Pagine di rilievo

venerdì 27 gennaio 2023

Munus, ministerium e amenità varie. Breve confutazione di alcune teorie insostenibili.

Qualche anno fa abbiamo pubblicato un articolo degli americani John Salza e Robert Siscoe, che sviscerava abbastanza la questione: “Francesco o Benedetto: chi è il vero papa?" [qui]. 
Ora ricevo dall'Avv. Carlo Schena un contributo di Robert Siscoe estremamente sintetico che risolve nei termini più semplici possibili la vexata quaestio di munus e ministerium che, dopo anni e anni (ripetutamente sviscerata: vedi), è venuta a nausea; ma resta ferma l'utilità di renderlo disponibile al pubblico italiano, considerando che tanti, troppi, seguono (fino allo scisma) le tesi di Minutella e di Cionci. 
Ne sono seguite due risposte da parte di p. Paul Kramer (ormai da anni Beneplenista) e di un tale professore spagnolo, Saez; e una replica da parte di Siscoe, molto più corposa dello scritto originario, ripresa in successione. Entrambi i testi sono preceduti da un utile schema riepilogativo.
Penso che i contributi di Robert Siscoe - già apparsi su Stilum Curiae -, per chiarezza metodologica e argomentativa, siano molto utili a diradare quell’ombra di dubbio che da parte mia (e forse di tanti altri) si possa ancora nutrire: uno dei punti che Siscoe chiarisce inconfutabilmente è, infatti, che munus e ministerium per il diritto canonico sono sinonimi, termini perfettamente interscambiabili. 
Segnalo per completezza che sullo stesso tema è uscito proprio in questi giorni un contributo di Guido Ferro Canale, sulle pagine di Radio Spada. Similmente al testo proposto di seguito, contribuisce a smontare definitivamente la querelle munus e ministerium, che tanto danno ha fatto alla Chiesa (con una combriccola che si dovrebbe riunire a Roma per l’elezione di un antipapa de noantri). (M.G.)

Munus, ministerium e amenità varie. Breve confutazione di alcune teorie insostenibili. 

“Non c’è nessun dubbio che c’è stato sempre un solo Papa, e si chiama Francesco” Mons. Georg Gänswein 
Di questi tempi, diversi fedeli – vuoi sconcertati da alcune azioni di papa Francesco, vuoi confusi dalla novità del c.d. “papato emerito” e da curiose teorie che circolano in rete e sui giornali – ritengono che in seguito alla scomparsa di Joseph Ratzinger, “unico vero papa”, il soglio petrino sia oggi vacante.

Secondo queste ricostruzioni, Benedetto avrebbe validamente rassegnato le dimissioni dall’esercizio attivo del suo ministero (ministerium) come vescovo di Roma, ma sarebbe comunque rimasto l’unico e solo Papa fino al giorno della sua morte, perché le dimissioni sarebbero state valide soltanto quanto all’esercizio attivo del ministero (ministerium), e non rispetto all’ufficio (munus) stesso.

Inscindibilità di munus e ministerium. La declaratio.
Il primo problema è che il munus e il ministerium non possono essere separati. Così come non è possibile dimettersi dal munus mantenendo il ministerium, nemmeno è possibile dimettersi dal ministerium mantenendo il munus. Se un Papa si dimette dal ministerium, il munus stesso diventa vacante. Benedetto lo ha chiarito nella declaratio del 2013, quando ha detto:
declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso renuntiare ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20, sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse
dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”.
Si noti che l’intenzione dichiarata da Benedetto XVI è quella di rinunciare al ministero “in modo che” la sede di Pietro si renda vacante (e non “impedita”!). In altre parole, l’intenzione dichiarata è quella di rinunciare al ministero e all’ufficio.

Rinuncia al ministerium – rinuncia alla giurisdizione – rinuncia al papato.
Ma supponiamo, per amor di discussione, che Benedetto non intendesse dimettersi “in modo che la sede di San Pietro diventi vacante”, ma intendesse invece solo dimettersi dall’esercizio attivo del ministero, pur mantenendo l’ufficio stesso. E supponiamo inoltre che, di conseguenza, fosse valida solo la rinuncia all’esercizio attivo del ministero.

Anche se tutto ciò fosse vero, Benedetto avrebbe comunque cessato di essere Papa (completamente) il 28 febbraio 2013 per il seguente motivo:
ciò che rende un uomo Papa è il possesso della giurisdizione dell’ufficio papale.
La giurisdizione è ciò che dà al Papa l’autorità di “esercitare attivamente il ministero”: insegnando, governando e santificando. La giurisdizione è la forma dell’ufficio papale. Rinunciando all’“esercizio attivo del ministero”, Benedetto si è quindi spogliato della giurisdizione, e spogliandosi della giurisdizione ha cessato formalmente di essere Papa.

