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lunedì 17 aprile 2023

Paolo Pasqualucci / Ricordo di S.E. Mons. Marcel Lefebvre, nel centenario della nascita

Pubblichiamo un articolo scritto dal Prof. Paolo Pasqualucci sotto pseudonimo per sisinono nel 2005, in occasione del centenario della nascita (1905-2005) di mons. Lefebvre. Estremamente utile per inquadrare ancora una volta le giuste coordinate storiche, giuridiche ma soprattutto teologiche e canoniche della complessa e sofferta vicenda spesso tutt'oggi misconosciute o fraintese in un contesto ostile o poco informato. Ci piace accostarlo alle recenti iniziative di Reggio Emilia di cui abbiamo riferito qui. Il professore ringrazia la Direzione di sisinono per aver autorizzato la pubblicazione del presente articolo.

Ricordo di S.E. Mons. Marcel Lefebvre,
nel centenario della nascita (1905 – 2005)

di Paolo Pasqualucci

Che cosa abbia rappresentato e rappresenti la lunga, tenace ed inflessibile battaglia condotta da Mons. Marcel Lefebvre in difesa del sacerdozio, della dottrina e della S. Messa di sempre, per i cattolici rimasti fedeli all’insegnamento tradizionale della Chiesa, che non possono accettare le “riforme” neo-moderniste introdotte con il Concilio ecumenico Vaticano II, cercheremo di ricordarlo ai nostri lettori attraverso le sue stesse parole, rievocando le quali, avremo modo di soffermarci anche sull’illegittima soppressione della Fraternità Sacerdotale S. Pio X, da lui fondata, avvenuta proprio trent’anni fa.

Fedeltà costante di Monsignor Lefebvre alla Chiesa e ai suoi capi
Il giorno 7 aprile del 1980, Monsignor Lefebvre tenne un’omelia in italiano nella Chiesa di S. Simeone Piccolo, a Venezia. Con la franchezza, la linearità e la chiarezza che ne caratterizzavano il modo di esprimersi, egli espose ai fedeli il senso complessivo della sua posizione e della “crociata” alla quale nello stesso tempo li chiamava.
“Forse alcuni di voi hanno dentro di loro dei dubbi. Possono chiedersi perché Mons. Lefebvre è venuto qui, a Venezia, senza essere stato invitato dal cardinale Cé. La mia presenza crea una situazione che, nella Chiesa, non è normale […] Mai, mai vorrei fare qualche cosa di contrario alla Chiesa! Tutta la mia vita è stata al suo servizio: nei 50 anni di sacerdozio, di cui 33 come vescovo, non ho fatto altro che servire la Chiesa come missionario, come vescovo in Francia, come superiore generale della Congregazione dello Spirito Santo e come vescovo missionario […] Dieci anni fa ho fondato quest’opera – La Fraternità Sacerdotale S. Pio X – con l’intento di voler sempre servire la Chiesa. Perché, dunque, il cardinale Cé, Patriarca di Venezia, non è contento della mia venuta e non ne capisce il motivo? Che posso dirvi? Evidentemente non è contento che continui l’opera svolta sin dal giorno della mia consacrazione sacerdotale. Non ho mai cambiato in niente, sia quando ho istituito nuovi seminari in Africa, sia quando ho visitato come delegato apostolico di S.S. Pio XII le 64 diocesi dell’Africa francese nel corso di undici anni.
Ho visitato tutti i seminari, assegnando ai vescovi diocesani anche le norme per i nuovi che venivano aperti. Non ho mai cambiato. Quello che la Chiesa ha detto nei concili di Trento e Vaticano I, non l’ho mai cambiato. Allora, chi ha cambiato? Io o il cardinale Cé? Non lo so, ma penso che considerando come vanno le cose, cioè i frutti del cambiamento avvenuto nella Chiesa a partire dal concilio Vaticano II, lo possiamo constatare coi nostri occhi di cattolici.
Potete vederlo. Come vanno oggi, le cose nella Chiesa? Chiedetelo a SE Mons. Pintonello, ex ordinario militare, che ha fatto un dettagliato rapporto sulle condizioni attuali dei seminari italiani: una catastrofe! Una vera catastrofe. Quanti seminari venduti o chiusi! Il seminario di Torino, 300 posti, è vuoto. E quanti altri ne vedete chiusi nelle vostre diocesi? Allora, sicuramente, qualcosa nella Chiesa non va perché se non vi sono più seminari, in futuro non ci saranno più sacerdoti, non ci sarà più Sacrificio della Messa. Che ne sarà della Chiesa? Tutto ciò è impossibile. Hanno cambiato, s¬ì, hanno cambiato, ma perché?”

