Sintetizzo in un'unica pubblicazione, per comodità di lettura, l'intervento che segue, in quattro parti, di don Curzio Nitoglia sui Novissimi, un tema di cui i sacerdoti parlano sempre meno, quando non ne parlano affatto. Si tratta delle “cose ultime”: la morte, il giudizio (universale e particolare), l’Inferno e il Paradiso. Concetti che nelle prediche talvolta emergono; ma in maniera incompleta e (almeno in parte) distorta. Precedenti qui - qui - qui - qui - qui.
I novissimi: l’anima umana e l’aldilà
Parte prima
La mala morte
La conversione in extremis come regola o come eccezione?
Cos’è l’impenitenza finale?
Psiche: personificazione dell'anima |
Al contrario, l’impenitenza finale è la coincidenza della morte con la privazione della grazia santificante, quando si ha la sventura di morire senza volersi pentire del mal fatto, nello stato di rivolta contro Dio, senza alcun dolore di aver offeso Iddio.
L’impenitenza della volontà per principio (non solo “di fatto”, ossia la mancanza del pentimento che può durare un certo lasso di tempo, che poi lascia il posto al dolore del peccato) è la ferma risoluzione della volontà di non volersi mai pentire dei peccati commessi neppure in punto di morte.
Tuttavia, se l’anima arriva all’incontro con la morte nello stato d’impenitenza di fatto, essa diventa impenitenza di diritto o per principio o finale.
Qualche volta, ma non sempre, Dio per sua pura misericordia, preserva un’anima che vive abitualmente nel male, dal giungere all’impenitenza finale, ma questa è l’eccezione che conferma la regola (cfr. S. AMBROGIO, De paenitentia, c. X – XII; S. GEROLAMO, Epist. 147 ad Sabinianum; S. AGOSTINO, Sermo 351; S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Nove omelie sulla penitenza; S. BERNARDO DI CHIARAVALLE, De conversione).
L’Aquinate (S. Th., III, q. 86, a. 1) spiega che il peccato diventa irremissibile o imperdonabile quando non ci si può più pentire di esso, cioè dopo la morte; ora i viventi non hanno la volontà fissata nel male, come invece i diavoli; mentre, la volontà dei vivi è ancora flessibile verso il bene o il male; perciò, i viventi possono sempre pentirsi dei loro peccati. Siccome la misericordia di Dio è infinita, se ci si pente del peccato, si ottiene sempre il perdono. Perciò, ogni peccato può essere cancellato col dolore e la confessione.
Purtroppo, i teologi neo/modernisti illudono le anime e dicono che Dio dà a tutti un’illuminazione speciale, appena dopo la loro morte, con la quale mostra loro le pene dell’inferno e la gloria del cielo e lascia l’anima libera di scegliere l’uno o l’altro. Ora, ciò è palesemente falso, poiché dopo la morte non si può più meritare.
«La morte è il termine non solo della vita terrena, ma anche del tempo utile per meritare. Infatti, Cristo parlando della morte la chiama “notte in cui nessuno può più operare” (Giov., IX, 4). Inoltre san Paolo (Ebr., IX, 27) scrive: “È stabilito che gli uomini muoiano una volta, dopo di che c’è il giudizio”; ora, il giudizio decide della sorte dell’uomo definitivamente e irremovibilmente. Questa verità sviluppata ampiamente dalla Tradizione, e anche se non è definita solennemente, è insegnata dal Magistero Ordinario della Chiesa (DB, 530 ss. e 693). La Chiesa, condannando l’origenismo, ha negato la possibilità di una redenzione finale dopo la morte. Inoltre la teoria recente della “illuminazione degli agonizzanti” sostiene che l’anima dopo la morte clinica che non è ancora la morte reale, ossia la separazione definitiva dell’anima dal corpo, potrebbe ancora ricevere una grazia d’illuminazione da Dio e convertirsi. Questa teoria dilaterebbe di molto la via della salvezza, ma non ha trovato favore nella Chiesa, anzi è stata condannata (cfr. A. MICHEL, Mort, in DThC; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentes, L. IV, c. 95)» (A. PIOLANTI, De Novissimis, Torino, Marietti, 1943, p. 2 ss.).
«La Chiesa ha insegnato più volte, senza definire solennemente, che le anime giuste, e pienamente purificate sùbito sono ricevute (mox) in cielo; le anime macchiate dal peccato mortale sùbito (mox) vengono precipitate nell’inferno (Concilio di Lione, professione di Fede di Michele Paleologo, DB, 464; papa Benedetto XII, costituzione dogmatica Benedictus Deus, DB, 530-531; Concilio di Firenze, decreto di unione con i Greci, DB, 693). In questa dottrina, insegnata ripetutamente dalla Chiesa, anche se non definita infallibilmente, è affermato implicitamente che tutte le anime, sùbito dopo la morte subiscono il giudizio particolare con il quale viene loro assegnato il premio o il castigo» (A. PIOLANTI, De Novissimis, Torino, Marietti, 1943; ID., Giudizio divino, in Enciclopedia Cattolica, vol. VI, col. 727 ss.).
