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domenica 20 dicembre 2020

Venga il Suo Regno. Kwasniewski sulla Dottrina Sociale della Chiesa.

Questo articolo è apparso per la prima volta nell’edizione cartacea di aprile 2020 di Catholic Family News e ripreso il 18 giugno 2020 dal sito online della medesima testata.

Lorenzetti, Allegoria Buon Governo particolare
Nota del Traduttore [novembre 2020]: alla luce della controversa situazione e delle preoccupanti prospettive seguite alle elezioni americane del 2020, e della confusa discussione sull’insegnamento della Chiesa in documenti, contesti istituzionali ed eventi recenti come la “Economy of Francesco”, il Dr. Peter Kwasniewski è lieto di estendere al pubblico italiano questa serie di articoli sulla Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), materia che ha insegnato a livello universitario. Si coprirà una vasta gamma di argomenti afferenti alla DSC, tra cui: la differenza tra gerarchia ed egualitarismo, tra libertà e licenza, il diritto all’uso comune dei beni, il disaccorto tra distributisti e capitalisti, l’incompatibilità tra socialismo e DSC, e altro ancora. Auspicabilmente, questa serie fornirà ai lettori un solido sguardo d’insieme sulla DSC e su molti dei suoi aspetti, dotandoli così di una visione chiara per una società umana articolata secondo il pensiero di Cristo e della Sua Chiesa.
Parte I: Introduzione

Nei miei anni di insegnamento universitario della Dottrina Sociale della Chiesa (in seguito, “DSC”), c’è un fatto che mi ha sempre colpito: la prima cosa che i miei studenti volevano sentire, all’inizio del corso, era una spiegazione del perché mai qualcosa del genere, anzitutto, esiste. Volevano capire da dove fosse nata o, per dirla più schiettamente, perché una religione incentrata sulla vita eterna, conseguita tramite la fede soprannaturale e i sacramenti efficaci per grazia divina, dovrebbe interessarsi di questioni relative a costituzioni e leggi, al lavoro e ai salari, alla proprietà e alla gestione delle imprese, e così via. Non è una domanda sciocca: perché, infatti, la Chiesa dovrebbe interessarsi della vita sociale dell’uomo, compresa la politica e l’economia? 

Grazie ai teorici e all’ingegneria sociale della Età malamente definita dell’ “Illuminismo”, e come risultato degli errori protestanti sulla visibilità della Chiesa come società, gli uomini moderni sono particolarmente inclini a pensare alla religione come a una questione “privata”, un qualcosa “tra Dio e l’anima”. Guardando le cose in questo modo, la Chiesa non ha altro compito che aiutare ogni anima a trovare la sua strada verso Dio, il vero bene eterno, elevandosi al di sopra di un mondo di promesse ingannevoli. 

In un certo senso, ciò è vero: è Dio che crea ogni singola anima con un destino immortale, e Gesù Cristo, il Figlio di Dio, è morto per la redenzione di quell’anima. Lo dice splendidamente il sacerdote Cecilio, nel romanzo di John Henry Newman “Callista”: “C’è solo un amante delle anime […] ed Egli ama ciascuno di noi, come se non ci fosse nessun altro da amare. Egli è morto per ognuno di noi, come se non ci fosse nessun altro per cui morire. […] Più ci avviciniamo a Lui, e più trionfalmente Egli entra in noi; più a lungo Egli dimora in noi, più intimamente noi possediamo Lui. È uno sposalizio per l’eternità”. 

Ma in un altro senso, la domanda posta suona strana, se si condivide quella verità formulata per la prima volta dal filosofo pagano Aristotele nel secondo capitolo della sua Politica : l’uomo è un animale sociale e politico, un animale che nasce, cresce e matura solamente in comunità – anzitutto, e più naturalmente, la famiglia, ma anche la città o lo stato, che comprendono molte famiglie in un solo luogo, le quali possono aiutarsi nel vivere bene. In realtà, Aristotele affermava che l’essere sociale e politico era una caratteristica così connessa alla natura dell’uomo che qualcuno che non vivesse in società doveva necessariamente essere o una bestia o un dio. La Chiesa si interessa della vita sociale perché la persona umana alla quale insegna, che governa e che santifica è sociale per natura, e Cristo, vero Dio e vero uomo, è venuto a salvare l’intero uomo nella sua totalità. A differenza di quanto fa l’Illuminismo, i cattolici non biforcano l’uomo in un’anima privata religiosa e in un corpo pubblico laico. L’uomo è un’entità unificata, la cui vita sociale circonda e influisce sulla vita interiore, e la cui vita interiore cerca espressione e sostegno nelle relazioni e nelle istituzioni al di fuori di sé. 