La crisi nella Chiesa, provocata dal Concilio
“L’hanno fatto – continua l’omelia – certamente con l’idea di salvare la Chiesa, di fare qualche cosa di nuovo. Prima del Concilio c’era veramente una diminuzione di fervore e, allora, hanno pensato che, cambiando, forse la Chiesa sarebbe diventata più viva. Ma non si può cambiare ciò che Gesù Cristo ha istituito […] Dicono, anche, che la Chiesa deve cambiare, come cambia l’uomo moderno; dato che gli uomini hanno un altro modo di vita, anche la Chiesa deve avere un’altra dottrina, una nuova Messa, nuovi sacramenti, un nuovo catechismo, nuovi seminari…e così tutto è andato in rovina, tutto è stato rovinato! […] Da dove viene il catechismo olandese? Non certo da quello cattolico, benché sia approvato da cardinali e da vescovi. Pure il catechismo francese e italiano (che conosco), contengono errori: non è più la vera dottrina cattolica come è sempre stata insegnata. Si tratta di una gravissima situazione in atto.
In tutto il mondo – e posso dirlo perché ho viaggiato in tutto il mondo – ho visto gruppi di cattolici come i vostri chiedersi: “Cosa sta succedendo nella Chiesa?”. Non si sa più com’è la Chiesa cattolica oggi. Le cerimonie, il culto mezzo protestante e mezzo cattolico, sono un teatro; non è più un mistero, il mistero del Sacrificio della Messa, grande mistero, mistero sublime e celeste. Non si sente più la soprannaturalità della Messa e, chi vi assiste, prova un senso di vuoto e non sa più se ha partecipato ad una cerimonia cattolica o ad una cerimonia profana […] Per il bene della Chiesa dobbiamo resistere, senza essere contro chi detiene l’autorità. Mai.
Ho sempre avuto molto rispetto per il Santo Padre, per i vescovi e per i cardinali; non sono capace di pronunciare parole indegne nei confronti del vostro cardinale Cé, ma ciò non mi impedisce di affermare la dottrina cattolica perché voglio rimanere cattolico. Quando venni battezzato, il sacerdote domandò ai miei padrini: “Cosa chiede questo bambino alla Chiesa?”. Risposero: “La fede. Domanda alla Chiesa la fede”. Ed io, ancora oggi, chiedo alla Chiesa la fede e fino alla mia morte domanderò alla Chiesa la fede, la fede cattolica”.(1)

La riforma liturgica ha oscurato il significato fondamentale della S. Messa
Il mantenimento della S. Messa di rito romano antico, impropriamente detta tridentina, il cui canone risale ai tempi apostolici, ha giustamente rappresentato un autentico cavallo di battaglia di Monsignor Lefebvre, che non ha mai celebrato la messa del Novus Ordo, unitamente (bisogna ricordarlo) a SE Mons. De Castro Mayer, il vescovo brasiliano che lo ha sempre coraggiosamente affiancato, con la sua congregazione, nella dura battaglia in difesa del Deposito della fede. I due vescovi furono gli unici, tra i duecento e passa che in Concilio avevano lottato contro la maggioranza progressista, a continuare nella lotta dopo la fine della celebre assise.
“La Messa è un sacrificio, il Sacrificio della Croce e, come dice il concilio di Trento, è lo stesso sacrificio del Calvario; con la sola differenza che uno è cruento e l’altro no, ma tutto è uguale: lo stesso sacerdote, Gesù Cristo, e la stessa vittima, Gesù Cristo. Se veramente la vittima è Gesù Cristo-Dio, nostro Redentore, che ha versato tutto il suo sangue per le nostre anime, è impossibile prenderla tra le mani come un pezzo di pane qualunque”.(2)
Il significato e l’efficacia salvifica della S. Messa vanno perduti, se ci si allontana da quel rito, consacrato da una tradizione quasi bimillenaria, che ne garantisce la natura di sacrificio propiziatorio ed espiatorio, grazie al quale otteniamo divina misericordia per i nostri peccati e le grazie delle quali abbiamo bisogno.
Nell’omelia pronunziata a Parigi in occasione del suo Giubileo sacerdotale, il 23 settembre 1979, aveva detto. “Certamente conoscevo, per gli studi fatti, questo grande mistero della nostra fede, ma non ne avevo compreso tutto il valore, l’efficacia e la profondità. Ciò lo vissi giorno per giorno, anno per anno, in Africa e particolarmente nel Gabon dove trascorsi 13 anni della mia vita missionaria, prima nel seminario, poi nella savana, in mezzo agli africani, tra gli indigeni […] Quelle anime pagane, trasformate dalla grazia del battesimo, dall’assistenza alla Messa e dalla santa Eucaristia, comprendevano il mistero del Sacrificio della Croce e s’univano a Nostro Signore Gesù Cristo; nella sofferenza della sua Croce, offrivano i loro sacrifici e i loro patimenti con Nostro Signore Gesù Cristo, vivendo cristianamente […] Ho potuto vedere villaggi di pagani divenuti cristiani trasformarsi non solo spiritualmente e sovrannaturalmente, ma anche fisicamente, socialmente, economicamente, politicamente; trasformarsi perché quelle persone, da pagane che erano, diventavano coscienti della necessità di compiere il loro dovere malgrado le prove e i sacrifici, di mantenere i loro impegni e particolarmente gli obblighi del matrimonio. Allora il villaggio si trasformava poco alla volta sotto l’influenza della grazia e del santo Sacrificio della Messa; e tutti quei villaggi volevano avere la propria cappella e la visita del Padre. La visita del missionario! Come era attesa con impazienza per poter assistere alla santa Messa, potersi confessare e comunicare… Delle anime si consacravano a Dio; dei religiosi, delle religiose, dei sacerdoti si offrivano e si consacravano a Lui. Ecco i frutti della santa Messa.