Ciò nonostante, alcune volte, Dio vuole permettere che uno dei suoi santi risusciti un morto nel peccato grave, affinché possa pentirsi e salvarsi l’anima, che altrimenti sarebbe stata dannata per l’eternità, ma questa è l’eccezione e non la regola.
L’impenitenza finale voluta per principio, deliberatamente e freddamente, è non soltanto un peccato di malizia ma è una “bestemmia contro lo Spirito Santo” (S. Th., II – II, q. 14), che offende direttamente l’Amore divino che potrebbe aiutare l’uomo a rialzarsi dalla sua miseria.
San Tommaso d’Aquino insegna che la “bestemmia contro lo Spirito Santo” non consiste soltanto nel proferire parole offensive contro Dio, ma anche nel peccare con malizia pienamente e freddamente voluta; ossia, volendo scientemente il male e rifiutando tutto ciò che possa distogliere dal peccato (q. 14, a. 1).
Inoltre, l’Angelico aggiunge che sebbene l’impenitenza finale sia di per sé imperdonabile e irrimediabile, tuttavia, se interviene un miracolo eccezionale della divina misericordia, allora il peccatore indurito può lasciare il male e convertirsi al Signore (q. 14, a. 3).
È necessario pentirsi sùbito del male commesso, altrimenti si precipita nell’impenitenza finale, dopo aver commesso molti altri peccati che accelerano la caduta nella mala morte. Infatti, se non teniamo conto della divina misericordia domandandole perdono e soccorso, piomberà su di noi la divina giustizia. Il Dottor Comune spiega che, se l’uomo si trova nello stato di peccato grave, la sua fragilità a resistere alle tentazioni di peccare mortalmente è talmente grave, che non può restare molto tempo in questo stato, senza commettere altri peccati mortali (S. Th., I – II, q. 109, a. 8).
Talvolta, la misericordia onnipotente di Dio, converte all’ultimo istante dei peccatori incalliti (come il buon ladrone), che avevano voluto restare nello stato di odio contro Dio sino alla fine.
Uscire dall’impenitenza voluta è difficile ma non è impossibile
Si può essere sorpresi da una morte imprevista e improvvisa. In questo caso si tratta d’impenitenza finale “di fatto”, ma senza la volontà per principio di rifiutare la conversione in maniera assoluta e anche all’ultimo istante.
Succede che l’intelletto s’acceca per un giudizio volutamente pervertito e colpevole. La volontà s’indurisce nel male e non ha più che delle debolissime velleità verso il bene, se pur le mantiene.
Giustamente il profeta Isaia (V, 20-21) scrive: “Sventura a coloro, che chiamano bene il male e male il bene; che delle tenebre fanno la luce e della luce tenebre; che il dolce lo dicono amaro e amaro il dolce”.
Sembra la confutazione, con 2.500 anni d’anticipo, dell’Idealismo hegeliano e dell’attuale “transumanesimo”.
Tuttavia, il ritorno a Dio è ancora possibile anche se molto difficile. Infatti, se manca la grazia prossima sufficiente, che rende realmente possibile l’adempimento dei Comandamenti e il dolore della colpa, è molto arduo ritornare a Dio; tuttavia, il peccatore riceve dalla misericordia divina la grazia remota sufficiente, che non gli dà ancora la capacità reale e attuale di pentirsi e convertirsi, ma lo predispone virtualmente a pregare e di grazia in grazia, se non pone resistenza, inizierà a pregare per davvero e con costanza sino ad arrivare alla conversione.
Tuttavia, se il peccatore resiste a queste grazie, allora rifiuta l’ultimo soccorso di Dio e sprofonda nella propria miseria che lo conduce all’impenitenza finale.
Egli si priva della grazia efficace di Dio, offertagli (come il frutto nel fiore) nella grazia sufficiente, che ogni tanto lo sfiora ancora. Allora, le difficoltà e le tentazioni aumentano, le grazie e la forza della volontà diminuiscono. Ecco come la resistenza temporale volontaria alla grazia predispone a quella finale. Tuttavia, la misericordia onnipotente di Dio può preservare in extremis dall’impenitenza finale alcuni peccatori ostinati e induriti. Però, sarebbe erroneo farne una regola abituale, mentre è solo un’eccezione, sulla quale non si può contare costantemente nel nostro vivere quotidiano.
