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martedì 3 gennaio 2023

Predicare e catechizzare sui fini ultimi

Ricevo da Res Novae e volentieri pubblico. Riflessioni preziose sui 'fini ultimi' così abbandonati dalla predicazione modernista attuale. Precedenti qui - qui - qui

Predicare e catechizzare sui fini ultimi

A conclusione di un capitolo relativo alla crisi della predicazione sui fini ultimi (la morte, il giudizio particolare ed il giudizio universale, l’inferno, il paradiso ed anche il purgatorio), Guillaume Cuchet scrive: «Questa rottura in seno alla predicazione cattolica ha creato una profonda discontinuità nei contenuti predicati e vissuti della religione da una parte e dall’altra negli Anni Sessanta. Ciò è talmente ovvio che un osservatore esterno potrebbe legittimamente domandarsi se, al di là della continuità d’un nome e dell’apparato teorico dei dogmi, si tratti ancora della stessa religione[1]».

Erosione preconciliare di questa predicazione
In questo campo come in altri, il «grande movimento» (Guillaume Cuchet) che il Vaticano II ha provocato, anche nelle dottrine ch’esso stesso non ha rivisitato, come nel caso dei fini ultimi, è stato preceduto da un lungo e progressivo degrado interno. Questo ha subìto un’accelerazione, in tutti gli ambiti, a partire dall’ultima guerra, prima del brutale collasso, che ne è seguito. Così per la crisi delle vocazioni sacerdotali e religiose, la cui curva sul grafico stava calando molto tempo prima del crollo, già a partire dal 1965. Ci viene in mente un’immagine, senza dubbio troppo forte, quella della fantomatica città del Sertao brasiliano, descritta da Michel Bernanos ne L’envers de l’éperon [Il rovescio dello sperone], città rosicchiata dalle termiti, le cui mura ed i monumenti erano pronti a crollare alla minima spinta.

Alla fine degli Anni Cinquanta, Julien Green, nel suo Diario, ha fatto ripetute allusioni al fatto che si parlasse già con reticenza dei fini ultimi. Un buon testimone di tale disagio si trova in Jacques Maritain, che nello scritto del 1961, «Idées eschatologiques» [Idee escatologiche], che verrà pubblicato postumo in Approches sans entraves[2] [Approcci senza ostacoli], elabora un racconto stupefacente, che equivale ad eliminare la disperazione dei dannati: finalmente perdonati dopo il giudizio ultimo, essi verrebbero trasportati nel limbo (in cui Maritain credeva dunque ancora), dove godrebbero della felicità naturale, che conoscono i bambini morti senza battesimo. Si tratta di un recupero, in punta di piedi, della teoria d’Origene, detta apocatastasi, «ripristino», secondo cui le pene dell’inferno non erano eterne, ciò che è stato condannato dal secondo concilio di Costantinopoli.

Il collasso postconciliare
Tuttavia, qui come altrove, il grande sconvolgimento nella predicazione è intervenuto a partire dal Concilio. Nell’ambito di una bibliografia molto importante, si cita sempre la tesi di storia religiosa d’Yves Lambert, Dieu change en Bretagne: La religion à Limerzel de 1900 à nos jours[3] [Dio cambia in Bretagna: la religione a Limerzel dal 1900 ai giorni nostri]. Sul punto che ci interessa, l’autore mostra come, nel bollettino parrocchiale di Limerzel, si parlasse di purgatorio e di inferno fino al 1965, quando si concluse il Concilio, per poi smettere di colpo e definitivamente di farlo.