La nozione di sacrificio
Perché tutto questo? Bisogna, infine, che studiamo un po’ i motivi profondi di questa trasformazione: è il Sacrificio. La nozione di sacrificio è una nozione profondamente cattolica. La nostra vita non può fare a meno del sacrificio da quando Nostro Signore Gesù Cristo, Dio stesso, ha voluto prendere un corpo come il nostro e dirci “Seguitemi. Prendete la vostra croce e seguitemi se volete essere salvati”, e ci ha dato l’esempio della sua morte in croce ed ha sparso il suo sangue. Oseremmo noi, sue povere creature, peccatori che siamo, non seguire Nostro Signore sulla via del suo sacrificio e della sua croce? 
Questo è tutto il mistero della civiltà cristiana, della civiltà cattolica: la comprensione del sacrificio nella propria vita, nella vita quotidiana, e l’intelligenza della sofferenza cristiana; non considerare più la sofferenza come un male, come un dolore insopportabile, ma condividere le proprie pene [spirituali] e malattie con le sofferenze di Nostro Signore Gesù Cristo, guardando la Croce, assistendo alla santa Messa che è la continuazione della passione di Nostro Signore sul Calvario”. (3)
Non sono vere queste parole? Non esprimono il significato autentico della S. Messa e della visione cristiana dell’esistenza? E come mai, per esser sicuri di ritrovarli, questi significati, dobbiamo rileggere le omelie pronunciate venticinque anni fa [nel 1979, oggi 44] da Mons. Lefebvre? Perché la gerarchia cattolica, oggi sotto l’influenza delle ideologie profane, parla molto più dei “diritti” (i “diritti umani”, come vengono chiamati) che del sacrificio, della croce che, durante la nostra vita terrena, se vogliamo salvarci, dobbiamo portare ed esser sempre pronti a portare, sull’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo, unico nostro vero modello. E tanto è refrattaria la Chiesa cosiddetta “conciliare” all’idea del sacrificio e della croce, tanto è imbevuta dell’ideologia profana dei “diritti umani” e dell’idea che grazie ad essi e al “dialogo” su di essi fondato con tutte le religioni del globo, si debba “costruire un mondo migliore”, una sorta di democrazia universale; tanto lo è, da aver provocato di fatto il mutamento del significato della S. Messa, intesa ora dai più – neanche fossimo ai Misteri di Eleusi - come una festa nella quale si celebra collettivamente la Risurrezione del Dio che incarnandosi ha già salvato tutto il mondo!

La ferma protesta di Monsignor Lefebvre contro l’illegittima soppressione del Seminario di Écône
Nell’omelia di Venezia, Monsignore così riassumeva la vicenda, allora relativamente recente, della soppressione della Fraternità da lui fondata. “Vado a Roma cinque-sei volte all’anno per supplicare i cardinali, il Papa stesso, di ritornare alla Tradizione, per ridare alla Chiesa la sua vita cattolica […] La mia Fraternità, infatti, è stata riconosciuta ufficialmente dieci anni fa da Roma e dal vescovo di Friburgo, in Isvizzera, nella cui diocesi è stata fondata. In seguito, vescovi progressisti e modernisti hanno visto nei miei seminari un pericolo per le loro teorie; si sono arrabbiati con me e si sono detti: bisogna distruggere questi seminari, bisogna finirla con Écône e con l’opera di Mons. Lefebvre perché pericolosi per il nostro piano progressista-rivoluzionario. Con il medesimo tono si sono espressi a Roma e Roma ha acconsentito.
Ma come ho detto a Sua Santità Giovanni Paolo II, la soppressione è stata fatta in un modo contrario al Diritto Canonico: neanche i soviet emettono giudizi come hanno fatto i cardinali a Roma per la mia opera. I soviet hanno un tribunale, una specie di tribunale per condannare qualcuno; ma io non ho avuto neanche questo tribunale, niente. Sono stato condannato senza avere niente, nemmeno un preavviso, una convocazione…niente. Un bel giorno è arrivata una lettera [il 6 maggio 1975, da parte dell’Ordinario locale, SE Mons. Mamie, arcivescovo di Friburgo, in Isvizzera] per dirmi che il seminario doveva essere chiuso”.(4)

La soppressione del seminario di Écône deve ritenersi invalida a tutti gli effetti
Trenta anni fa, su questo stesso periodico, appena fondato da Don Francesco Putti e del tutto autonomo (allora come oggi) dalla FSSPX, un documentato articolo metteva a nudo le diverse e gravi irregolarità della procedura posta in opera per colpire la suddetta Fraternità, inficiata in radice questa procedura dall’assenza dei “gravi motivi”, mai documentati perché ovviamente inesistenti, rappresentati dai “disordini morali”o dalle “deviazioni dottrinali”, richiesti dal diritto canonico per una misura coercitiva di tale gravità. “La chiusura di un seminario, dove venivano formati bene [per riconoscimento degli stessi organi competenti] più di 100 alunni, non poteva essere decretata per una dichiarazione del suo Superiore, disapprovata dalla Autorità ecclesiastica, anche se la disapprovazione fosse fondata e giusta [il 21 novembre del 1974, Mons. Lefebvre, che già aveva dichiarato ufficialmente nel 1971 il rifiuto del Novus Ordo Missae, indignato per le dichiarazioni alquanto eterodosse rilasciate ai suoi seminaristi da due visitatori apostolici (11-13 novembre 1974), aveva preso pubblicamente posizione contro le infiltrazioni “neomoderniste” nella Chiesa ufficiale – e ciò comportava un’implicita critica al Pontefice allora regnante, SS Paolo VI - proclamando la sua immutabile fedeltà all’insegnamento del Concilio di Trento] […] Molte volte sono stati destituiti i Superiori per una inaccettabile dichiarazione o per un grave atto di disubbidienza al Sommo Pontefice, ma mai chiusi i seminari, gl’istituti, per tale motivo […] E se qualche volta si è ritenuto che le idee sostenute dal fondatore o dal presente superiore esercitassero un malefico influsso sulla formazione degli alunni, si è provveduto con la nomina di un visitatore permanente”.(5)  L’articolo non si soffermava sulla questione della competenza dell’Ordinario nel caso di specie, questione che costituiva l’argomento-chiave del ricorso presentato immediatamente da Mons. Lefebvre al Tribunale della Segnatura Apostolica e dichiarato da quest’ultimo irricevibile, nel quale, per quanto concerneva la competenza, si eccepiva l’invalidità intrinseca del provvedimento e quindi la sua nullità radicale, a tutti gli effetti, a causa dell’incompetenza e dell’Ordinario locale ad emanarlo e della “commissione cardinalizia” di cui sopra a giudicare il ricorrente in materia di fede.