È certo che le anime che muoiono nell’impenitenza finale sono perdute per l’eternità. Dio potrebbe farle risuscitare, come leggiamo nella vita di san Filippo Neri, affinché potessero domandare perdono dei loro peccati, convertirsi e salvarsi. Però, non bisogna diffondere l’idea erronea e perniciosa, perché conforta le anime nel sonno del peccato, che dopo la morte Dio darà a tutti la possibilità di pentirsi e di meritare il Paradiso; mentre dopo la morte non c’è più il tempo del pentimento, ma si è fissati nell’eternità in cui si è entrati con la morte.
Il rimorso non è il pentimento
Questa dottrina ci mostra la differenza tra rimorso e pentimento. Infatti, i dannati all’inferno hanno il rimorso per tutta l’eternità, ma non sono pentiti. Il pentimento presuppone il dolore del peccato come offesa fatta a Dio (Summa c. Gentes, L. IV, c. 89). Invece, il rimorso consiste nel dispiacere di essere castigati per propria colpa, castigo che non si vorrebbe subire, che invece è sempre presente e rende disperati. Il rimorso produce l’angoscia, la disperazione (come in Giuda o in Caino); invece il pentimento dà la pace dell’animo (come nel buon ladrone o nella Maddalena).
L’Angelico spiega che i dannati odiano il peccato soltanto perché sono puniti a causa di esso; ma – quanto a Dio – ne detestano la giustizia che li castiga. Perciò, in questa vita lo bestemmiano interiormente e col pensiero, invece dopo la morte lo bestemmieranno anche con la bocca (S. Th., II – II, q. 13, a. 4).
L’eccezione: la conversione in extremis
Gli induriti, che non danno alcun segno di pentimento, possono all’ultimo momento, prima di rendere l’anima a Dio, abbandonare la loro ostinazione convertendosi all’ultimo minuto, come fu per il buon ladrone.
La conversione in extremis è un mistero che solo Dio può misurare, esso ci sfugge ma non per questo lo dobbiamo 1°) negare per un eccesso di rigorismo, oppure 2°) ampliare per un difetto di lassismo.
«Il ritorno a Dio è possibile sino alla morte, ma diventa di più in più difficile con l’indurimento del cuore. Non rinviamo, perciò, mai a più tardi la nostra conversione e domandiamo spesso la grazia della buona morte con l’Ave Maria: nunc et in hora mortis nostrae» (R. GARRIGOU-LAGRANGE, L’altra vita e la profondità dell’anima, Brescia, La Scuola, 1947, p. 42).
Insomma, la perseveranza finale è un gran dono di Dio, preceduto da innumerevoli grazie per le quali l’uomo arriva al momento della morte e si trova nello stato di grazia santificante e, quindi, si salva.
L’uomo, dopo il peccato originale, è sempre in pericolo di perdere l’amicizia con Dio, ricadendo nel peccato.
In questa vita, normalmente, non esiste qualcosa che stabilizzi l’anima nella grazia e le renda impeccabile.
San Tommaso (S. Th., I – II, q. 109, aa. 8-9) spiega che la grazia risana la mente ma non cancella la concupiscenza o la tendenza al male; perciò sorgono nell’uomo i moti improvvisi delle passioni, che l’animo non sempre riesce a dominare totalmente. Di qui la colpa che di tanto in tanto ritorna.
Il concilio di Trento (sess. 6, c. 22) ha definito che l’uomo ferito dal peccato di Adamo non può perseverare nella grazia, senza uno speciale aiuto di Dio. Inoltre, sempre secondo il Tridentino (sess. 6, c. 16), l’uomo anche se giustificato, ha bisogno dell’aiuto divino speciale per ottenere la perseveranza finale o la buona morte, che è “gran dono”.
Pietro Parente scrive: «Certamente, l’uomo deve collaborare con Dio, cooperare liberamente con la sua grazia per meritare la salute eterna; ma è anche certo che quel momento decisivo, detto della “buona morte”, cui confluiscono tanti elementi diversi, è nelle mani di Dio. L’uomo non può essere sicuro della perseveranza finale e neppure può meritarla nel senso stretto della parola; può però, meritarla con la preghiera “suppliciter merere” (S. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II - II, q. 137; S. AGOSTINO, De dono perseverantiae, PL, 44)» (P. PARENTE, Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, Perseveranza, pp. 314-315; cfr. anche A. PIOLANTI, Comunione dei Santi e Vita Eterna, LEF, Firenze, 1957).
________________________ 1 - S. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., Supplementum, qq. 69-81 ; S. contra Gentes, L. IV, cc. 79-97 ; L. BILLOT, Quaestiones de Novissimis, Roma, Gregoriana, 1908 ; A. PIOLANTI, De Novissimis, Marietti, Torino, 194
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Parte seconda
La buona morte
La divina Rivelazione
La Tradizione patristica
La ragione teologica
Il magistero
Come prepararsi alla morte?
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Parte terza
L’immutabilità dell’anima sùbito dopo la morte
Dopo aver visto la questione dell’impenitenza finale, abbordiamo, ora, il tema della buona morte, ossia del coincidere della dipartita con lo stato di grazia.