Il fatto che Benedetto abbia intenzionalmente rinunciato alla sua giurisdizione è confermato dal titolo che ha scelto: “Papa emerito. Chi detiene il titolo di un ufficio gode dei diritti, dei doveri e dei privilegi dell’ufficio stesso. “Emerito” è il titolo dato a un vescovo in pensione (canone 402.1): vale a dire, a un vescovo che ha rinunciato alla sua giurisdizione su una diocesi affinché un altro possa assumerla. Quindi anche il titolo scelto da Benedetto conferma che egli si è volontariamente spogliato della sua giurisdizione e, rinunciando alla giurisdizione, ha cessato di essere Papa.

Lo studio del professor Violi (citato qui ).
Stefano Violi, professore di diritto canonico, è stato il primo a sostenere che Benedetto intendeva rinunciare solo a una parte del papato, ossia all’“esercizio attivo dell’ufficio”.
Già nel 2014 scrissi un articolo a proposito dello studio del prof. Violi, citandovi i seguenti estratti da un articolo sullo stesso argomento che Vittorio Messori pubblicò sul Corriera della Sera qui.
Si noti con attenzione come Messori ricostruisce ciò a cui, secondo Violi, Benedetto avrebbe inteso rinunciare, e ciò che invece avrebbe inteso mantenere:
Nella formula impiegata da Benedetto, si distingue innanzitutto tra il munus, l’ufficio papale, e la executio, cioè l’esercizio attivo dell’ufficio stesso. Ma l’executio è duplice: c’è l’aspetto di governo che si esercita agendo et loquendo, lavorando ed insegnando. Ma c’è anche l’aspetto spirituale, non meno importante, che si esercita orando et patendo, pregando e soffrendo. È ciò che starebbe dietro le parole di Benedetto XVI: “Non ritorno alla vita privata… Non porto più la potestà di guida nella Chiesa [cioè la giurisdizione] ma, per il bene della Chiesa stessa e nel servizio della preghiera, resto nel recinto di San Pietro”. Dove “recinto” non andrebbe inteso solo nel senso di un luogo geografico dove vivere ma anche di un “luogo” teologico.
Benedetto XVI si è spogliato di tutte le potestà di governo e di comando inerenti il suo ufficio [cioè della giurisdizione], senza però abbandonare il servizio alla Chiesa: questo continua, mediante l’esercizio della dimensione spirituale [pregare e soffrire] del munus pontificale affidatogli. A questo, non ha inteso rinunciare. Ha rinunciato non al compito, che non è revocabile, bensì alla sua esecuzione concreta.
Questo “ufficio” di pregare e soffrire (orando et patendo) – che è quanto, secondo il professor Violi, Benedetto XVI avrebbe inteso mantenere – non richiede giurisdizione. Lo richiede, invece, l’ufficio di lavorare e insegnare: esso richiede “la potestà dell’officio per il governo della Chiesa”, che è ciò che Benedetto ha esplicitamente dichiarato di “non portare più”. E se Benedetto “non porta più” la “potestà dell’officio per il governo della Chiesa” (che è la giurisdizione) non è più papa, poiché la giurisdizione è ciò che rende il papa il (solo e unico) papa.
Robert Siscoe
[traduzione e adattamenti di Carlo Schena]

* * *

Risposta di Robert Siscoe ad alcune obiezioni

Dopo aver letto con attenzione le obiezioni mosse da p. Kramer e dal prof. Sáez, Robert Siscoe ha risposto punto per punto ai diversi argomenti teologico/canonistici. Le offre agli autori e agli interessati nella speranza che una lettura serena e in buona fede possa convincere chi ancora si aggrappa a teorie insostenibili e oggettivamente scismatiche, forse figlie di legittime preoccupazioni per la situazione della e nella Chiesa – ma, questo è il punto, figlie illegittime.

Risposta a padre Kramer
I. Benedetto: “Rinuncio in modo tale che la sede diventi vacante”
P. Kramer: [Siscoe dice:] “Se un Papa si dimette dal ministero, il munus stesso diventa vacante”.
Non sequitur. Il munus e il ministerium sono sì inseparabili, ma non sono la stessa cosa.
Bene che padre Kramer ammetta che munus e ministerium sono inseparabili, ma vedremo dove sbaglia.
P. Kramer: Il munus è l’ufficio. Il ministerium consiste nelle funzioni ufficiali connesse al munus. L’ho spiegato in modo esauriente ne Il caso contro Bergoglio. La rinuncia al munus rende vacante l’ufficio, come stabilito dal diritto canonico. La rinuncia al ministerio non ha alcun effetto giuridico, perché rinuncia a qualcosa di diverso dal munus. Chi rinuncia al munus rinuncia all’ufficio. Sciopera, in realtà, chi rinuncia al ministerium: Si rifiuta semplicemente di fare il suo lavoro”.
“Si noti che l’intenzione dichiarata da Benedetto XVI è quella di rinunciare al ministero “in modo che” la sede di Pietro si renda vacante (e non “impedita”!). In altre parole, l’intenzione dichiarata è quella di rinunciare al ministero e all’ufficio”.
L’intenzione dichiarata è solo [mai Ratzinger dice “solo”] quella di rinunciare al ministero, che non libera l’ufficio, anche se questo era l’effetto voluto. L’oggetto dell’atto di rinuncia è il ministerium e non il munus.