L’effettiva natura giuridica della FSSPX
Sul punto capitale dell’incompetenza di Mons. Mamie, ci sia permesso di fare qualche considerazione. La FSSPX, come risultava dai suoi statuti e dall’attività svolta, ad essi perfettamente coerente, era una società di vita in comune senza voti (pubblici) il cui fine era costituito dalla formazione sacerdotale secondo i princìpi tradizionali della Chiesa, princìpi che richiedevano, tra l’altro, il mantenimento della S. Messa tridentina. Queste “società”, nel diritto canonico allora vigente (CIC, 1917) erano considerate congregazioni in senso lato, rispetto a quelle “in senso stretto”, ricomprese, queste ultime, assieme agli ordini, nelle religioni, i cui membri facevano vita in comune e professavano pubblicamente i tre voti di castità, povertà, obbedienza, voti che potevano essere solenni (rendevano ipso iure invalido l’atto compiuto in loro violazione) o semplici (rendevano illecito ma non invalido il medesimo atto).(6)
L’esistenza delle società di vita in comune senza voti si svolgeva “ad imitazione di quella delle religioni, pur senza averne i rigidi vincoli, e per scopi analoghi, ossia per conseguire una maggiore perfezione spirituale ed anche per compiere opere di carità cristiana o svolgere apostolato religioso o sociale. Più propriamente esse si avvicinano alle congregazioni religiose, con le quali talora esteriormente si confondono. Il codice ne riconosce l’esistenza, in quanto i membri (sodales) di tali società – che possono essere tanto maschili che femminili – vivono in comune, sotto il governo di superiori e secondo proprie costituzioni, approvate debitamente, ma senza pronunciare i tre consueti voti pubblici. Tali società, come dice espressamente il codice, non sono propriamente religioni, né i loro membri possono propriamente qualificarsi religiosi, però si distinguono, al pari delle religioni, in clericali e laicali [se la maggioranza non risulta composta di sacerdoti], e in società di diritto pontificio e di diritto diocesano, e sono soggette, in ordine alla loro erezione e soppressione, alle norme vigenti per le congregazioni, nonché in genere per analogia, e per quanto possibile, alle norme del diritto comune relative a queste […] Le denominazioni specifiche che queste società sogliono assumere in pratica (oratori, ritiri, beghinaggi, conservatori, pie società etc.) non sono soggette a norme precise.”(7)
Nella prassi la terminologia era piuttosto elastica. Ma ciò che conta, ai fini del nostro discorso, è la disciplina allora vigente per l’erezione e la soppressione (evento quest’ultimo piuttosto raro) delle società in questione, che era in sostanza quella delle religioni. Le religiones si distinguevano (ex can. 488. 3°, CIC 1917) in religioni di diritto pontificio, se avevano ottenuto l’approvazione o almeno il decreto di lode della S. Sede o di diritto diocesano se, erette dal vescovo, non avevano ancora ottenuto il decreto di lode.(8)  Il c. 492, § 2 del CIC stabiliva poi che una Congregazione di diritto diocesano, anche se “diffusa in più diocesi”, rimaneva di diritto diocesano, cioè sottoposta al vescovo della diocesi, fintantoché non avesse ricevuto “l’approvazione pontificia o il decreto di lode”. Tuttavia la sua soppressione, “una volta fondata legittimamente”, era riservata alla S. Sede: supprimi nequit nisi a Sancta Sede (c. 493). In tal modo, il diritto canonico introduceva delle limitazioni al potere del vescovo, alla cui giurisdizione la congregazione era sottoposta.(9) Questa norma ha giocato un ruolo fondamentale nella vicenda della soppressione della Fraternità, dato che la disciplina dell’erezione e della soppressione delle religioni era espressamente estesa dal c. 674 alle società di vita in comune senza voti, dette per l’appunto nell’elastica terminologia del tempo anch’esse congregazioni
La FSSPX era stata regolarmente costituita dal predecessore di Mons. Mamie, SE Mons. Charrière, che ne approvò formalmente gli statuti il primo di novembre del 1970. Perciò, essendo regolarmente costituita secondo il diritto, Mons. Mamie avrebbe potuto sopprimerla solo con un’autorizzazione espressa da parte del Papa, una sorta di delega di poteri. Ma una simile autorizzazione non risulta esserci stata. Né risulta che il pontefice allora regnante, SS Paolo VI, abbia approvato in forma specifica tutta la procedura, ampiamente irregolare, che si concluse con la lettera di soppressione della FSSPX. Tale approvazione, che deve essere formale, espressa, avrebbe sanato ogni possibile irregolarità e abuso, a meno che non fossero state violate la legge naturale o divina. E difatti, il Tribunale della Segnatura Apostolica dichiarò irricevibile il ricorso di Mons. Lefebvre adducendo proprio l’argomento della approvazione specifica da parte del Papa del provvedimento impugnato, adducendo cioè un fatto la cui esistenza non è mai stata provata.