Il dono della perseveranza finale è quello che si definisce come “grazia delle grazie” perché fa coincidere il momento della morte con lo stato di grazia e, dunque, ci assicura la salvezza eterna.
La divina Rivelazione
La Santa Scrittura attribuisce questo dono a Dio: “L’anima di chi muore in grazia, essendo gradita a Dio, è stata da Lui tolta dalle iniquità di questa vita, ove avrebbe potuto perdersi” (Sap., IV, 11, 14).
La Tradizione patristica
Sant’Agostino spiega che sia per i fanciulli sia per gli adulti il morire in grazia di Dio è uno speciale dono di Dio (De dono perseverantiae, c. 13, 14, 17). Per quanto riguarda gli adulti questo dono mantiene ferma e stabile la loro scelta del bene e impedisce loro di lasciarsi sopraffare dal male e dalle avversità.
Sant’Agostino precisa bene che questo dono insigne non c’è concesso per i nostri meriti, ma gratuitamente e per pura misericordia di Dio, che fissa l’ora della nostra morte. Tuttavia, se questo dono non può essere meritato, può essere ottenuto con le nostre suppliche: “Suppliciter emereri potest” (cap. 6, n. 10).
La ragione teologica
San Tommaso d’Aquino (S. Th., I – II, q. 114, a. 9) ne dà la ragione teologica con un semplice sillogismo: la grazia santificante è il principio di ogni merito. Ora, il principio del merito non può essere meritato, come la causa non può essere effetto di se stessa, altrimenti, la causa sarebbe nel medesimo tempo pure effetto e ciò è contraddittorio. Perciò, la buona morte o la perseveranza finale non si può meritare, ma Dio la dà gratis a chi la dà.
Solo Dio può conservare le anime nella perseveranza nello stato di grazia abituale o rimettervele dopo il peccato mortale. Tuttavia, questo dono lo possiamo e lo dobbiamo chiedere con la preghiera umile, costante, perseverante e fiduciosa, che dobbiamo indirizzare non alla giustizia divina, come nel merito, ma alla misericordia, come nel dono gratuito.
All’obiezione secondo cui l’uomo può meritare la vita eterna; perciò, potrebbe meritare anche la perseveranza finale, san Tommaso risponde che la vita eterna non è il principio del merito ma solo il suo termine e il suo fine. Perciò, possiamo ottenere la vita eterna a condizione di non perdere i nostri meriti e la grazia santificante, che, tuttavia, non abbiamo meritato ma solo ricevuto dall’onnipotente misericordia divina.
Insomma, il nostro libero arbitrio, dopo il peccato originale, sebbene sanato dalla grazia santificante, detta per questo motivo “gratia sanans”, è mutevole e non è in suo potere di stabilirsi irremovibilmente nel bene; lo può desiderare e volere ma non lo può realizzare da sé, se non è aiutato da una grazia attuale speciale (II – II, q. 137, a. 4).
Il magistero
Il Concilio Tridentino (DB, 806, 826, 832) conferma questo insegnamento, definendo la necessità di un soccorso speciale perché l’uomo giustificato perseveri nel bene. Questa grazia è un grande dono interamente gratuito, che può essere dispensato solo da “Colui, che può sostenere chi è in piedi e rialzare chi cade” (Rom., XIV, 4).
Occorre, perciò, sperare fermamente di ottenerlo fondandosi sulla misericordia ausiliatrice di Dio e lottando fortemente contro le tentazioni, lavorando gagliardamente alla nostra salvezza con la pratica delle buone opere.
Se non siamo sicuri di morire in grazia di Dio, tuttavia, vi sono alcuni segni che ce lo lasciano ben sperare: la cura di evitare il peccato mortale, lo spirito d’orazione, l’umiltà, la pazienza nelle avversità, la carità verso il prossimo, la vera devozione al Sacro Cuore e alla Madonna.
Come prepararsi alla morte?
Oltre alla fede nella vita eterna occorre una ferma speranza nel soccorso del Signore vivificate da un’ardente carità verso Dio e il nostro prossimo.
Inoltre, l’anima giusta dovrà prendere lungo il corso della sua vita mortale tutte le sue misure per essere avvertita a tempo quando la morte le sarà vicina.
Bisogna lottare contro la tendenza di nascondere agli ammalati l’avvicinarsi della morte, è un ottimo accorgimento accordarsi con un amico di avvertirsi mutuamente poiché i parenti spesso tendono a nascondersi e a nasconderci la prossimità dell’ultima ora.
Sentendo che la fine s’avvicina, il giusto deve offrire la sua vita in sacrificio a Dio, in unione al Sacrificio della Messa in cui si attua in maniera incruenta il Sacrificio cruento del Calvario.
È ottima cosa chiamare il sacerdote per ricevere l’estrema unzione, il viatico e l’assoluzione.