Non si potrebbe trattare Hans Urs von Balthasar da progressista. Tuttavia, la sua tesi sull’inferno, alla quale ha risposto Mons. Christophe J. Kruijen, autore dell’articolo che segue, non è marginale nel suo pensiero, ma sta al cuore della sua teologia. La Scrittura proibisce di negare la possibilità della dannazione, ammette Balthasar, che tuttavia s’interrogava sulla possibilità de facto ed anche de jure della dannazione: «Noi non sappiamo se la libertà umana sia in grado di negarsi fino in fondo all’offerta rivoltale dallo Spirito di darle la sua vera e propria libertà[4]». Detto in altri termini, secondo lui, noi non sappiamo se l’uomo sia in grado di peccare senza remissione. Il teologo di Basilea, che in definitiva non esitava a mettere in paradiso i peggiori criminali non pentiti, non venne seguito da colleghi ben più progressisti, come Edward Schillebeeckx OP, che per i peggiori peccatori vedeva la morte come la fine di tutto. Quanto a Gustave Martelet, questi ha preso a prestito da Jean Elluin «l’inferno chirurgico», sorta di super-purgatorio, che distruggerebbe nell’anima dei grandi peccatori l’intera parte malvagia della loro volontà e che lascerebbe, dopo una «divisione straziante», il piccolo residuo di buona volontà nella beatitudine.

La sbandata è stata del resto portata avanti o è comunque proseguita: «Che Dio mi perdoni, e la Santa Chiesa, se mi spingo troppo in là in queste ipotesi», scriveva il classicissimo ed iper-tomista Padre Marie-Joseph Nicolas OP nel suo Court traité de théologie [Breve trattato di teologia] (Desclée, 1990), che giunse a propendere verso le teorie dell’illuminazione post mortem, con un «momento metafisico» oltre la morte clinica, momento in cui l’anima sarebbe in grado di compiere un’ultima scelta nella luce totale. E persino giunse a propendere verso l’ipotesi di un possibile pentimento dei dannati, una «conversione dall’odio all’amore».

Ma se l’inferno è scomparso, il purgatorio non viene certo trattato molto meglio: i sacerdoti, che ne parlano ancora nelle omelie per i funerali, sono considerati «rigidi». Inoltre, i commenti e le prediche in occasione delle messe funebri, qualunque sia stata la vita del defunto, suppongono il suo «ingresso in cielo» immediato. La sepoltura diviene «incielante[5]». La visione soprannaturale del decesso come ritorno dell’anima del defunto presso il Giudice Divino sparisce a favore della celebrazione della vita terrena del morto. Spesso, è vero, sono le famiglie ad essere responsabili di tale apologia del defunto, ma ben pochi sono i sacerdoti che le frenano in questo approccio errato alle esequie, mentre molti sono quelli che le incoraggiano. Perciò non solo non si prega più per il riposo dell’anima dello scomparso, non si fanno dire messe per lui, né si ipotizza di chiedere per lui indulgenze, al fine d’abbreviargli il purgatorio. E qualora il defunto fosse stato praticante ed avesse professato la propria fede cattolica, a malapena gli si chiedono preghiere dall’alto del cielo.

Ci troviamo al cuore di una teologia liberale, in cui tutto si regge o piuttosto in cui tutto si disgrega. L’appartenenza alla Chiesa necessaria alla salvezza svanisce o, ciò ch’è poi la stessa cosa, si presume che esista in tutti: l’ecumenismo, con la sua «comunione imperfetta» con i separati ed il dialogo interreligioso con il suo «rispetto sincero» delle altre religioni, affermano in linea di principio che chiunque fa parte in qualche modo della Chiesa e ch’è in cammino verso la salvezza.

Allo stesso modo è stato cancellato l’orrore della frattura operata dal peccato, che impedisce l’unione con Cristo. Noi abbiamo avuto occasione di parlare [qui] di questa eresia ordinaria, che costituisce oggi la negazione del peccato originale[6]. In modo diretto o più confuso, la stragrande maggioranza dei teologi contemporanei nega il carattere storico del peccato originale, rifiutandosi di dire ch’è stato commesso dal padre dell’umanità un peccato di disobbedienza, che gli ha fatto perdere la grazia di Dio e i doni che l’accompagnavano, cosicché Adamo ha trasmesso una natura umana ferita all’intera sua discendenza. Questa relativizzazione della fede col peccato originale viene rafforzata dall’abbandono generalizzato della dottrina del limbo o, per essere più precisi, il fatto di affermare che i bambini morti senza battesimo prima dell’età della ragione possono comunque godere della visione beatifica[7].