Inoltre, Cristo è venuto per realizzare una società eterna e perfetta, il Regno di Dio, tanto più grande della società umana quanto il divino è più grande dell’umano. La preparazione dell’uomo per questa società eterna – potremmo chiamarla la Città di Dio o la Gerusalemme celeste – comporta il suo vivere una vita buona e santa quaggiù, nella città terrena, lungo le vie di questo mondo. Non c’è salvezza che non passi attraverso il nostro comportamento nei confronti del prossimo, della famiglia, del collega o del concittadino. L’etica non è soltanto una scienza individuale, ma una scienza sociale, nella quale sono in gioco questioni di bene e di male morale, questioni di virtù e di vizio, azioni gradite e sgradite a Dio. Non solo la vita sociale dell’uomo non è irrilevante per la sua salvezza, ma è profondamente legata ad essa. Quindi, la DSC rientra nell’ambito della teologia morale: appartiene a quell’esercizio del munus docendi o Magistero della Chiesa che riguarda questioni di comportamento, in quanto distinto da quello che riguarda le verità da credersi, anche se inevitabilmente questi ambiti sono interconnessi. Per di più, la Chiesa è guardiana della legge naturale, che contiene i precetti di giustizia (la virtù più direttamente coinvolta nelle interazioni sociali). Dunque, la Chiesa è l’autorità infallibile per quanto riguarda ciò che la legge naturale richiede agli uomini di fare, secondo principi di giustizia, nel loro vivere in società. Una prospettiva meramente “naturale” o “scientifica” sarebbe inevitabilmente una prospettiva oscurata, senza l’illuminazione della rivelazione divina e della tradizione cattolica. 

Vita in abbondanza

Gesù Cristo è venuto affinché gli uomini abbiano la vita, e la abbiano in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Nostro Signore non riserva ogni cosa buona per il Cielo, sebbene il meglio sia riservato per lassù. La famiglia, il vicinato, le amicizie, le culture, persino gli stati: tutto ciò può essere più o meno santificato, più o meno intriso di verità, bontà e bellezza divine. Questo le renderà occasioni più o meno perfette per sperimentare la gioia e la pace di Dio. Mettendo questa stessa verità al negativo, l’uomo non può svilupparsi bene come figlio di Dio se la sua natura sociale è menomata, o la sua vita sociale è avvelenata o paralizzata. Papa Giovanni Paolo II ha così scritto: 
“Quando, sotto l’influsso del Paraclito, gli uomini scoprono questa dimensione divina del loro essere e della loro vita, sia come persone che come comunità, essi sono in grado di liberarsi dai diversi determinismi derivati principalmente dalle basi materialistiche del pensiero, della prassi e della sua relativa metodologia. Nella nostra epoca questi fattori sono riusciti a penetrare fin nell’intimo dell’uomo, in quel santuario della coscienza dove lo Spirito Santo immette di continuo la luce e la forza della vita nuova secondo la «libertà dei figli di Dio» [cfr. Rom. 8:21]. La maturazione dell’uomo in questa vita è impedita dai condizionamenti e dalle pressioni, che su di lui esercitano le strutture e i meccanismi dominanti nei diversi settori della società. Si può dire che in molti casi i fattori sociali, anziché favorire lo sviluppo e l’espansione dello spirito umano, finiscono con lo strapparlo alla genuina verità del suo essere e della sua vita – sulla quale veglia lo Spirito Santo – per sottometterlo al «principe di questo mondo» [Gv. 12:31, 14:30, 16:11]. (Dominum et Vivificantem , §60) 
D’altra parte, lo sappiamo, giustamente  la fede cattolica relativizza sempre la felicità terrena. Non dobbiamo mai permetterci di dimenticare (come purtroppo sembra ossessionatamene intenzionata a dimenticare l’attuale politica del Vaticano) che questo mondo non è pensato come la nostra dimora permanente e che siamo creati per la visione faccia a faccia di Dio, la Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, in festosa comunione con i santi e gli angeli, in “cieli nuovi e terra nuova secondo le Sue promesse, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3:13). La Madonna ha detto a santa Bernadette Soubirous: “Non ti prometto la felicità in questa vita, solo nella prossima”. Come recitava il segnalibro, scritto di suo pugno, che santa Teresa d’Avila teneva nel suo breviario:
“Nulla ti turbi,
nulla ti spaventi.
Tutto passa,
solo Dio non cambia.
La pazienza ottiene tutto.
Chi ha Dio
non manca di nulla:
solo Dio basta”.
L’uomo non può essere e non è pensato per essere perfettamente felice in questa vita, in questo mondo; eppure egli è chiamato a partecipare, anche adesso, alla vita sovrabbondante, sì, alla gioia, di Gesù Cristo, tramite l’appartenenza sempre più intima al Suo Corpo Mistico. Dal momento che il mistero di Cristo è veramente presente in questo mondo nella Sua Chiesa, ella ha la missione permanente e l’imperativo di fare della vita umana in tutte le sue dimensioni un dono che sia degno di Dio, e di favorire un ambiente umano che promuova in ogni modo questo dono di sé a Dio e al prossimo. La società di ogni tipo – famiglia, clan o tribù o comunità etnica, nazione – è il terreno su cui si radica la risposta dell’individuo. Questo terreno può essere più o meno ricco, umido e fertile. L’individuo può trascendere il “giardino sociale” in cui è stato collocato, ma ha una certa dipendenza da esso e la responsabilità di coltivarlo nella misura in cui gli è possibile. 