Così ci si presenterà al cospetto del divino Giudice con l’anima libera dal peccato mortale e pronta, dopo l’espiazione della pena dovuta alla colpa nel Purgatorio, a entrare in Paradiso.
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Parte terza
L’immutabilità dell’anima sùbito dopo la morte
“Tempus non erit amplius”
L’anima umana, sùbito dopo la morte reale (1), rimane fissata immutabilmente nel bene o nel male in cui è morta. Noi sappiamo che con la morte reale il tempo di meritare è finito e si entra nell’eternità.
Una volta che l’anima umana ha definitivamente lasciato il corpo (morte reale) è giudicata immediatamente su tutte le sue azioni, buone e cattive, della sua intera vita terrena. Ora, ciò presuppone che con la morte, ossia la separazione dell’anima dal corpo, il tempo del merito è finito. Alcuni protestanti affermano il contrario e i modernisti hanno ripreso questa tesi luterana. Invece, la Rivelazione divina e il Magistero ordinario (sebbene senza definizione solenne) insegnano la tesi tradizionale esposta al primo punto.
La Sacra Scrittura
Nel Vecchio Testamento si legge: “Il Signore, nel giorno della morte, rende la mercede all’uomo secondo le sue opere; infatti, non appena la sua vita è chiusa, le sue opere sono messe a nudo” (Ecclesiastico, XI, 28).
Anche nel Nuovo Testamento il giudizio finale riguarda solo le azioni della vita presente e non quelle (buone) commesse dopo la morte (Mt., XXV, 33; Lc., XIII, 22; Gv., V, 29).
Per il giudizio particolare (Lc., XVI, 19-31) si legge nella parabola del “ricco Epulone” che il povero Lazzaro e il ricco malvagio (detto comunemente Epulone) vengono giudicati irrevocabilmente e senza dilazione di pena o di gloria, unicamente sugli atti commessi in questa vita prima della loro morte.
Allo stesso modo Gesù disse al buon Ladrone poco prima che morisse: “Oggi sarai con Me in paradiso” (Lc., XXIII, 43).
San Paolo scrive: “Tutti noi dobbiamo apparire davanti al Tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva ciò che si è meritato nella sua vita mortale secondo le proprie opere buone o cattive” (II Cor., V, 10).
La Tradizione patristica
Infine, nel Vangelo secondo Giovanni (IX, 4) si legge: “Viene la notte quando nessuno può più operare”. Ora il termine “notte” è comunemente interpretato dalla Tradizione patristica (S. Cipriano, S. Ilario, S. Giovanni Crisostomo, S. Cirillo d’Alessandria, Sant’Agostino, S. Gregorio Magno) come morte, dopo la quale non si può più né meritare né demeritare (cfr. A. DE JOURNEL Enchiridion patristicum, index theol. n. 584).
Il magistero della Chiesa
Il Magistero ordinario e universale - sebbene la Chiesa non abbia definito in maniera solenne nulla a questo proposito - ha insegnato la medesima dottrina su esposta, secondo cui sùbito dopo la morte, l’anima è giudicata e non possa più meritare nulla, ma si trova fissa nello stato in cui si è venuta a trovare nell’istante in cui l’anima s’è separata dal corpo.
Per esempio, il Concilio di Lione (DB, 464) insegna, senza definire solennemente: “Le anime di coloro, che muoiono in stato di peccato mortale, discendono sùbito nell’inferno (mox post mortem in infernum descendunt), per subirvi pene ineguali”.
Il Concilio di Firenze (DB, 693) insegna la stessa dottrina; così pure la Costituzione dogmatica Benedictus Deus di Benedetto XII (DB, 531).
Infine, il Concilio Vaticano I stava per definire 1°) che dopo la morte è necessario che tutti, immediatamente, ci presentiamo davanti al tribunale di Dio, per riferirvi ognuno le gesta della nostra vita terrena, sia buone sia cattive.
Inoltre, 2°) che dopo questa vita mortale non resta alcun tempo per far penitenza e giungere alla giustificazione.
La ragione teologica
Secondo la Scrittura Gesù ha detto: “Bisogna fare le opere di Colui che Mi ha mandato, mentre è tuttora giorno, giacché giunge la notte in cui nessuno può più operare” (Giov., IX, 4).
Perciò i teologi, basandosi soprattutto su questo versetto di San Giovanni, asseriscono che l’uomo può meritare soltanto prima di morire (SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentes, Lib. IV, c. 95; FRANCESCO DE SILVESTRIS DA FERRARA, In c. Gentes, L. IV, c. 95; SALAMANTICENSES, Cursus theologicus, De gratia, De Meritu, disp. I, dub. IV, n. 36).
Infatti, è tutto l’uomo che deve meritare e non la sola anima separata dal corpo.