Società di vita in comune senza voti o pia unio?
Il fatto è che Mons. Charrière, nel concedere la sua autorizzazione “osservate tutte le prescrizioni canoniche”, eresse la FSSPX “a titolo di pia unio [au titre dePia Unio’]”non a titolo di “società di vita in comune senza voti” (vulgo, “congregazione”, come risulta dall’art. 1 dello Statuto della stessa: “société sacerdotale de vie commune sans voeux”)”. Allora, aveva forse ragione Mons. Mamie, dal momento che, per la soppressione di una “pia unio” non eretta dalla S. Sede ed operante nella diocesi, era competente l’Ordinario locale, senza bisogno di autorizzazione pontificia ad hoc, fatto sempre salvo il diritto a ricorrere contro il provvedimento presso il Tribunale della Segnatura Apostolica? Ma cos’era una pia unione? Gli istituti dei quali ci stiamo qui sinteticamente occupando, appartengono ormai alla storia del diritto canonico poiché il nuovo CIC, quello del 1983, ne ha modificato in parte la disciplina, innovando anche nella terminologia. Non è perciò facile farsene oggi un’idea precisa.
Le pie unioni, come i terzi ordini secolari, le confraternite, erano associazioni tradizionalmente costituite da fedeli laici, alle quali potevano ovviamente partecipare anche chierici e religiosi. I fedeli che le componevano, non avendo né il vincolo dei voti né quello derivante dal “collegamento organico e duraturo con l’associazione” (ossia la vita in comune), vivevano nel secolo “intenti alle loro normali occupazioni” pur proponendosi di compiere “speciali opere” di pietà e carità per un fine soprannaturale. Un esempio famoso di pia unione era costituito dall’Azione Cattolica, un altro dalle Congregazioni Mariane, le quali ultime, nonostante il nome, erano associazioni di laici che si proponevano di svolgere opera di apostolato, diffondendo in particolare il culto della SS.ma Vergine (p.e. con le Figlie di Maria).(11)
La FSSPX doveva forse ritenersi una “pia unio” alla stessa maniera dell’Azione Cattolica e delle Figlie di Maria? Sicuramente no. La sua intrinseca natura giuridica, come si è visto, era quella di una società di vita in comune senza voti, equiparata alle congregazioni in senso stretto. Come spiegare, allora, che sia nata con l’etichetta della “pia unio”? Il termine deve evidentemente intendersi in senso tecnico. Il suo impiego mostrerebbe l’adozione di quella che doveva essere una prassi consolidata dei vescovi. Poiché ci doveva essere sempre un periodo di prova (rinnovabile) di alcuni anni, in genere sei, prima di giungere alla approbatio definitiva, si cominciava con l’erigere “a titolo di pia unio” la società che si sarebbe poi trasformata in congregazione. Quando questo titolo non corrispondeva alla natura ed all’attività effettiva dell’ente, di un ente cioè che, venuto in essere come effettiva pia unio (composta nell’occasione in prevalenza di chierici) si fosse poi trasformato in società di vita in comune senza voti, allora ci si trovava in presenza, bisogna dire, di una finzione giuridica, la quale presentava il vantaggio, per l’Ordinario, di una maggiore libertà d’azione nei confronti della S. Sede, dato che l’erezione di un ente “a titolo di pia unio” non era vincolata ad un nulla osta preventivo della S. Sede, obbligatorio invece per le congregazioni (c. 492 § 1). E in questo caso, decidendosi per avventura la soppressione dell’ente, cosa si veniva ad estinguere, la formale pia unione di cui al “titolo” (e allora la competenza dell’Ordinario era indiscutibile) (12) o la concreta società di vita in comune senza voti? Siamo tra coloro che ritengono dover, in certi casi, l’ordinamento giuridico concreto prevalere nei confronti di quello formale, soprattutto quando esso è puramente formale. E siamo convinti che questo modo di sentire sia conforme allo spirito del diritto canonico. È l’ente nella sua effettiva concretezza istituzionale, è ciò che esso è secondo i suoi statuti, confermati dall’effettivo comportamento tenuto, è questo ente che l’autorità decide ad un certo punto di sopprimere. La risposta al quesito di cui sopra ci sembra pertanto ovvia. La FSSPX ha operato sin dall’inizio della sua esistenza come congregazione a tutti gli effetti, non c’è stato un periodo cosiddetto preliminare nel quale i suoi membri abbiano vissuto senza professare i voti, senza praticare la vita in comune, senza osservare l’obbligo di conformare ogni loro azione giornaliera al dettato degli statuti.