Difendere il Coinvolgimento della Chiesa nella Società

Ci sono molte false nozioni su cosa significhi la DSC. Per alcuni, essa corrisponde a vaghi sentimenti a sostegno della reciproca buona volontà tra classi e nazioni; per altri, essa annuncia fantasiosi ideali di prosperità economica per tutti. Ma tali visioni sono troppo limitate. Come disse nel 1901 Papa Leone XIII: 
“Abbiamo volutamente menzionato qui virtù e religione. Infatti, è l’opinione di alcuni, e l’errore è già molto comune, che la questione sociale sia solo una questione economica, mentre in punto di fatto è, prima di tutto, una questione morale e religiosa, e per questo motivo deve essere regolata dai principi della moralità e secondo i dettami della religione. Infatti, anche se il salario venisse raddoppiato, le ore di lavoro fossero accorciate e il cibo divenisse a buon mercato, tuttavia, se il lavoratore ascolta le dottrine che vengono [normalmente] insegnate su questo argomento [cioè le dottrine marxiste, NdT], come è incline a fare, ed è spinto dagli esempi posti davanti a lui a liberarsi del rispetto per Dio e ad intraprendere una vita di immoralità, le sue fatiche e il suo guadagno non gli varranno a nulla”. (Graves de Communi Re, §11, corsivo aggiunto) [traduzione e adattamento all’italiano corrente del traduttore; il sito della Santa Sede mette a disposizione l’enciclica esclusivamente in inglese e francese, NdT] 
Lo stesso papa scrive nel 1895 che la “questione sociale”:
“non può essere considerata da un solo punto di vista. Si occupa certo di beni esterni, ma principalmente si occupa di religione e di morale. È anche direttamente connessa con la costituzione civile delle leggi, così che, in ultima analisi, si riferisce ampiamente ai diritti e ai doveri di tutte le classi”. (Permoti nos, §5) [traduzione e adattamento all’italiano corrente del traduttore, NdT]
San Pio X commentò quest’idea in un’enciclica ai vescovi di Germania del 1912:
“E precisamente qualunque cosa un cristiano faccia, anche se nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali; anzi deve, conformemente alle regole della dottrina cristiana, tutto dirigere al bene supremo come a fine ultimo. E tutte le sue azioni, in quanto moralmente buone o cattive, cioè conformi o no alla legge naturale e divina, sono soggette al giudizio e alla giurisdizione della chiesa. – Tutti coloro, singoli o associati, che si gloriano del nome di cristiani, devono, se non dimenticano il proprio dovere, alimentare non le inimicizie e le rivalità tra le classi sociali, ma la pace e il mutuo amore. – La questione sociale, e le controversie che ne derivano circa il metodo e la durata del lavoro, la fissazione del salario, e lo sciopero, non sono soltanto di natura economica, e perciò non sono tali da potersi risolvere prescindendo dall’autorità della chiesa”. (Singulari Quadam, §3)
Il corpus tradizionale della DSC affronta ogni questione fondamentale di rilevanza sociale, sia politica (l’origine, la natura e lo scopo del governo civile; il suo rapporto con la Chiesa e la sua missione; il suo ruolo nella protezione delle persone, nella garanzia dei diritti, nella promozione della virtù) che economica (la generazione della proprietà, la sua proprietà e distribuzione, il giusto posto dei beni materiali, il commercio internazionale, le questioni monetarie, e così via). 
In ultima analisi, la DSC è l’articolazione di quella che deve essere la coerente testimonianza cristiana del Vangelo e l’azione sociale basata su di essa, con l’obiettivo di riformare l’ordine sociale secondo la verità cattolica. Essa riconosce che, senza la grazia, la vita delle società, come degli individui, è e non può che essere profondamente disordinata, priva di mutua armonia, di pace, di gioia, di festosità e di significato. Essa è una visione della realtà che emana da Cristo Re e che abbraccia tutta la realtà umana in comunione con la Ss. Trinità. 