Secondo padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (L’altra vita e le profondità dell’anima, cit., p. 53), il teologo scolastico che meglio di tutti ha inteso ed espresso il pensiero di San Tommaso è il Ferrarese (In S. c. Gentes, Lib. IV, c. 95), che così scrive: “L’anima, sin dal suo primo istante di separazione dal corpo, ha una conoscenza intellettiva immobile, e comincia sùbito allora a essere ostinata nel male o, all’opposto, fissata nel bene; perciò, da questo momento, non c’è più merito o demerito, giacché essi appartengono all’uomo viatore intero e non all’anima separata”.
Insomma, come spiega anche San Tommaso (S. contra Gentes, L. IV, c. 95; De Veritate, q. 24, a. 11), sin dal primo istante della separazione dell’anima dal corpo, ci troviamo di fronte a un cadavere e a un’anima separata. L’uomo ha cessato di esistere e, perciò, non può più meritare o demeritare.
L’ostinazione nel male è causata, dunque, inizialmente dalla conoscenza (che potrebbe ancora mutare) della prossimità della morte, con l’adesione all’ultimo peccato dell’anima ancora per un po’ unita al corpo.
Invece, essa è causata in maniera definitiva dalla conoscenza stabile e immobile dell’anima una volta separata dal corpo, quando non può più mutare, essendo oramai diventata un puro spirito (anche se in attesa di riunirsi al suo corpo alla fine del mondo), che aderisce immutabilmente e irrevocabilmente a quello che ha scelto all’ultimo istante prima di morire.
La S. Scrittura dice: “Se un albero cade a sud o a nord, resta nel posto in cui è caduto” (Ecclesiastico, XI, 35) e il proverbio popolare: “Se l’albero pende a sinistra, cadrà a sinistra; invece, se pende a destra, cadrà a destra”.
In breve, per il tomismo più genuino, l’anima inizialmente comincia a fissarsi nel male (o nel bene) con l’ultimo atto della sua volontà libera nella vita presente, prima di morire. Invece, termina col fissarsi nel primo istante, sùbito dopo la morte, con il modo oramai immutabile di giudicare e volere, proprio dei puri spiriti.
Essa s’immobilizza da se stessa nella sua scelta pienamente avvertita e liberamente voluta del bene o del male. Perciò, non si può parlare di mancanza di misericordia se Dio non offre a essa un’ulteriore grazia d’illuminazione dopo la morte.
L’entrata nello stato di separazione dell’anima dal corpo con la morte, fissa lo spirito umano per sempre nella scelta pienamente conosciuta e liberamente voluta; insomma: “L’albero resta lì, dove è caduto” (cfr. Ecclesiastico, XI, 35).
È possibile La conversione dei dannati?
I dannati, poiché sono istruiti dalla loro sventura sulla gravità del loro peccato e della pena che devono pagare, potrebbero ritornare sulla loro ultima scelta fatta poco prima di morire, pentirsene e uscire dall’inferno?
L’Aquinate risponde che i dannati non sono istruiti in pratica, ma solo speculativamente, dalla loro sventura. Essi vorrebbero in teoria non soffrire, ma non vogliono all’atto pratico retrocedere dal loro peccato e tornare a Dio. Essi rifiutano irrevocabilmente l’unica via del ritorno a Dio, quella dell’umiltà e della sottomissione all’Essere supremo.
Essi non hanno il dolore e il pentimento del peccato come offesa verso Dio, ma soltanto il rimorso, il tormento o il dolore rabbioso della loro pena e sofferenza che morde la loro coscienza, come un cane inferocito. San Pietro ebbe il dolore di aver rinnegato tre volte Gesù, Giuda solo il rimorso di averlo tradito.
Insomma, i dannati si amareggiano del loro peccato solo come causa della loro sofferenza e perciò restano nella rivolta, come Capaneo (DANTE, Inferno, XIV, 43-72). Tra questi due stati d’animo v’è un abisso (cfr. S. Th., Supplementum, q. 98, a. 2).
Il diavolo ha preferito lucidamente e liberamente
la dannazione al Paradiso
Lucifero ha preferito le gioie dell’orgoglio, dell’affermazione del suo Io alla gloria del Paradiso e a Dio visto faccia a faccia.
Ora, ciò ci sembra assurdo e impossibile. La sana teologia (cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th., I, q. 63, a. 3), appoggiandosi sulla Scrittura e la Tradizione patristica, risponde che per quanto strano e innaturale ci possa sembrare, il diavolo ha preferito affermare e vivere a suo modo la sua esistenza naturalmente intellettuale (non ancora elevata alla visione beatifica), di cui s’inebria e si gonfia, la sua felicità puramente naturale (anche se di un puro spirito), il suo egoismo orgoglioso; piuttosto che dare gloria a Dio, riconoscendone la sua onnipotenza creatrice, umiliandosi e obbedendogli come la creatura al Creatore.