Due riscontri di fatto alla tesi qui sostenuta
Una riprova del fatto che la FSSPX è sempre stata considerata una società di vita in comune senza voti, si ha, secondo noi, anche da altri due fatti. Nel periodo 1971-1975, la Santa Sede permise che tre sacerdoti esterni alla Fraternità vi potessero essere incardinati canonicamente, con regolari lettere dimissoriali.(13)  Ciò dimostra che la Fraternità era ritenuta una congregazione e non una pia unio. Inoltre, nel protocollo di accordo tra la FSSPX e la S. Sede, firmato da entrambe le parti il 5 maggio 1988, protocollo che poi, come è noto, non ebbe seguito alcuno, là ove si trattava delle “questioni giuridiche” da regolare, si affermò : “Tenendo conto del fatto che la Fraternità etc. è stata concepita da 18 anni come una società di vita in comune […] la figura canonica più idonea [al suo inquadramento secondo il nuovo Codice ] è quella di una Società di vita apostolica”.(14)   Si noti bene: il fatto della sua erezione “a titolo di ‘Pia unio’” è consegnato all’oblìo, con ogni evidenza perché irrilevante ai fini della determinazione della natura giuridica specifica della Fraternità stessa.
Queste affermazioni sono state all’epoca sottoscritte dal cardinale Ratzinger. Ciò significava che la S. Sede non aveva nulla da obiettare all’affermazione che la Fraternità “era stata concepita per 18 anni [e quindi fin dall’atto della sua costituzione] come società di vita in comune [senza voti pubblici]”. Il regime giuridico per essa previsto dal protocollo d’intesa, in conformità alla disciplina del nuovo CIC, era quello della “società di vita apostolica”. Ebbene, queste societates vitae apostolicae sono proprio, mutatis mutandis, le eredi dirette, come è noto, delle societates in communi viventium sine votibus, del precedente codice. “Anche nel CIC del 1917 (c. 673-681) queste società [di vita apostolica] avevano ricevuto dal legislatore un trattamento, ugualmente sotto la denominazione di società di vita in comune senza voti. È evidente dunque nel legislatore di ieri e di oggi la volontà di escluderle dalla categoria dei religiosi in senso stretto […] Ciò tuttavia non impedisce che siano considerate [da parte del codice stesso] come simili agli istituti di vita consacrata [è la nuova denominazione delle religioni] sia perché vivono in vita comune, sia perché professano i voti religiosi, sia perché osservano le costituzioni [i loro statuti]”.(15)
Poiché la FSSPX era una societas di vita in comune senza voti, l’esser inquadrata nella figura giuridica della societas vitae apostolicae del nuovo codice, costituiva come il suo sbocco naturale entro il nuovo ordinamento, sbocco nei confronti del quale nessuno sollevava obiezioni. Dal protocollo d’intesa del 5 maggio 1988 si ricava dunque, a nostro avviso, una autorevole conferma post festum della vera natura giuridica della Fraternità, che non è e non è mai stata quella della pia unio. Le “pie unioni” sono scomparse dal nuovo codice, in quanto categoria autonoma. Esse sono ricomprese nel dettato generale del c. 304 sulle “consociationibus christifidelium”, sulle “consociazioni” o “associazioni” di fedeli, pubbliche o private, “con qualunque titolo siano chiamate”. Delle vecchie associazioni di fedeli, solo i Terzi Ordini sono stati mantenuti come figura autonoma, al c. 303.

