più fondamentale del fare, proprio come il nostro inserimento in Cristo col battesimo è più fondamentale per la nostra identità di qualsiasi atto particolare che compiamo.
[8] Nel Novus Ordo ci sono pochissimi momenti in cui il sacerdote può fare qualcosa mentre il popolo e/o il coro fanno qualcos’altro: la preghiera davanti al Vangelo, durante l’alleluia; le preghiere dell’offertorio, se si canta un canto; spezzare l’ostia mentre si canta l’Agnus Dei. Ma il numero di tali momenti è stato severamente ridotto e il loro contenuto eucologico è stato svuotato.
[9] Allo stesso modo in cui una catena è forte quanto il suo anello più debole, così una liturgia piena di opzioni vale solo quanto la peggiore di queste opzioni. Dovrebbe essere giudicata non da quello che potrebbe essere qualora venissero fatte molte scelte improbabili, ma da quello che è normalmente quando vengono fatte le scelte abituali.
[10] Questo non vuol dire, ovviamente, che il rito tradizionale romano sia sempre offerto in modo edificante o esteticamente appropriato, ma ciò non può mai essere garantito in nessun rito, perché si ha ancora a che fare con esseri umani con la loro peculiarità e fragilità. Mi riferisco piuttosto alle regole e ai costumi che regolano le cerimonie in quanto tali.
[11] Dalla prossima edizione riveduta e ampliata di The Heresy of Formlessness [L’eresia dell’informe] (Angelico Press, 2018), p. 187 [qui - qui]. Altrove nello stesso libro Mosebach dice: “È caratteristico di questo secolo che proprio mentre l’ascia veniva applicata al verde albero della liturgia, si stavano formulando le più profonde intuizioni liturgiche, anche se non nella Chiesa romana, ma nella Chiesa bizantina. Da un lato, un papa ha osato interferire con la liturgia. Dall’altro, l’Ortodossia, separata dal papa dallo scisma, ha preservato la liturgia e la teologia liturgica attraverso le terribili prove del secolo. Per un cattolico che rifiuta lasciarsi andare a facili conclusioni ciniche, questi fatti producono un enigma sconcertante. Si sarebbe tentati di parlare di mistero tragico, sebbene la parola ‘tragico’ non si adatti al contesto cristiano. La Messa di San Gregorio Magno, l’antica liturgia latina, si trova ormai nella “frangia estremista” della Chiesa romana, mentre la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo vive in tutto il suo splendore nel cuore stesso della Chiesa ortodossa. L’idea che abbiamo qualcosa da imparare dall’Ortodossia non è popolare. Ma dobbiamo abituarci a studiare — e studiare a fondo — ciò che la Chiesa bizantina ha da dire sulle immagini sacre e sulla liturgia. Ciò ha la stessa rilevanza per il rito latino; infatti, sembra quasi che si possa conoscere il rito latino in tutta la sua realtà ricolma di Spirito solo se lo si guarda da una prospettiva orientale” (57).

NOTA *** sulle lingue vernacolari d’Oriente — Ispirato dai commenti a questo articolo, metto ora in dubbio l’esattezza della mia affermazione secondo cui l’uso del volgare sarebbe caratteristico dei riti orientali così come lo è del Novus Ordo nel suo vasto numero di traduzioni nelle lingue moderne. È vero, in molti ambiti linguistici si userà il volgare (come quando la Divina Liturgia è offerta in inglese, come in tutti gli Stati Uniti), ma ci sono troppe eccezioni.
  • Le chiese/patriarcati di lingua greca usano il greco liturgico, non il volgare. Alcuni patriarcati usano l’arabo, altri usano quest’ultimo insieme al greco.
  • Le chiese slave ortodosse hanno sempre utilizzato esclusivamente la lingua slava ecclesiastica. Di recente, i modernisti orientali sono riusciti a introdurre il vernacolo, ma non ovunque. I russi usano ancora solo lo slavo ecclesiastico. Anche se serbi, bulgari, macedoni, bielorussi e ucraini usano molto il volgare, lo slavo ecclesiastico è ancora in uso.
  • La Chiesa ortodossa rumena ha utilizzato lo slavo ecclesiastico e il greco liturgico dal X al XVII secolo, quando tali lingue sono state sostituite dal rumeno (che è stato comunque influenzato dallo slavo ecclesiastico, il che ha purificato un po’ il suo carattere vernacolare).
  • La Chiesa ortodossa georgiana usa l’antico georgiano letterario come lingua liturgica.
  • I copti ortodossi usano la lingua letteraria copta come lingua liturgica. Anche se il suo uso è diminuito durante il lungo dominio musulmano (che ha fatto sì che venisse sostituito dall’arabo), è ancora vivo e lo si sta reintroducendo.
  • Gli ortodossi etiopi usano come lingua liturgica il ge’ez, non uno dei tanti volgari.
  • I siro-ortodossi usano il siriaco classico e l’arabo. L’uso dell’arabo è dovuto ai secoli di dominio musulmano.
  • Gli armeni usano l’armeno classico letterario.
Ma poi, cosa si intende per “vernacolare”? L’antico slavo ecclesiastico, ad esempio, è stato creato in modo che gli slavi potessero comprendere la liturgia, ma allo stesso tempo è stato creato per tradurre un greco liturgico molto elaborato. E storicamente, nella maggior parte delle culture è sempre esistito per definizione un grande divario tra la lingua letteraria e la lingua parlata, molto più grande di quanto si verifichi oggi, sia perché oggi ci sono più persone alfabetizzate, sia perché l’alta lingua letteraria è sostanzialmente scomparsa.

UN’ALTRA NOTA 
Un lettore mi ha inviato questo link, in cui supporta molti dei punti sostenuti in questo articolo riportando ben scelte sequenze alternate tratte dalle liturgie tradizionali romana e ortodossa.
[Traduzione dall’inglese per Chiesa e post-Concilio di Antonio Marcantonio]

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