Insomma, egli ha rifiutato la beatitudine soprannaturale, che è solo un puro dono di Dio, poiché non volle ammettere di aver bisogno di Dio e del suo aiuto, sottomettendosi così a Lui.
Inoltre, la grazia santificante, che è seme di gloria eterna, è un dono divino ma è comune agli angeli e agli uomini, che essendo composti di anima e di corpo sono inferiori agli angeli. Lucifero, nel suo orgoglio, non volle abbassarsi a ricevere un dono che sarebbe stato fatto comunemente sia agli angeli sia agli uomini. Perciò, preferì dannarsi piuttosto che salvarsi assieme all’uomo, riconoscendo la sua finitezza e il suo bisogno dell’aiuto di Dio per entrare nel regno dei cieli; mentre all’inferno poteva andarci da solo. Ora, è proprio dell’orgoglioso compiacersi esageratamente della propria eccellenza sino al punto di respingere tutto ciò che potrebbe sminuirla: il dono di Dio e la comunanza con altri enti.
Suarez commentando l’Angelico (S. Th., I, q. 63, a. 3) ha aggiunto alla tesi tomista la sua ipotesi, secondo cui Dio avrebbe mostrato a Lucifero l’Incarnazione del Verbo e, quindi, l’Arcangelo si sarebbe rifiutato di amare e servire un Dio che si sarebbe fatto uomo. Quest’ipotesi aggiunge qualcosa a quella tomista e non è stata condannata dalla Chiesa e può essere liberamente ritenuta. “In certis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”.
Tutti ricevono prima di morire la visione d’insieme della propria vita?
Alcuni autori, poco sicuri e non approvati dalla Chiesa, ritengono che poco prima di rendere definitivamente l’anima a Dio ogni essere umano riceva da Dio una “visione globale” della sua vita passata, quale grazia sufficiente per pentirsi e convertirsi.
Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (L’altra vita e la profondità dell’anima, cit., p. 57) spiega che ogni anima è un caso a parte; perciò nelle morti, s’avvera una grande variazione e varietà. Per esempio, ad alcuni santi fu rivelato il giorno e il momento; invece ai farisei Gesù disse e predisse: “Voi morirete nel vostro peccato”.
Perciò, l’immobilità dell’anima nel bene o nel male inizia durante la vita presente, secondo come sia stata vissuta. San Roberto Bellarmino nel suo bel libro De arte bene moriendi, spiega che per ben morire bisogna ben vivere. Infatti, normalmente – tranne qualche rarissima eccezione – si muore come si vive.
Perciò, significherebbe illudere le anime e lasciarle nello stato del peccato mortale e della dannazione potenziale, asserire che tutti ricevono poco prima di morire o addirittura sùbito dopo la morte, una grazia speciale che li illumina in maniera molto forte affinché possano scegliere, in extremis, il cielo o l’inferno.
“L’ostinazione nel male può iniziare molto tempo prima della morte, come avviene nei peccatori incalliti, che possono morire all’improvviso, senza aver ottenuto la visione globale della loro vita. Questa è la pena dovuta a quel peccato speciale che consiste nel protrarre sempre la conversione a più tardi o nel non volersi convertire, affatto” (R. GARRIGOU-LAGRANGE, cit., p. 57).
Non dobbiamo, perciò, servirci di alcune teorie abbastanza strampalate e abusando di esse, per presunzione di salvarci senza merito, per rimandare sempre in là la nostra conversione. Infatti, se Dio è misericordioso, è anche infinitamente giusto.
Tuttavia, Dio manifesta e applica la sua severa giustizia, quando l’uomo ha abusato della sua misericordia. Mai nessuno si è dannato per la mancanza della grazia e del soccorso di Dio, ma soltanto per sua colpa.
________________ 1 - La morte clinica è quando il cuore non batte più, la respirazione è cessata e la sostanza del cervello (non la sola corteccia) è piatta. La morte reale avviene quando l’anima ha lasciato definitivamente il corpo. Secondo i teologi la separazione dell’anima dal corpo avviene lentamente, in circa tre ore. Perciò, sino a circa tre ore dopo l’ultimo respiro, quando il corpo è ancora caldo, si ritiene che l’anima sia ancora presente, nel tempo in cui lo sta lasciando poco a poco e si può ancora amministrare l’estrema unzione o l’assoluzione ma sub conditione.
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Parte quarta
Il giudizio particolare
Parte quarta
Il giudizio particolare
Esistenza
Sùbito appena l’anima è capace di essere giudicata riguardo a tutti i suoi meriti e demeriti, ossia, dal momento in cui è finito il tempo di meritare (con la morte reale, ossia con la separazione dell’anima dal corpo) v’è la sanzione definitiva, che è chiamata Giudizio particolare.
Abbiamo già visto come la teoria dell’illuminazione concessa all’anima sùbito dopo la morte sia contraria alla Rivelazione, alla Tradizione, al Magistero ordinario e alla ragione teologica.