È più complessivamente il peccato grave, il peccato mortale, ad essere non negato, bensì sentito come se non gettasse più l’anima in uno stato oggettivo di odio verso Dio. Sta di fatto che la vita di grazia dell’anima e la virtù della carità vengono generalizzate e per questo svalutate: se il peccato non esiste veramente, la vita divina nell’anima è solo un fuoco fatuo e l’amore che Dio stesso ci porta è poco geloso e senza esigenze, una caricatura.

Il messaggio morale si riduce ad un discorso vano, specialmente il messaggio morale coniugale, da Humanæ vitæ, che si considera come «profetico», vale a dire, di fatto, tale da indicare un ideale senza obbligarvi veramente, ad Amoris lætitia per coloro che, vivendo in pubblico adulterio, possono talvolta rimanervi senza commettere peccato grave (n. 301). Tale decadenza viene aggravata, a partire dall’immediato dopo-Concilio, dagli «abbandoni» numerosi di sacerdoti e religiosi, che furono e sono tutti scandali in senso stretto. L’abbandonare pubblicamente il celibato da parte di persone consacrate giustifica i fedeli laici, che fan tira-e-molla con la legge morale.

Non temere la paura dell’inferno
Jean de Viguerie aveva fortemente criticato la denominazione di «pastorale della paura» che Jean Delumeau applicava all’insegnamento ed alla predicazione dal Medioevo alla fine del XVIII secolo ed anche fino al Vaticano II. Secondo J. de Viguerie si trattava di un tema in voga tra i cristiani degli Anni Settanta, che appiattivano le proprie aspirazioni su di una storia religiosa ricostruita in maniera alquanto approssimativa[8]. Jean Delumeau ed i suoi seguaci «destoricizzano» (Sylvio Hermann De Franceschi) scritti, omelie, ecc., del passato, in altre parole li leggono secondo la propria morale contemporanea. In realtà, i dibattiti storici seri riguardano lo sviluppo del rigorismo giansenista e gallicano contrastato da una morale detta «gesuitica», molinista, alfonsiana.

Ora, è lo stesso Sant’Ignazio, che, nei suoi Esercizi spirituali, propone una meditazione su quella che è oggettivamente la più terrificante delle realtà, quella dell’inferno: «Io vedrò con gli occhi dell’immaginazione questi fuochi immensi e le anime dei reprobi come racchiuse in corpi di fuoco (n. 66). Sentirò, con l’aiuto dell’immaginazione, i gemiti, le grida, i clamori, le bestemmie contro Gesù Cristo Nostro Signore e contro tutti i Santi (n. 67). Io mi immaginerò di respirare il fumo, lo zolfo, l’odore di cloaca e di materiali in decomposizione (n. 68)». Prima offre la motivazione molto semplice ed equilibrata di questo esercizio ch’egli propone: «Chiederò di sentire interiormente le pene che soffrono i dannati, affinché, qualora le mie colpe mi facessero mai dimenticare l’amore dell’eterno Signore, almeno il timore delle pene mi aiuti a non cadere nel peccato (n. 65)».

Gli Esercizi spirituali ignaziani hanno come obiettivo quello di preparare alle scelte importanti, alle elezioni, soprattutto alla risposta ad una vocazione dopo il purificarsi dell’anima e l’avvampare della sua generosità in un contesto di indifferenza, cioè di un pieno abbandono alla volontà di Dio, che dovrà essere giustamente più sensibile alle mozioni con cui lo Spirito Santo interviene su quest’anima. È in questo processo generale che una «prima settimana», una prima tappa di un ritiro di 40 giorni è consacrata alla purificazione, secondo una struttura molto semplice, che fa meditare chi frequenti questo ritiro su due temi: quello dei peccati (peccato degli angeli, peccato originale, peccato mortale) e quello dell’inferno, meditazioni accompagnate da penitenze prudenti ma serie. Dopodiché chi compie gli esercizi potrà superare le tappe seguenti per ascoltare la chiamata del Signore Gesù, tutto meditando sulla sua vita, sulla sua Passione, sulla sua Resurrezione.