Chi ha inaugurato l’Insegnamento Sociale?

Alcuni vorrebbero affermare che la Chiesa non abbia avuto alcuna dottrina sociale prima degli ultimi recenti secoli. Altri, al massimo, si spingerebbero indietro di qualche secolo. Ma i Padri della Chiesa, come San Basilio Magno e San Giovanni Crisostomo, discutevano già nei primi secoli del cristianesimo le questioni sociali essenziali, e le facevano risalire a Nostro Signore, agli Apostoli, alla Legge e ai Profeti dell’Antico Testamento. Gli scolastici medievali come San Tommaso d’Aquino e l’ampia tradizione tomista, specialmente nella Spagna rinascimentale, dedicano molte importanti discussioni alle materie economiche e politiche. Anche teologi e filosofi cattolici del periodo moderno vi hanno contribuito in maniera sostanziale (ad es. Joseph de Maistre, Juan Donoso Cortés, Louis Billot). 

La maggior parte dei documenti papali più celebri sulle questioni sociali sono del periodo “moderno”, che si potrebbe far partire dall’Illuminismo, il quale diede il via all’età delle rivoluzioni, realizzate o minacciate, contro l’autorità ecclesiastica e civile. Durante il XVIII secolo la Chiesa fu costretta, dagli attacchi che le venivano mossi e per il bene delle anime, a parlare contro errori nuovi, che precedentemente non erano mai stati presi in considerazione, come la totale derivazione dell’autorità politica dal “consenso dei governati” o “volontà popolare”, sviluppata nella teoria del contratto sociale, nelle sue diverse articolazioni. 

Qui può essere utile un breve excursus storico. Per oltre mille anni, la realtà sociale di base del mondo, il fondamento dell’ordine sociale – compresi i suoi elementi politici -è stata la Chiesa Cattolica visibile: ciò che il cardinale Charles Journet ha definito la “Cristianità sacrale”: un insieme di popoli, città, stati, uniti in una federazione internazionale da una fede comune in Cristo e dalla obbedienza alla Chiesa gerarchica. Una rete enormemente complessa e diversificata di istituzioni “intermedie”, dotate di un autentico potere sociale e di un’autentica posizione sociale – corporazioni, ordini religiosi, principati, domini feudali e università – permetteva una vita civica e culturale densamente strutturata e su base locale, in cui l’individuo non si trovava isolato di fronte a uno stato onnipotente o alla mercé di un’economia dominata da gigantesche corporazioni. Era un mondo in cui essere cittadino ed essere cattolico erano, in pratica, la stessa cosa, anche se non necessariamente in teoria. 