In quest’articolo approfondiamo il tema della stabilità permanente dell’anima separata dal corpo nello stato in cui si trova al momento della morte reale e dell’irrevocabilità del giudizio emesso da Dio.
Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange giustamente osserva che, se non fosse così “l’anima rimarrebbe nell’incertezza della sua sorte sino al Giudizio universale, ma ciò è contrario alla sapienza di Dio, alla Sua misericordia e alla Sua giustizia” (L’altra vita e la profondità dell’anima, cit., p. 58; cfr. anche S. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., III, q. 59, a. 4, ad 1um e a. 5; Supplementum, q. 69, a. 2; q. 88, a. 1, ad 1um; S. c. Gent., L. IV, c. 91 e 95).
Natura
Il giudizio umano è analogo a quello divino ed esso richiede tre elementi: 1°) l’esame della causa, 2°) la sentenza e 3°) la sua esecuzione.
Ora, nel giudizio divino 1°) l’esame della causa ha luogo in un solo istante. Dio conosce l’anima, essendo onnisciente e, a sua volta, l’anima - nel medesimo istante in cui ha lasciato il corpo con la morte reale - vede se stessa ed è illuminata da Dio in maniera irrevocabilmente definitiva sopra tutti i suoi meriti e demeriti. Perciò, conosce il suo stato con totale certezza e senza nessun dubbio.
In secondo luogo, 2°) la sentenza è pronunciata da Gesù in un istante, mediante un’illuminazione intellettuale, che abbraccia tutto il passato del defunto con un solo sguardo. L’anima capisce di essere giudicata da Dio e illuminata da Dio, essa pronuncia assieme a Lui il medesimo giudizio definitivo, sùbito dopo che l’anima si è separata dal corpo. Sicché non appena la persona è morta è anche giudicata irrevocabilmente.
Infine, 3°) l’esecuzione della sentenza è anch’essa immediata. Infatti, a) dal lato di Dio, l’onnipotenza compie immediatamente l’ordine della sentenza divina; b) dal lato dell’anima, san Tommaso spiega che, il merito e il demerito dell’anima sono come la leggerezza o il peso dei corpi.
Perciò, come i corpi pesanti scendono verso il basso e quelli più leggeri del mezzo in cui si trovano (ad esempio, l’acqua) salgono in alto; così le anime separate vanno alla ricompensa dovuta ai loro meriti, oppure alla pena dovuta ai loro demeriti. Insomma, la carità è come una fiamma che sale sempre, mentre l’odio è simile a un macigno che scende continuamente.
In breve, il giudizio particolare ha luogo nell’istante medesimo della separazione dell’anima dal corpo, cioè al primo istante in cui l’anima è realmente separata.
In questo istante è finito il tempo del merito o demerito, altrimenti un’anima santa del purgatorio potrebbe ancora peccare e dannarsi, mentre un’anima dannata potrebbe convertirsi e salvarsi. Insomma, una delle condizioni del merito è proprio quella di essere in vita o “in via ad patriam”.
Come si vede, la teoria dell’illuminazione dopo la morte non è fondata, anzi è contraria alla sana teologia.
Nel Giudizio particolare l’anima non vede Dio, altrimenti sarebbe in paradiso per la visione beatifica, ma per una speciale luce divina conosce Dio come giudice supremo e capisce che la sta giudicando.
Conclusione
Come presentarci al giudizio nelle migliori disposizioni d’animo? «non è certo con elucubrazioni intellettuali o irrigidendo la propria volontà, che si arriva a perfezionare la carità personale, bensì compiendo generosamente molti sacrifici e accettando generosamente le prove inviateci da Dio» (R. GARRIGOU-LAGRANGE, L’altra vita e le profondità dell’anima, cit., p. 60).
Tuttavia, il giudizio universale deve ancora perfezionare quello particolare, perché l’uomo deve essere giudicato non solo come persona individuale, ma come membro della società umana, nella quale ha esercitato un’influenza buona o cattiva, passeggera o duratura negli anni successivi alla sua morte.
Inoltre, delle cose mutevoli di questo mondo ci si può formare un giudizio perfetto solo quando esse sono definitivamente compiute, non solo in sé ma anche nei loro effetti; ad esempio, la vita dell’uomo, sebbene finisca con la sua morte, tuttavia, resta nell’esempio che ha dato ai suoi posteri. Ora, di tutto ciò si può dare un giudizio completo solo quando il mondo è finito totalmente (S. TOMMASO D’AQUINO, S. Th., III, q. 59, a. 5).
Si pensi, per esempio, al bene che ha continuato a fare sant’Ignazio da Loyola con i suoi Esercizi spirituali dopo la sua morte sino alla fine del mondo oppure al male che ha fatto Lutero con i suoi scritti e cattivi esempi.
Nella prossima puntata vedremo il Giudizio universale.
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