Ma il popolo ama il disordine?
Ora, con tutti gli sforzi che io possa fare, mi è davvero difficile pensare che il “free party” sia un atto implicitamente politico, che nell’occupazione di capannoni abbandonati vi sia la critica della società industriale, che la durata di più giorni addirittura attacchi la distinzione tra momento del lavoro e dell’intrattenimento, rifiutando così il controllo del tempo e il fatto che ci possa divertire solo per poche ore. Come fa invece il “Manifesto”, che si compiace di sfoggiare una capacità di lettura pregna di sociologismo “alternativo” anni ‘70. Mi è davvero molto ma molto difficile intravedere nelle facce sfatte, nelle gambe cadenti e nelle parole smozzicate neanche l’abbozzo di un atto implicitamente politico. Ciò che vi vedo, purtroppo, è l’annientamento della capacità di esprimere una qualsivoglia critica del mondo del quale si è figli; il rispondere col degrado al degrado, con la dissoluzione alla dissoluzione, col nichilismo al nichilismo.
Queste manifestazioni nascono da una sub cultura nichilista, individualista e anarcoide per niente ribelle al sistema se non per le sue espressioni di limitazione di quegli spazi non del tutto ancora “liberati”.
Di fronte allo sgombero – per altro molto civile – voluto fortemente dal neo ministro agli interni, se non altro per dare un segnale di forte discontinuità con la precedente ignava gestione Lamorgese, vedo che insorgono le voci di una sinistra che non vede l’ora di mostrare come l’attuale governo sia innervato da profonde tendenze fasciste. Intravedendo in questa vicenda la conferma del ritorno di un’ideologia piccolo borghese tutta legge e ordine propria della pancia bottegaia e reazionaria di questo paese. Ignorando del tutto, e in ciò si misura ormai la distanza abissale dagli umori dei ceti popolari, che la richiesta di “ordine” è abbastanza diffusa, naturalmente ognuno declina il concetto di ordine a suo modo.
Gramsci nel 1919 fondò il giornale “L’Ordine Nuovo”, nel quale si esprimeva la necessità comunque di un ordine, anche se nuovo. Perché le classi popolari non amano il disordine, da esso ci hanno sempre tutto da perdere, solo i ricchi e i potenti hanno da guadagnarci. Il popolo è disposto a mettersi in gioco, quindi a “disordinare”, solo a condizione di intravedere un ordine che sia migliore dell’esistente.
La sinistra che fa l’occhiolino ai rave è la stessa che propugna la liberalizzazione delle droghe, è la stessa che ha fatto diventare il Primo Maggio la passerella dei vip, è la stessa che favorisce situazioni di lassismo nella scuola eccetera. Insomma è una sinistra figlia di quel ’68 che poneva come propria bandiera il “vietato vietare”. Un libertarismo del tutto complementare a quel liberalismo che un po’ alla volta è entrato nel corpo della propria politica, e che oggi si esprime nell’accettazione di tutte le libertà funzionali al capitale nella sua forma liberistica. Per cui, nessuna contraddizione tra il rivendicare il “diritto” a dichiarare il proprio sesso e la svendita del patrimonio pubblico.
Una sinistra quindi del tutto schiacciata sulle esigenze di “libertà” del mercato, sia economico che culturale. Una sinistra di fronte alla quale il vecchio Pci sarebbe un’accozzaglia di moralisti, bottegai, piccolo borghesi. Perché quel Pci era fortemente ancorato (al di là delle valutazioni politiche che si possano esprimere su di esso) ai sentimenti popolari; i quali, guarda caso, sono sempre (secondo i nostri post umani sinistri) molto tradizionali, di solito diffidenti del disordine che scaturisce dalla decomposizione sociale, dalla quale si sentono invece minacciati.
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