L’oggetto della dichiarazione era di rinunciare al ministero in modo tale che la sede diventasse vacante. La vacanza della Sede Apostolica era più che un effetto dell’oggetto dell’atto; era un aspetto essenziale dell’oggetto dell’atto. La rinuncia al ministero era il fine prossimo; la vacanza della Sede era il fine remoto dell’atto.

II. Munus e ministerium: tutti e due sul piano dell’essere – e quindi sinonimi
P. Kramer: Solo rinunciando al munus si libera l’ufficio. Rinunciando al ministerium si rinuncia solo alle attività dell’ufficio, ma non all’ufficio stesso. Non esiste una rinuncia implicita. Anche se avesse inteso che l’atto di rinuncia al ministerio avrebbe avuto come effetto la vacanza dell’ufficio, l’atto sarebbe stato nullo, perché l’atto è difettoso, e un atto difettoso che rinuncia a qualcosa di diverso dall’ufficio del papato stesso non può avere come effetto la vacanza dell’ufficio papale.
È chiaro che nell’usare la parola ministerium, Benedetto non si riferiva soltanto a qualcosa appartenente alla sfera dell’agire - l’esercizio dell’ufficio - ma anche a qualcosa appartenente alla sfera dell’essere – qualcosa che aveva ricevuto e che quindi possedeva, o, per dirla con le sue parole, un “ministero a lui affidato”. “[devo] riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato” (Benedetto, Declaratio).

Chiaramente, il ministero è qualcosa che ha ricevuto, non semplicemente “l’esercizio” di qualcosa che già possiede. A Benedetto non furono affidate, come dice p. Kramer, “solo [le] attività dell’ufficio”. Gli venne affidato un vero e proprio ufficio o ministero, che ricevette ministerialmente dai cardinali (attraverso l’elezione) e autoritativamente da Cristo, che gli conferì il primato di giurisdizione.

In un recente post sul suo blog, fra Alexis Bugnolo (un altro teorico del beneplenismo, spesso citato come autorità in campo linguistico dal giornalista Andrea Cionci) ha implicitamente confermato che ciò a cui Benedetto intendeva rinunciare era il munus, non soltanto il suo esercizio. E ha fatto ciò spiegando che il termine munus indica qualcosa che si riceve, mentre, a suo avviso, ministerium indica solo un servizio verso altri. Ecco le sue parole:
“Munus (dono o incarico) è un termine che connota una relazione tra chi lo riceve e chi lo dà, mentre Ministerium (servizio) è un termine che denota la relazione di chi serve con chi è servito. Questo perché un Ministerium si esercita a favore dei sottoposti e dei bisognosi, mentre un Munus si riceve dai superiori a titolo di beneficio. [...] Pertanto dire che munus e ministerium significano la stessa cosa è assurdo”.
Se stiamo alla definizione di munus data da fra Bugnolo, dal momento che Benedetto parlava del ministero a cui rinunciava come di qualcosa che aveva ricevuto (che gli era stato affidato), è evidente che ciò che intendeva con la parola ministerium è esattamente ciò che fra Bugnolo intende con la parola munus. E non è Benedetto ad aver commesso un errore usando ministerium come sinonimo di munus. È fra Bugnolo a commettere l’errore di immaginare che il termine ministerium si riferisca esclusivamente ad un servizio reso ad altri.

Questa confusione di fra Bugnolo rispetto al significato di munus/ministerium lo ha portato anche a concludere che munus non può mai essere tradotto come funzione. Ecco cos’ha scritto in quello stesso post sul suo blog:
“Munus e Ministerium, in tutte le principali lingue occidentali, non vengono MAI tradotti correttamente con gli stessi termini. Quanti possono pensarlo non sono né linguisti, né comprendono l’etimologia. — Ascoltateli a rischio di dire qualcosa di stupido come loro. Munus, ad esempio, non si può tradurre con funzione, perché funzione è un sostantivo verbale, ma munus è una sostanza. Una sostanza è una cosa, ma un sostantivo verbale denomina propriamente un’azione.[ ]
Nella traduzione inglese del Codice di Diritto Canonico del 1983, disponibile sul sito web del Vaticano, munus è tradotto con il termine funzione (function) in moltissimi canoni. Ecco solo tre esempi:
Can. 334 I Vescovi assistono il Romano Pontefice nell’esercizio del suo ufficio. ... In suo nome e con la sua autorità, tutte queste persone e istituti adempiono la funzione (munus) loro affidata per il bene di tutte le Chiese, secondo le norme definite dal diritto.
Can. 337 § 3. Spetta al Romano Pontefice, secondo le necessità della Chiesa, scegliere e promuovere le modalità con cui il collegio episcopale deve esercitare collegialmente la sua funzione (munus) nei confronti della Chiesa universale.
Can. 347 §1. Quando il Romano Pontefice conclude una sessione del sinodo dei vescovi, cessa la funzione (munus) che in essa è affidata ai vescovi e agli altri membri.
Si vedano anche i canoni 347§2, 358, 360, 364, 365 e 367, oltre a innumerevoli altri [ 2].