Il senso autenticamente religioso della “crociata” invocata da Mons. Lefebvre
Come è noto, Monsignor Lefebvre non si piegò all’ingiustizia subita, si rifiutò di chiudere il suo seminario (a tutt’oggi ben vivo e vegeto) e procedette con le ordinazioni sacerdotali già previste per il 29 giugno 1975. Fu perciò sospeso a divinis. Quale valore si deve attribuire a questa “sospensione”? Crediamo di non offendere nessuno, con l’affermare che essa debba ritenersi impugnabile per mancanza di presupposti legittimi, in quanto comminata sulla base di un atto che configurava un abuso di potere da parte dell’autorità, e in ogni caso invalida perché la disobbedienza di Mons. Lefebvre non era punibile, in quanto provocata dallo stato di necessità nel quale egli si era venuto di colpo ed ingiustamente a trovare.
Ma a Mons. Lefebvre è capitato anche di peggio, come sappiamo, nel 1988, con la scomunica che l’etichettava come “scismatico”, inflittagli per aver egli ordinato quattro vescovi come suoi successori alla guida della FSSPX, disattendendo la volontà del Pontefice allora regnante, che lo aveva invitato a soprassedere, a continuare i negoziati da qualche tempo in corso con la S. Sede circa la scelta del suo o dei suoi successori. Sulla questione della scomunica e del supposto “scisma” di Mons. Lefebvre, questo periodico si è già pronunciato con due studi ad hoc, apparsi alcuni anni fa.(16)   Ci sembra pertanto inutile ritornare sull’argomento. Siamo tra coloro che ritengono aver Mons. Lefebvre agito sempre con la massima buona fede. Siamo certi, tutto il suo comportamento lo dimostra, che egli abbia preso la sua decisione convinto di trovarsi in stato di necessità, a causa delle reticenze e delle ambiguità che si notavano e si protraevano nella controparte vaticana, circa il modo e i tempi della scelta dei successori.(17)   Scomunica invalida, dunque, perché esclusa espressamente dal CIC del 1983 quale punizione da infliggersi ad una disobbedienza motivata da una simile convinzione e scisma inesistente, perché i fatti dimostrano che mai Mons. Lefebvre ha voluto istituire una chiesa parallela, né l’hanno voluto i quattro vescovi da lui consacrati. La FSSPX deve ritenersi a tutt’oggi membro a pieno diritto della Chiesa militante, dalla quale nessuno può essere ovviamente escluso con provvedimenti invalidi.
La “crociata” alla quale Mons. Lefebvre invitava i cattolici non era pertanto quella di un sacerdote ribelle all’insegnamento della Chiesa, accusato poi addirittura di scisma!
“Cosa dobbiamo fare? Miei cari fratelli, sì, approfondiamo questo grande mistero della Messa. Ebbene! Penso di poter affermare che dobbiamo fare UNA CROCIATA basata sul santo Sacrificio della Messa, sul sangue di Nostro Signore Gesù Cristo […] Dobbiamo fare una crociata, una crociata fondata, precisamente, su queste nozioni di sempre, di sacrificio, per restaurare la cristianità; rifare una cristianità con gli stessi principi, lo stesso sacrificio della Messa, gli stessi sacramenti, lo stesso catechismo, la stessa Bibbia. Dobbiamo ricreare questa cristianità […] Non lasciamoci allettare da tutte le idee mondane, da tutte le correnti del mondo che trascinano verso il peccato e l’inferno. Se vogliamo andare in Cielo, dobbiamo seguire Nostro Signore Gesù Cristo, portare la nostra croce e seguire Nostro Signore Gesù Cristo; imitarlo nella sua Croce, nella sua sofferenza, nel suo sacrificio […] Bisogna confidare nella grazia di Nostro Signore: è onnipotente. Ho visto la sua grazia operare in Africa, non c’è alcuna ragione perché non sia così attiva anche da noi, nel nostro paese [la Francia]. Ecco quanto volevo dirvi. E voi, cari sacerdoti che m’ascoltate, stringetevi in una profonda unione sacerdotale per diffondere e animare questa crociata affinché Gesù regni, Nostro Signore regni. E per ciò dovete essere santi, dovete cercare la santità, mostrare la santità, la grazia che opera nelle vostre anime e nei vostri cuori, questa grazia che ricevete mediante il sacramento dell’Eucarestia e la santa Messa che offrite. Voi soli potete offrirla! […] Mantenete la Messa di sempre! E vedrete la civiltà cristiana rifiorire, civiltà che non è per questo mondo, ma civiltà che conduce alla città cattolica, e questa città cattolica prepara la città cattolica del Cielo”.(18)
Bisogna ricreare, con la fede, l’esempio e la predicazione, uno spirito di crociata per ristabilire l’autentica Messa cattolica, che ci fa amare la Croce. “Allora, siamo crociati! Amiamo la croce, seguiamo le buone tradizioni di tutti coloro che ci hanno preceduto nel combattimento spirituale contro il demonio, contro il peccato, contro tutte le occasioni di peccato, contro tutti gli scandali”.(19) E Mons. Lefebvre così concludeva la sua omelia di Venezia: “Termino chiedendo a voi tutti di stare riuniti intorno all’altare, al vero altare, con un vero sacerdote, per continuare il Sacrificio della Messa”.(20) E per concludere questo nostro Ricordo, sul piano più strettamente culturale, citiamo dalla Prefazione alla seconda edizione della Lettera aperta ai cattolici perplessi: “Di conseguenza, i richiami di quest’opera che si batte per il ritorno alla Tradizione, si trasformano in esigenze sempre più urgenti a battersi per l’onore di Dio, per il regno di Gesù Cristo, per la difesa della Chiesa, per la salvezza delle anime. È un’autentica crociata che bisogna suscitare, per far sì che i nemici annidati in seno alla Chiesa si convertano o vengano confutati, permettendo così il ritorno del Regno universale di Gesù e Maria”.(21)
Questo appello alla difesa senza compromessi del dogma della fede con le armi della confutazione razionale e documentata degli errori, appello nel quale noi abbiamo sentito la voce della S. Chiesa perenne, l’abbiamo sempre fatto nostro, cercando di rispondervi, con l’aiuto di Dio, per quanto è nelle nostre limitate capacità. E riteniamo quest’appello ancora del tutto attuale, dal momento che la grave crisi che da almeno quarant’anni [diventati oggi sessanta] imperversa nella Chiesa, è ben lungi dall’esser superata.