Poiché quest’ordine di cose fu sfidato o ripudiato nelle rivoluzioni della fine del XVIII secolo, e dai loro strascichi, troviamo un’ondata di interventi papali su eventi particolari, ma nulla che meriterebbe di essere definito una “risposta sistematica” alla teoria politica dell’Illuminismo fino alla prima parte del XIX secolo, circa 40 anni dopo la Rivoluzione francese, con l’enciclica Mirari Vos (1832) di papa Gregorio XVI. Potremmo datare il moderno Magistero sociale al regno di questo papa (1831-1846) per due ragioni: primo, tentò di fornire una confutazione, basata su argomenti dottrinali, di alcune tendenze del liberalismo moderno; secondo, le sue posizioni furono adottate e sviluppate dai papi successivi. In un messaggio per la Giornata della Famiglia dell’Azione Cattolica Italiana del 23 marzo 1952, Papa Pio XII si è espresso sui “nuovi bisogni” della modernità:
“[…] la divina assistenza, ordinata a preservare la Rivelazione da errori e da deformazioni, è stata promessa alla Chiesa, e non agli individui. Sapiente provvidenza anche questa, poiché la Chiesa, organismo vivente, può così, con sicurezza ed agilità, sia illuminare ed approfondire le verità anche morali, sia applicarle, mantenendone intatta la sostanza, alle condizioni variabili dei luoghi e dei tempi. Si pensi, per esempio, alla dottrina sociale della Chiesa, che, sorta per rispondere a nuovi bisogni, non è in fondo che l’applicazione della perenne morale cristiana alle presenti circostanze economiche e sociali”.
Papa Leone XIII gode di uno speciale posto d’onore all’interno della tradizione, poiché svetta tra tutti gli altri pontefici per l’ampiezza e la profondità dei suoi contributi alla dottrina sociale. Per questo le sue encicliche – ricche di saggezza, vigorose nell’analisi, scintillanti di intuizione, fluenti di unzione – meritano una menzione particolare. È considerato da molti il più grande maestro dei fondamenti dell’etica sociale. Segno di questo fatto è la frequenza con cui le sue encicliche vengono citate dai pontefici successivi. In Mater et Magistra (1961), Papa Giovanni XXIII riconosce le radici profonde dell’insegnamento sociale nonché la posizione speciale di Leone XIII come suo maestro:
“4. Nessuna meraviglia dunque che la Chiesa cattolica, ad imitazione di Cristo e secondo il suo mandato, per duemila anni, dalla costituzione cioè degli antichi diaconi fino ai nostri tempi, abbia costantemente tenuto alta la fiaccola della carità, non meno con i precetti che con gli esempi largamente dati; carità che, armonizzando insieme i precetti del mutuo amore e la loro pratica, realizza mirabilmente il comando di questo duplice dare, che compendia la dottrina e l’azione sociale della Chiesa.
Orbene, insigne documento di tale dottrina ed azione, svolta lungo il corso dei secoli dalla Chiesa, è senza dubbio da ritenersi l’immortale enciclica Rerum novarum, promulgata settanta anni or sono dal nostro predecessore di v.m. Leone XIII. […] Raramente le parole di un Pontefice hanno riscosso un tale plauso universale. Nel peso e nella portata delle sue argomentazioni e nella forza della loro espressione, Papa Leone XIII può avere solo pochi rivali. Al di là di ogni ombra di dubbio, le sue direttive e i suoi appelli hanno stabilito per se stessi una posizione di così alta importanza che non cadranno mai, sicuramente, nell’oblio”.
Sfortunatamente, a parte la Rerum Novarum – e persino in quel caso, in maniera in un certo senso unilaterale – le direttive e gli appelli di Leone sono davvero caduti nell’oblio. È parte del nostro compito come fedeli cattolici all’inizio del terzo millennio recuperare il suo insegnamento, il quale, lungi dall’essere antiquato o irrilevante, è più attuale e urgente che mai.

Dove trovare l’Insegnamento Sociale Cattolico?

La DSC si trova principalmente concentrata nei documenti papali, specialmente in quel tipo di lettere universali chiamate encicliche. Per quanto questi documenti siano qua e là rinvenibili online, come insegnante ho notato che non è mai stato mai pubblicato un volume singolo contenente una selezione accorta, con un’enfasi sui documenti più risalenti e più forti. Per questo motivo, ne ho prodotto uno io stesso: A Reader in Catholic Social Teaching: From Syllabus Errorum to Deus Caritas Est (Tacoma, WA: Cluny Media, 2017), che contiene tutte le più grandi encicliche di Leone XIII, tra cui Diuturnum Illud (1881) sull’origine del potere civile, Immortale Dei (1885) sulla costituzione cristiana degli Stati, Libertas Praestantissimum (1888) sulla natura della libertà umana, Sapientiae Christianae (1890) sui doveri dei cristiani in quanto cittadini e Rerum Novarum (1891) sul capitale e il lavoro. Include anche la Quas Primas (1925) di Pio XI sulla Regalità Sociale di Cristo, la Casti Connubii (1930) sul matrimonio e la Quadragesimo Anno (1931) sulla ricostruzione dell’ordine sociale, e il discorso di Pio XII “Sulla tolleranza religiosa” [Ci Riesce] (1953), con alcuni dei migliori scritti di Giovanni Paolo II sulla teologia morale e la famiglia. (In un’intervista con P.J. Smith a First Things il 18 dicembre 2017, ho parlato del motivo per cui ho incluso alcune cose e ne ho escluse delle altre.)