Si noti anche che i Can. 335 e 347 §1 parlano del munus come di qualcosa che è affidato ai vescovi. Dal momento che Benedetto ha descritto il ministerium a cui stava rinunciando come qualcosa che gli era stato affidato, è evidente che ciò che egli intendeva con ministerium è proprio ciò che questi canoni intendono con munus.

Nella traduzione inglese della Lumen Gentium sul sito del Vaticano, munera (plurale di munus) è nuovamente tradotto come funzioni:
“Nella sua consacrazione una persona riceve una partecipazione ontologica alle sacre funzioni (munera); questo è assolutamente chiaro dalla Tradizione, compresa la tradizione liturgica. La parola “funzioni (munera)” è usata deliberatamente al posto della parola “poteri [potestates]”, perché quest’ultimo termine potrebbe essere inteso come un potere pienamente pronto ad agire. [...] Una siffatta norma aggiuntiva è richiesta dalla natura stessa del caso, perché si tratta di funzioni (munera) che devono essere esercitate da molti soggetti che cooperano in modo gerarchico secondo la volontà di Cristo”. (Lumen Gentium, nota Praevia) [ ]
Nel New Commentary on the Code of Canon Law, di Beal, Coriden e Green (Paulist Press, 2000), commissionato dalla Canon Law Society Of America, si legge quanto segue sui termini munus e funzione;
La “funzione” del Papa di cui al canone 331 è sottolineata attraverso l’uso di munus, un concetto del Concilio Vaticano II che significa servizio o compito, e non principalmente o primariamente ufficio. Da questa formulazione piuttosto moderata derivano delle affermazioni concrete”. (p. 431-432).
Riguardo al canone 145: “Munus (“funzione”) è usato frequentemente per il triplice ministero di Cristo: insegnare, santificare e governare. [...] I commentatori comunemente elencano tra gli uffici derivanti dall’ordine divino l’ufficio del ministero petrino (il papa), il collegio dei vescovi e l’ufficio di vescovo diocesano [...]” (pag. 197).
Si badi che il Commentario non solo traduce munus come funzione e conferma che munus è spesso usato per riferirsi al ministero di Cristo, ma equipara esplicitamente l’ufficio petrino al ministero petrino: “l’ufficio del ministero petrino”.

III. Una cosa è il ministero (essere), altra è l’esercizio del ministero (agire)
P. Kramer: Un atto che rinuncia solo all’esercizio dei doveri d’ufficio, ma non all’ufficio stesso, non può avere l’effetto di liberare l’ufficio, anche se questo era l’effetto che il papa pensava di produrre.
Benedetto non ha mai detto che intendeva rinunciare “solo” all’esercizio dei doveri dell’ufficio. Al contrario, ha dichiarato di rinunciare al ministero stesso. Il ministero è una cosa; l’esercizio del ministero è un’altra. Il primo (ministero) riguarda la sfera dell’essere; il secondo (esercizio del ministero) riguarda la sfera dell’agire.

IV. La rinuncia: non implicita, ma esplicita
P. Kramer: Se voleva liberare l’ufficio, doveva rinunciare ad esso, e non alle attività dell’ufficio. Ha rinunciato alla cosa sbagliata che non può avere l’effetto di liberare l’ufficio, anche se questo era ciò che intendeva soggettivamente [questo era il fine remoto dell’atto]. Per essere un atto valido, l’intenzione dell’atto deve essere chiaramente espressa come oggetto dell’atto [i fini prossimo e remoto erano in realtà chiaramente specificati], e non solo implicita ma non dichiarata; e l’atto non può limitarsi a dichiarare l’effetto che intende ottenere, senza specificare l’oggetto formale stesso che solo può produrre quell’effetto.
Il resto dell’articolo afferma una serie di non sequitur, come: “Il fatto che Benedetto abbia intenzionalmente rinunciato alla sua giurisdizione è confermato dal titolo che ha scelto: “Papa emerito”“.
Falso. Una rinuncia implicita non può avere alcun effetto giuridico. L’oggetto dell’atto deve essere dichiarato, altrimenti è nullo. Ho citato i canoni nel mio libro.
Non si è trattato di una rinuncia implicita, e nessuno ha pensato che lo fosse prima che il professor Violi postulasse la separabilità di munus e ministerium un anno più tardi, sostenendo che Benedetto avesse inteso rinunciare solo a quest’ultimo, insieme a “tutte le potestà inerenti il suo ufficio”, mantenendo tuttavia lo stesso munus.