Questo schema di predicazione, spesso condensato in 8 giorni, è stato elaborato nel quadro del rinnovamento spirituale della cristianità, che ha seguito il Concilio di Trento. Molte altre tipologie di esercizi, sia ispirate da quelli di sant’Ignazio, sia da intenti paralleli, sono abbondantemente fiorite in quel periodo. Ad esempio, le missioni parrocchiali, sorta di ritiri destinati a raggiungere il più gran numero di fedeli ed a rinnovare il loro fervore. Hanno avuto un immenso sviluppo tra il XVII ed il XVIII secolo, ma anche nel XIX e fino alle soglie degli Anni Sessanta del XX secolo. Queste missioni cominciavano con un invito pressante alla purificazione, per mezzo di predicazioni sul senso dell’esistenza, sulla morte, sul peccato, sull’inferno, sul purgatorio, per portare a giornate di confessioni, spesso confessioni generali sull’intera vita, ciò che disponeva i partecipanti ad ascoltare nelle migliori condizioni d’animo le omelie sulla vita beata, sull’amore di Dio e del prossimo, sulla necessitò della preghiera, sulla pratica della messa e dei sacramenti, sui comandamenti di Dio e della Chiesa, sull’esercizio delle virtù, sul perdono delle offese, sulla riconciliazione con i propri nemici, ecc.

La condizione necessaria per un rinnovamento religioso consiste nel recupero di una predicazione di purificazione e d’impegno nella penitenza – ascesi di vita, confessione – attraverso esercizi o missioni in una forma adattata alle possibilità presenti, attraverso l’aiuto spirituale individuale – la direzione spirituale in tutte le sue forme – e soprattutto, più in generale, nella predicazione ordinaria, l’insegnamento del catechismo, la formazione dottrinale e spirituale.

I funerali offrono una possibilità particolarmente favorevole per sviluppare tale predicazione, anche ad un pubblico che ha mantenuto solo un tenue legame con la religione e che la morte di una persona cara può porre nelle disposizioni d’animo di maggiore ricettività. Non c’è bisogno di sottolineare come tale invito alla purificazione sia per natura propria eminentemente antimoderno.

Ci sembra che l’integrazione dei fini ultimi nella predicazione nel senso più ampio del termine – insegnamento parlato, predicato, scritto – sia tanto importante dal punto di vista della pastorale concreta, per la teologia che sottende, quanto girare l’altare nella liturgia. A questa inflessione della pastorale sono legati, tra l’altro, il senso del peccato, il rispetto della morale del matrimonio, la percezione della necessità di appartenere alla Chiesa, della necessità di «opere» (messe per i defunti, indulgenze), del battesimo dei bambini piccoli. Ciò sarà una riabilitazione della pastorale, nel senso autentico del termine, di una pastorale cattolica.
Don Claude Barthe
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[1] Guillaume Cuchet, Comment notre monde a cessé d’être chrétien. Anatomie d’un effondrement [Come il nostro mondo ha smesso di essere cristiano. Anatomia di un crollo], Seuil, 2018, pag. 266.
[2] Fayard, 1973.
[3] Parigi, Cerf, 1985.
[4] Épilogue, Culture et Vérité, 1997. Vedere anche: Sperare per tutti, Jaca Book, 1988; L’Enfer en question [L’inferno in questione], Desclée de Brouwer, 1988.
[5] Vedere Laurent Jestin, «Foi douteuse, espérance trop sûre d’elle-même. La dérive des funérailles chrétiennes» [«Fede incerta, speranza troppo sicura di sé stessa. La deriva dei funerali cristiani], Catholica, autunno 2007.
[6] Il magistero come un piumino – Res Novae – Perspectives romaines.
[7] Commissione teologica internazionale, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo, La Civiltà Cattolica, 4 maggio 2007.
[8] Recensione di Un chemin d’histoire. Chrétienté et christianisation [Un percorso storico. Cristianità e cristianizzazione] (Fayard, 1981) in Revue historique, aprile-giugno 1983, pagg. 497-498.

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