Sono felice di poter dire che il libro è stato ripreso in corsi universitari, corsi di educazione cattolica per adulti e club librari. È abbastanza leggibile anche come lettura personale, per lo studio individuale, secondo il “programma del corso” fornito nella Prefazione. Prendete le encicliche una per una, e presto scoprirete che sono letture estremamente gratificanti, e forniscono molti spunti per la preghiera e l’azione. Solo la Chiesa cattolica ha presentato al mondo una visione cristiana coerente, completa e avvincente della società, dello stato e della cultura, radicata nella Sacra Scrittura e nella Sacra Tradizione, e raffinata da venti secoli di meditazione e impegno concreto. Se ignoriamo questo corpus di saggezza, lo facciamo a nostro rischio e pericolo.

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Kwasniewski, Dottrina Sociale. Venga Il Suo Regno. Seconda Parte.
Parte II – Gerarchia contro egualitarismo


Questo articolo è apparso per la prima volta nell’edizione cartacea di maggio 2020 di Catholic Family News e ripreso il 2 luglio 2020 dal sito online della medesima testata. 
 [Nota del Traduttore (dicembre 2020): Questo articolo che il dott. Kwasniewski è ben lieto di estendere al pubblico italiano tramite il blog del dott. Tosatti affronta la questione, oggetto di numerosi fraintendimenti nelle moderne democrazie liberali, del rapporto tra il principio di uguaglianza e quello di gerarchia. La seconda parte di questa serie di articoli sulla DSC assume un particolare rilievo oggi, se pensiamo come la triade rivoluzionaria “liberté, egalité, fraternité” – così puntualmente chiarita e rimessa nella giusta prospettiva da Papa Leone XIII – sia stata recuperata con non altrettanta chiarezza dal più recente magistero.] 
 Parte II: Gerarchia ed egualitarismo

La tendenza tra le rivoluzioni politiche della modernità è quella di oscillare tra l’esaltazione di una libertà illimitata (che in termini più esatti si definisce licenza) e l’applicazione di una sorta di uguaglianza sociale che è contraria al piano del Creatore e al bene del corpo politico. Queste due aspirazioni sono, tra di loro, in tensione permanente: un aumento della libertà porta necessariamente ad un aumento della disuguaglianza, mentre la realizzazione dell’uguaglianza comporta necessariamente limitazioni della libertà. Nella prossima parte di questa serie esamineremo la concezione cattolica della libertà e come essa si differenzia dalla licenza; in questa parte, focalizzeremo l’attenzione sulla concezione cattolica dell’uguaglianza, questione quanto mai attuale, se pensiamo agli infaticabili sforzi da parte di politici liberal di promuovere “leggi per l’uguaglianza” di vario genere.

Vera nozione di uguaglianza

Come per la maggior parte degli aspetti della DSC, a fornire l’analisi più approfondita della questione fu Papa Leone XIII, che si sforzava di dare una guida sicura a un mondo sedotto dal liberalismo, e messo costantemente a rischio dalla discordia rivoluzionaria. Mentre i socialisti – scrisse nel 1878 – “predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici [cioè nei doveri, NdT]”, la tradizione cristiana insegna che:
“tutti gli uomini sono uguali in quanto avendo tutti avuto in sorte la medesima natura, tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio; avendo tutti lo stesso fine da conseguire, dovranno essere giudicati a norma della stessa legge, per riceverne premi o pene secondo che avranno meritato. Tuttavia l’ineguaglianza di diritti e di potestà proviene dall’Autore medesimo della natura, “dal quale tutta la famiglia e in cielo e in terra prende il nome” (Ef 3,15)”. (Quod Apostolici Muneris, paragrafi I e VI) 
Riprendendo l’antico tema del “corpo politico” e dell’organismo cosmico che, in forma diversa, era anche l’immagine centrale usata da San Paolo quando parlava della Chiesa come “corpo di Cristo”, l’enciclica di Leone XIII Humanum Genus (1884) approfondisce il discorso:

“Nessuno dubita che tutti gli uomini siano uguali tra loro, per quanto riguarda la loro comune origine e natura, o l’ultimo fine che ciascuno deve raggiungere, o i diritti e doveri che ne derivano. Ma, poiché le capacità di tutti gli uomini non sono uguali, poiché uno differisce dall’altro nei poteri della mente o del corpo, e poiché ci sono molte diversità nei modi, nella disposizione e nel carattere, è assai ripugnante alla ragione tentare di confinare tutti entro la stessa misura, e di estendere la piena uguaglianza alle istituzioni della vita civile. Proprio come una perfetta condizione del corpo risulta dalla congiunzione e dalla composizione delle sue varie membra, che, sebbene differenti per forma e per scopo, realizzano, mediante la loro unione e la distribuzione di ciascuna al proprio posto, una combinazione bella a vedersi, salda, forte e necessaria alla vita; così, nello Stato, c’è una varietà quasi infinita degli individui che lo compongono. Se questi uomini verranno parificati, e ciascuno vivrà secondo la propria volontà, il risultato sarà uno Stato mostruosamente deforme; ma se, tramite una distinzione armonica per gradi di dignità, di attività e di impieghi, tutti coopereranno opportunamente per il bene comune, l’immagine che ne scaturirà sarà quella di uno Stato ben costituito e conforme alla natura”. [adattamento all’italiano corrente del traduttore]
Questo argomento, tra l’altro, è ben sviluppato nel discorso di Natale di Pio XII del 1944 sulla vera e falsa democrazia.

Alla fine della Humanum Genus, Leone XIII coglie l’occasione per presentare e raccomandare una comprensione cristiana del famoso slogan della Rivoluzione francese – liberté, égalité, fraternité : “Non come le immaginano assurdamente i massoni, ma come Gesù Cristo le ottenne per il genere umano, e come san Francesco le ravvivò nel mondo: la libertà, diciamo, dei figli di Dio, che ci libera dalla schiavitù di Satana e dalle nostre passioni, che sono i tiranni più malvagi; la fraternità, che ha la sua origine in Dio, Creatore e Padre di tutti; l’uguaglianza che, fondata sulla giustizia e sulla carità, non distrugge le differenze tra gli uomini, ma crea, dalla varietà della vita, dei doveri, delle inclinazioni, quell’unione e quell’armonia volute dalla natura a tutto beneficio e dignità della società.” [adattamento all’italiano corrente del traduttore] 

Nella Rerum Novarum (1891), Leone XIII giudicava l’utopia socialista della proprietà comune come una vera e propria ricetta per il disastro: “la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria” (n. 12) – parole profetiche, se guardiamo al corso del secolo successivo, con i suoi numerosi e fallimentari esperimenti di “liberazione” e “affermazione” marxista, per quanto, a dire il vero, non si può affermare che il capitalismo, con tutta la serie di vizi che si porta dietro, si sia dimostrato moralmente superiore (cfr. Pio XI, Quadragesimo Anno).

Autentica solidarietà

Basandosi sull’eredità di Leone XIII, Pio XII offre una trattazione profonda dell’argomento nella sua enciclica inaugurale Summi Pontificatus, scritta nel 1939, mentre sull’Europa calavano le tenebre della seconda guerra mondiale. Pio XII lamenta una crescente “dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. […] La prima pagina della Scrittura […] ci narra come Dio fece l’uomo” – maschio e femmina – “a sua immagine e somiglianza […] destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini”; in questo modo, tutti gli uomini sono veramente fratelli. La Scrittura ci propone “una meravigliosa visione” delle tante fonti di unità: possiamo trovarle “nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine.

E lo stesso apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile […]; nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini”.

Dopo aver passato in rassegna i fondamenti essenziali della solidarietà umana, Pio XII può concludere così: “Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni”. Il papa dunque prosegue applicando queste verità alle relazioni internazionali e all’appartenenza alla Chiesa.