V. Un’interpretazione autentica
P. Kramer: [Siscoe dice:] “Benedetto XVI si è spogliato di tutte le potestà di governo e di comando inerenti il suo ufficio [cioè della giurisdizione], …”.
Falso. Egli rinunciò formalmente all’esercizio dei doveri della carica, pensando erroneamente che tale atto difettoso avrebbe comportato la perdita della giurisdizione. Solo la rinuncia all’ufficio stesso può avere questo effetto.
Benedetto in persona ha dichiarato: “Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa” (ultima Udienza Generale, 27 febbraio 2013). 

Come ha osservato il professor Violi nel suo studio, Benedetto parlò “evocando la distinzione grazianea tra potestas officii e la sua executio”. Dal momento che Benedetto affermò esplicitamente di “non port[are] più la potestà dell’officio”, è evidente che intendeva rinunciare non solo all’esercizio dell’ufficio, ma al potere dell’ufficio stesso. Benedetto riuscì a realizzare ciò che si proponeva? Senza dubbio lui credeva di “non port[are] più la potestà dell’officio”, e lo stesso credeva il Prof. Violi: “Benedetto XVI ha esercitato la pienezza del potere privandosi di tutte le potestà inerenti il suo ufficio”.

A chi dobbiamo credere? Allo stesso Papa Benedetto e al Prof. Violi, o a P. Kramer?

Benedetto era il legislatore supremo. Quindi spetta a lui determinare se il linguaggio usato nella declaratio era sufficiente a raggiungere l’effetto desiderato. Dal momento che ha dichiarato esplicitamente di non possedere “più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa”[ ], ha chiaramente giudicato che la dichiarazione fosse sufficiente.

È curioso come i Beneplenisti insistano sul fatto che Benedetto sia rimasto Papa, ma rifiutino l’esplicito insegnamento della sua ultima Udienza Generale.

Risposta al prof. Sáez
VI. Munus e ministerium: sul piano dell’essere – L’errore di fondo dei Beneplenisti
Sáez: “Munus” (ufficio) non è la stessa cosa di “ministerium” (l’esercizio di tale ufficio).
È qui che sbagliano. I beneplenisti (ormai, sedevacantisti) pensano che il munus appartenga alla sfera dell’essere e il ministerium a quella dell’agire. Munus e ministerium appartengono entrambi alla sfera dell’essere. Sono sinonimi.

Una persona può esercitare il suo ufficio, o può esercitare il suo ministerium. In entrambi i casi, esercita qualcosa che possiede. Benedetto ha detto di rinunciare “all’esercizio attivo del ministero”, ma avrebbe potuto benissimo dire che rinunciava “all’esercizio attivo del suo ufficio” e il significato sarebbe stato lo stesso. Nessuno avrebbe mai identificato “l’ufficio” con “l’esercizio dell’ufficio”; eppure, per qualche ragione, è quello che fanno con il termine ministerium. E la ragione per cui fanno ciò è che collegano erroneamente il ministerium a un’altra distinzione che il professor Violi traccia nel suo studio. Permettetemi di spiegare.

Nel suo studio, il professor Violi sostiene che la Declaratio di Benedetto contiene diverse distinzioni fondamentali: in primo luogo, vi è una distinzione tra il munus (l’ufficio papale) e l’executio (l’esercizio attivo dell’ufficio). Un’altra distinzione si colloca all’interno dell’executio stessa: 1) c’è l’aspetto spirituale dell’executio, che si realizza attraverso la preghiera e la sofferenza; e 2) c’è l’aspetto di governo dell’executio, che si realizza attraverso l’insegnamento e le opere. È solo a quest’ultimo aspetto, secondo Violi, che Benedetto intendeva rinunciare.

Ora, dal momento che a dire di Violi Benedetto XVI intendeva rinunciare solo all’aspetto docente e operativo dell’executio (ma non al munus stesso), e dato che il termine usato da Benedetto per indicare ciò a cui intendeva rinunciare era ministerium, quanti hanno letto e condiviso lo studio di Violi, e soprattutto quanti hanno elaborato nuove teorie sulla base di esso (ad esempio, quella dell’invalidità per errore sostanziale), hanno pensato che ministerium dovesse per forza riferirsi al secondo significato di executio. E poiché executio si riferisce all’ambito dell’azione, hanno concluso che lo stesso deve valere per il termine ministerium. Pertanto, nella loro mente, munus, che corrisponde alla sfera dell’essere, è completamente diverso da ministerium, che secondo loro corrisponde esclusivamente alla sfera dell’agire. Un simile errore lo si può vedere nella seguente citazione di Ann Barnhardt:
“Come abbiamo già discusso più volte, un UFFICIO è uno stato dell’ESSERE. Per dimettersi dal papato, occorre rinunciare a ESSERE il papa, cioè a ricoprire l’UFFICIO. Il MINISTERO (MINISTERIUM) si riferisce alle cose che il Papa può scegliere o no di FARE o di essere in grado di FARE come risultato dell’ESSERE il Papa, come insegnare, governare e presiedere. [...] Come già detto, questi due TERMINI FONDAMENTALI, UFFICIO e MINISTERO, appartengono a categorie completamente diverse, ‘essere’ e ‘fare’, e quindi non possono né ora né mai essere ritenuti sinonimi in inglese o in qualsiasi altra lingua”.
Interpretando ministerium come un equivalente di executio, i Beneplenisti (ora Sedevacantisti) hanno tratto la falsa conclusione che ministerium e munus sono due termini completamente diversi.