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1. SE Mons. Marcel Lefebvre, Omelia di Venezia, Chiesa di S. Simeone Piccolo, 7 aprile 1980, in ID., La Crociata di SE Mons. Marcel Lefebvre, raccolta di tre omelie dello stesso, a cura della FSSPX, s.d., pp. 29-38, pp. 30-34. I testi conservano lo stile parlato, con qualche ritocco lessicale per l’omelia in italiano.
2. Omelia di Venezia, cit., in La Crociata, cit., p. 34.
3. Giubileo sacerdotale, in La crociata, cit., pp. 4-18. pp. 6-8. Corsivi nostri.
4. Omelia di Venezia, in op. cit., pp. 35-6. Il seminario doveva essere chiuso immediatamente. 5. Vedi: Sì sì no no, I (1975), n. 9: In merito alla chiusura del Seminario di Écône della Fraternità Sacerdotale di San Pio X: Illegalità di un procedimento – iniquità di un provvedimento, pp. 4-5, di Ulpianus. Si trattava di mons. Arturo de Jorio, giudice del Tribunale della Sacra Rota. La lettera con la quale si sopprimeva con effetto immediato il seminario, ritirando l’autorizzazione all’esistenza della FSSPX, era stata preceduta da una convocazione informale a Roma di Mons. Lefebvre di fronte a tre cardinali per un semplice “scambio di idee”; di fronte ad una commissione informale (illegale per varie ragioni, come dimostrava l’articolo, se costituita ed operante come tribunale) che lo aveva duramente rimproverato per la sua dichiarazione del 21 novembre 1974, accusandolo, secondo quanto da lui stesso dichiarato, di “voler fare l’Attanasio” (il vescovo che praticamente da solo aveva iniziato la lotta contro l’eresia ariana, nel IV secolo, venendo ingiustamente scomunicato per ben due volte). La lettera di Mons. Mamie faceva riferimento all’autorità di questa “commissione cardinalizia”, per giustificare il proprio operato, dichiarando di agire “in pieno accordo” (en plein accord ) con la S. Sede, dichiarazione che non dimostra, come tale, l’esistenza di un’autorizzazione specifica (del resto, mai prodotta) conferita, quindi, nelle forme richieste dal diritto canonico, 6. Questi dettagli dell’istituto della società di vita in comune senza voti, li abbiamo tratti principalmente da : A. Bertola, La Costituzione della Chiesa, corso di diritto canonico, Torino, 1958, 3a ediz. rived. e ampliata; Eichmann-Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts [Manuale di diritto canonico], 1964, 11a ediz., München, Paderborn, Wien, I vol, seconda e terza parte. 7. Bertola, op. cit., pp. 240-1. Corsivi nostri. 8. Op. cit., p. 212. 9. Eichmann-Mörsdorf, cit., p. 493. 10. Statuts de la Fraternité des Apôtres de Jésus et Marie ou (selon le titre public) de la Fraternité Sacerdotale Saint Pie X, pp. V-VI e p. 3 (non numerata). 11. Per i dettagli dell’ istituto della pia unio, vedi: V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, Giuffré, Milano, 1970, 12a ediz. rifatta e aggiornata con la collaborazione del prof. Catalano, pp. 276-9. 12. Sul punto: Bernard Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre, une vie, Clovis, 2002, p. 508. SE Mons. Tissier de Mallerais, in quest’opera fondamentale per la comprensione della figura di Mons. Lefebvre, ritiene giuridicamente (anche se non moralmente) legittima la soppressione della FSSPX da parte di Mons. Mamie: “Le 25 avril en effet, le cardinal Tabera [uno dei componenti la “commissione cardinalizia” di cui sopra] assure Mgr Mamie qu’il “possède l’autorité nécessaire pour retirer les actes et concessions” de son prédécesseur. C’est bien exact, hélas! La Fraternité, n’ayant même pas reçu le Nihil obstat de Rome, n’est pas devenue société de droit diocésain, mais en est restée au stade préliminaire de pia unio. L’évêque peut donc la dissoudre (cfr. canon 492, § 1-2, et 493) pour une raison grave. Raison grave, la “declaration” [del 21 novembre 1974 sopra citata] l’est devant les hommes en place, même si elle ne l’est pas devant Dieu”. Vedi anche alle pp. 459-460, ove si rivela che il ricorso alla formula della “pia unio” fu suggerito da autorevoli porporati amici di Mons. Lefebvre. In tal modo, aggiungiamo noi, si evitava di dover dipendere dall’autorizzazione preventiva della S. Sede (non richiesta per le pie unioni – c. 708 : sufficit Ordinarii approbatio), presso la quale S. Sede, Mons. Lefebvre aveva al tempo potenti nemici. Ma, osserviamo, l’erezione “a titolo di pia unio” non trasformava la FSSPX in una pia unio, non la faceva essere qualcosa di diverso da ciò che era, si limitava ad appiccicarle un’etichetta non corrispondente al contenuto, per ragioni di opportunità perfettamente comprensibili, imposte dalla situazione a chi, nella Gerarchia, a fronte della grave crisi nella quale si trovavano i seminari investiti dalle “riforme” promosse dal Vaticano II, si preoccupava di farne sorgere uno fedele all’insegnamento tradizionale. 13. A Rome and Écône Handbook, Q2.
14. Il testo in Cor Unum, n. 30, giugno 1988, p. 31. Corsivi nostri.
15. Commento al CIC del 1983, a cura di Mons. Pio Vito Pinto, Pontificia Università Urbaniana, 1985, p. 462.
16. Le consacrazioni episcopali di Sua Ecc.za Mons. Lefebvre doverose nonostante il “no” del Papa. Studio teologico, di Hirpinus, Sì sì no no, 1999 (XXV) nn. 1-2; Una scomunica invalida – uno scisma inesistente. Riflessioni a dieci anni dalle consacrazioni di Écône. Studio canonico, di Causidicus, ibidem, nn. 3-9.
17. Un’esposizione accurata ed imparziale delle vicende che hanno portato alla consacrazione dei quattro vescovi di Écône, è offerta da Bernard Tissier de Mallerais, op. cit., pp. 557-595.
18. Omelia per il Giubileo sacerdotale, cit., in La crociata. cit., pp. 13-18. Corsivi nostri.
19. Omelia pasquale tenuta ad Écône il 6 aprile 1980, in La Crociata, cit.,pp. 22-28, p. 27.
20. Omelia di Venezia, in op. cit., p. 37.
21. Mons. Lefebvre, Lettera aperta ai cattolici perplessi, tr. it. a cura della FSSPX, Spadarolo-Rimini, 19 [pubblicato su sì sì no no, n. 20, nov 2005, XXXI, pp. 2-4, con la firma di “Canonicus”]

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