Andrea Cionci commette lo stesso errore ne Il Codice Ratzinger, come possiamo vedere dal seguente riassunto delle sue tesi fatto da don Silvio Barbaglia:
In sintesi, i fondamenti sui quali poggia l’ipotesi sono sostanzialmente tre: 1) papa Benedetto XVI, contro ogni apparenza, quell’11 febbraio non ha annunciato la sua volontà di abdicare al soglio pontificio, rinunciando al munus petrinum [...], bensì ha dichiarato di rinunciare solo e unicamente all’esercizio pratico del suo ministero presso la sede pontificia della Chiesa di Roma (espresso nel termine ministerium). Pertanto, Benedetto XVI, nonostante la data annunciata del termine ultimo [del suo pontificato], alle ore 20 del 28 febbraio di quell’anno, ha continuato ad essere il papa in carica [sfera dell’essere] pur non potendo più fare il papa [sfera dell’agire], privato della sede [solo] per l’esercizio pratico del suo ministero; 2) pertanto questa situazione – ed è il secondo cardine su cui poggia l’ipotesi – non avrebbe prodotto l’istanza di una «Sede vacante» [...]
L’intero scisma beneplenista è costruito sull’errore dell’equiparazione del termine “ministerium” con “executio”, cioè con “l’esercizio pratico” del ministero.

Ma anche la stessa frase “esercizio pratico del ministerium” mostra che il ministerium non equivale al suo esercizio. Se i due termini avessero lo stesso significato, “esercizio pratico del ministerium” significherebbe “esercizio pratico dell’esercizio pratico”, il che non ha alcun senso. D’altra parte, se ministerium è sinonimo di munus (e lo è), ha senso parlare di “esercizio attivo del ministerium (ministero)”, così come ha senso parlare di “esercizio attivo del munus (ufficio)”.

VII. Presbyterorum Ordinis conferma la sinonimia – che in diritto canonico è pacifica
Sáez: Tradizionalmente, i termini “ministerium” e “munus” erano sinonimi. Così, il CIC del 1917 parla dei diversi ministeri ecclesiastici o divini: suddiaconi, diaconi, sacerdoti, vescovi. O, più recentemente, la Costituzione Universi Dominici Gregis, che parla del ministero petrino o ministero del pontefice. […] Tuttavia, negli ultimi decenni si è fatta strada nel Diritto canonico una distinzione giuridica più precisa tra “ministerium” e “munus”, iniziata nel Decreto Presbyterorum Ordinis […]. Si veda che significato del termine al numero 6 del Decreto Presbyterorum Ordinis
Ecco qui il numero 6 del Decreto Presbyterorum Ordinis:
“6. Esercitando la funzione di Cristo [munus Christi] capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità viva e unita e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Per [l’esercizio di] questo ministero [ad hoc ministerium exercendum], così come per le altre funzioni [munera], viene conferita al presbitero una potestà spirituale, che è appunto concessa ai fini dell’edificazione”.[ ]
“Esercitare il munus di Cristo” e “esercitare il ministerium di Cristo, così come gli altri munera”. Munus (ufficio), ministerium (ministero) e munera (uffici) sono usati come sinonimi proprio in quel documento che Sáez ci dice di consultare per comprendere la differenza di significato.

Per dimostrare che munus e ministerium sono tuttora utilizzati come sinonimi dai canonisti, riporterò alcune citazioni tratte dal New Commentary on the Code of Canon Law (Paulist Press, 2000). Nel commento al canone 331, che riguarda l’ufficio e i poteri del Romano Pontefice, gli autori equiparano esplicitamente munus sia al ministero che all’ufficio, mettendo questi due termini tra parentesi dopo aver utilizzato il primo:
“Infine, il Papa esercita l’ufficio di governare (munus regendi) la Chiesa universale. La parola munus (ministero o ufficio) compare nel canone 331” (p. 435).
Spiegano inoltre che il motivo per cui il Vaticano II ha usato il termine munus, anziché potestas, è che il munus esprime il carattere ministeriale di un ufficio:
“Va inoltre ricordato che la posizione del Papa nella Chiesa universale è definita in ultima analisi con la parola potestas, che significa potere, dominio, ufficio, ma soprattutto potere o autorità. Il Concilio Vaticano II in precedenza aveva evitato l’uso di questa parola o concetto in riferimento a tutti gli uffici nella Chiesa. Ha invece privilegiato la parola o il concetto di munus, in quanto esprime il carattere ministeriale di qualsiasi ufficio o funzione ecclesiale. (p 433, c. 331)
Che munus e ministerium siano sinonimi è ulteriormente confermato dalla traduzione tedesca del Codice di Diritto Canonico del 1983, reperibile sul sito web del Vaticano. Fra Bugnolo ha ammesso, con perplessità, che la traduzione tedesca del Codice non solo equipara i due termini, ma addirittura definisce un ufficio come un ministero.

Dopo aver informato i suoi lettori che “l’importanza del canone 145 §1 del Codice di Diritto Canonico è questa, cioè che esso DEFINISCE la natura di un ufficio ecclesiastico (officium) come munus”, Fra Bugnolo, a proposito della traduzione tedesca del canone 145 §1, scrive:
“Ogni ufficio ecclesiastico (Kirchenamt) è definito come un Dienst! Ma Dienst, come sa ogni persona che conosce il tedesco, significa ciò che noi in inglese intendiamo con “servizio” (service), e ciò che ogni persona che parla latino intende con la parola ministerium. Quindi la traduzione tedesca del canone 145 dice: Ogni ufficio ecclesiastico è un ministero! Mentre il Codice di Diritto Canonico in latino afferma in realtà: Ogni ufficio ecclesiastico è un munus!”.
La ragione di ciò è che, esattamente come Papa Benedetto e gli autori del New Commentary on the Code of Canon Law, chiunque sia stato incaricato di tradurre il Codice in tedesco sapeva benissimo che munus e ministerium sono sinonimi.

VIII. La rinuncia per il diritto canonico. Una condizione di validità inventata
Sáez: Detto canone dice che il papa, per rinunciare validamente al pontificato, deve liberamente rinunciare «al suo ufficio» (muneri suo) e che tale rinuncia «venga debitamente manifestata» (rite manifestetur)
Questo non è ciò che dice il canone. Due e due soltanto sono le condizioni richieste per la validità, non tre. Il prof. Saez ha convenientemente inserito il termine “muneri” dopo la parola valido, in modo da farla apparire come una terza condizione di validità. Questo è ciò che dice il canone 332.2:
“Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità (1) che la rinuncia sia fatta liberamente e (2) che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”[ ].
E questo è ciò che non dice:
“Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità (1) che la rinuncia sia fatta liberamente, (2) che venga debitamente manifestata e (3) che egli usi la parola munus, e non un termine equivalente, non si richiede invece che qualcuno la accetti”.
Dal momento che munus e ministerium hanno essenzialmente lo stesso significato, e dal momento che il codice non richiede l’uso di una determinata, specifica parola, l’una o l’altra sarebbe stata sufficiente a manifestare correttamente l’intenzione di rinunciare al munus.

IX. Cristo non ha le mani legate – nemmeno da eventuali difetti nella Declaratio . L’accettazione universale.
Sáez: “Certamente il papato è un potere di giurisdizione, perché è un potere giuridico, non di ordine o sacramentale. Ma la giurisdizione non è attribuita al ministero o all’esercizio attivo della carica ma alla sua elezione a papa e all’accettazione dell’ufficio petrino”.
Il primato di giurisdizione è la forma del pontificato. L’uomo che ricopre la carica ne è la materia. Cristo è la causa efficiente che rende l’uomo Papa unendo la forma alla materia. Durante l’elezione papale, i cardinali designano la persona (materia) che sarà Papa, ma è Cristo che lo rende Papa conferendogli la giurisdizione, unendo così la forma alla materia. Similmente, se un Papa rinuncia al ministero petrino, Cristo è la causa efficiente che lo rende un ex Papa, sciogliendo il legame che unisce la forma alla materia, privando così un Papa della sua giurisdizione.

Questo è importante perché anche se ci fosse un difetto nella Declaratio, questo non impedirebbe a Cristo di recidere il legame che univa l’uomo al pontificato. Analogamente, un difetto nell’elezione papale non impedisce a Cristo di renderlo Papa unendo l’uomo al Pontificato, come spiega Sant’Alfonso:
“Non importa se nei secoli passati qualche Pontefice sia stato illegittimamente eletto o abbia preso possesso del Pontificato con la frode; è sufficiente che in seguito sia stato accettato dalla intera Chiesa come Papa, dal momento che attraverso tale accettazione sarebbe comunque diventato il vero Papa”.[ ]
Il fatto che Francesco sia stato accettato come Papa da tutta la Chiesa nei giorni, settimane e mesi successivi alla sua elezione (ed è tuttora accettato come Papa dall’intera ecclesia docens) dimostra, con infallibile certezza, che egli è diventato il vero e legittimo Papa il giorno della sua elezione. L’accettazione universale dopo la sua elezione fornisce anche la certezza infallibile che siano state soddisfatte tutte le condizioni necessarie per diventare Papa. Il cardinale Billot spiega che:
“Infine, qualsiasi cosa possiate pensare a proposito della possibilità o impossibilità della detta ipotesi [che un Papa possa cadere in eresia], almeno un punto deve essere considerato assolutamente incontrovertibile e posto saldamente al di sopra di alcun dubbio: l’adesione della Chiesa universale sarà sempre, in sé, un segno infallibile della legittimità di un determinato pontefice, E dunque anche della esistenza di tutte le condizioni richieste per la legittimità stessa. Non serve guardare lontano per averne prova, ma troviamo immediatamente nella promessa e nella infallibile provvidenza di Cristo: ‘Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa’, ed ‘Ecco, io sarò con voi tutti i giorni’. […] Come diverrà ancora più chiaro da quel che diremo più tardi, Dio può permettere che alle volte la vacanza della Sede Apostolica si prolunghi per un lungo tempo. Può anche permettere che sorga un dubbio circa la validità di questa o di quella elezione. Non può tuttavia permettere E l’intera chiesa accetti come Papa colui che non è tale veramente e legittimamente.
Così, dal momento in cui il Papa è accettato dalla Chiesa e unito a lei quale capo del corpo, non è più permesso sollevare dubbi (1) circa un possibile vizio della elezione o (2) una possibile mancanza di qualche condizione necessaria per la legittimità. Questo perché la menzionata adesione della Chiesa sana in radice tutti i difetti della elezione e prova infallibilmente l’esistenza di tutte le condizioni richieste.”[8 ]
Dal momento che una delle condizioni necessarie perché Francesco potesse diventare Papa è che la sede di Pietro fosse vacante al momento dell’elezione, l’accettazione universale di Francesco come Papa (fosse anche solo per un momento) dimostra, con certezza infallibile, che la rinuncia di Benedetto è stata ratificata da Cristo, che ha reciso il legame che univa questi al papato, rendendo in tal modo vacante la sede di Pietro.

[Traduzione e adattamenti di Carlo Schena]
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[1] “THOSE WHO SAY MUNUS = MINISTERIUM ARE THE ENEMIES OF THE LIVING GOD“, 18 gennaio 2023 [qui]. Chi non condivide la tesi di padre Bugnolo è nientemeno che un “nemico del Dio Vivente”; in un post del 21 gennaio 2023 fra Bugnolo ci informa poi che a Roma “dei Cattolici” stanno procedendo, in questi giorni, all’elezione del successore di Benedetto XVI; Fra Bugnolo – bontà sua – “vuole che tutti sappiano che non esprimerà un voto durante le elezioni, per evitare qualsiasi accusa di parzialità”.
[2] Nella traduzione italiana del CIC 1983, i canoni citati traducono munus rispettivamente con i termini: incarico (334), ufficio (337), incarico (347), incarico (347.2), incarico (358), funzione (360), ufficio (367). La traduzione italiana del CIC usa il termine “funzione” per tradurre munus ai canoni: 377.2, 452.1, 541.1, 544, 633.1, 676, 713.2, l’intestazione del libro terzo (!): “DE ECCLESIAE MUNERE DOCENDI” – “LA FUNZIONE D’INSEGNARE DELLA CHIESA”. Ci fermiamo qui, gli esempi sono decine; ma viene da pensare che fra Bugnolo non abbia mai aperto o letto un codice di diritto canonico, in italiano o in inglese. Si veda qui per fare autonomamente un raffronto bilingue.
[3] Nella traduzione italiana del citato passo della “Nota Esplicativa Previa” è usato sempre il termine “ufficio”. Questo dimostra, semmai, che gli stessi traduttori ufficiali del vaticano intendono i termini “ufficio” e “funzione” come sinonimi (si veda il prosieguo dell’articolo per un altro esempio, con un’altra lingua). In ogni caso, in Lumen Gentium munus è tradotto (anche) come funzione ai paragrafi 7, 25 (intestazione: munus docendi), 26 (intestazione: munus sanctificandi), 27 (intestazione: munus regendi), 35, 54, 55, etc. A dimostrarlo basterà una semplice ricerca testuale del termine “funzione” qui.
[4] Nel primo articolo si è incorso in un errore: si citava l’ultima udienza di Benedetto XVI dicendo che qui il pontefice dichiarava di non portare più la “potestà di guida nella Chiesa”: questo era il virgolettato riportato nell’articolo di Messori del 2014. In realtà, in quell’udienza Benedetto – come correttamente riportava l’autore nell’articolo originale – parlò proprio di “potestà dell’officio per il governo della Chiesa“ (formula più chiara e cogente).
[5] “Munus Christi Capitis et Pastoris pro sua parte auctoritatis exercentes, Presbyteri, nomine Episcopi, familiam Dei, ut fraternitatem in unum animatam, colligunt, et per Christum in Spiritu ad Deum Patrem adducunt. Ad hoc autem ministerium exercendum, sicut ad cetera munera Presbyteri, confertur potestas spiritualis, quae quidem ad aedificationem datur”. La traduzione italiana dalla PO reperita da vatican.va è piuttosto libera, motivo per cui si è dovuto aggiungere l’inciso “l’esercizio di”, chiaramente presente nell’originale latino.
[6] “Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur”.
[7] De’ Liguori, Verità della Fede, in “Opera de S. Alfonso Maria de Liguori, Marietti” (Torino, 1887), vol. VIII., p. 720, n. 9.
[8] Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, vol. I, 1927, pp. 612-613.

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