Se lo mettiamo in termini sistematici, l’insegnamento cattolico si può presentare così: gli esseri umani – uomini, donne e bambini, senza alcuna eccezione – sono uguali per quanto riguarda la natura umana – razionale e libera – che possiedono; per quanto riguarda la loro capacità inerente (ma non attualizzata) nei confronti della verità e della bontà morale; per quanto riguarda i diritti naturali di cui sono dotati, e i doveri ad essi corrispondenti (cfr. Giovanni XXIII, Pacem in terris, nn. 5-25); per quanto riguarda il loro bisogno della società umana, verso la quale hanno certi obblighi, come anche verso le sue autorità di governo, quali che esse siano. Tutti questi punti si basano sul loro possesso di una natura umana, dalla quale sono costituiti come persone. Non è mai consentito trattare una persona come una non-persona, come un semplice mezzo per un fine ulteriore, per il quale essa può venire tranquillamente calpestata. Inoltre, gli esseri umani sono uguali per quanto riguarda la loro vocazione alla vita soprannaturale, la vita di partecipazione alla grazia divina: Dio desidera che tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della sua verità salvifica (cfr. 1 Tim 2: 4). Sotto questo profilo, sono uguali nei diritti e nei doveri che appartengono essenzialmente alla vocazione cristiana, il che include, ad esempio, poter ricercare e aderire alla verità su Dio, poter ricevere il Battesimo o uno qualsiasi dei sacramenti quando adeguatamente disposti (e questo è un punto che ha fatto molto discutere durante questa crisi pandemica), poter abbracciare la vita religiosa, e così via. Nessun potere terreno può legittimamente ostacolare il perseguimento di uno qualsiasi di questi beni.

Allo stesso tempo, la tradizione cattolica valorizza il sottile rapporto che si instaura tra la persona e le diverse società a cui appartiene, tra dignità individuale e solidarietà sociale. Nessun uomo è un’isola, ma tutti sono, in vari modi, chiamati a rispondere, ad essere responsabili verso gli altri, nel servizio di quel vero bene comune che davvero appartiene a me come a te più di ogni altro bene puramente privato. Dunque, il bene comune e il suo sostegno, la legge civile, pongono dei limiti alla libertà e ai diritti dell’individuo, proprio per consentire e favorire il miglior sviluppo di ciascuno e di tutti (questo è un argomento ricorrente nella DSC: v. Pio XI, Divini Redemptoris nn. 25-38, e per un’analisi più approfondita, Sul primato del bene comune, di Charles De Koninck). La dignità umana non è una proprietà immutabile e unidimensionale, ma, fondandosi saldamente sulla natura razionale dell’uomo, ammette un aumento di intensità man mano che l’uomo si avvicina al suo fine ultimo, che è oggettivamente Dio e soggettivamente la felicità dell’unione con Dio. La dignità attuale dell’uomo aumenta o diminuisce in proporzione al modo in cui si pone nei confronti del bene umano, sebbene non possa cadere così in basso da perdere del tutto la dignità, né può elevarsi così in alto da possedere una dignità pari a quella del suo Signore increato. La tradizione cristiana non è, in questo senso, egualitaria, ma ritiene che gli uomini siano classificati oggettivamente – anche se in modo invisibile ai nostri occhi – da quel fuoco della carità che arde nei loro cuori, e dalla chiarezza di visione con la quale sono uniti alla Verità Prima, riflettendo l’immagine della Sua Luce (cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 93).

L’errore degli estremi

Gli errori che sono sorti riguardo all’uguaglianza sono errori di estremi: da un lato, abbiamo un egualitarismo che o nega in linea di principio le differenze umanamente significative, respingendo ogni valutazione in proposito come “giudizio soggettivo”, o ammette che esistono, ma le vede come mali da superare attraverso una legislazione che punta a un livellamento massimo; dall’altro lato, troviamo l’estremo di un rigido senso di gerarchia che si risolve in una negazione, implicita o esplicita, del fatto che la natura umana è essenzialmente la stessa in tutti gli individui, e dei diritti e doveri che ne derivano, come si può vedere nel sistema indiano delle caste o nelle passate schiavitù del Nuovo Mondo. Nel moderno Occidente sembra esserci una strana tentazione di negare completamente, o per lo meno di minimizzare la rilevanza della più fondamentale tra le differenze naturali, cioè quella tra i sessi (si veda il magistrale commentario di Cahill, Framework of a Christian State, pp. 422-50). Esiste anche una sinistra tendenza a negare a intere classi di esseri umani (come ad esempio il nascituro o colui che si trova in una condizione di incoscienza) lo status di “persone” davanti alla legge, per evitare di riconoscerle pari detentori di quei diritti naturali che appartengono all’uomo in quanto uomo.

La nostra analisi si può spingere oltre approfondendo il tema della aristocrazia. Il termine “aristocrazia” si può utilizzare in due sensi. In senso stretto, si riferisce a una forma di governo o a un regime in cui il popolo è governato dagli aristoi, “i migliori”. In senso più ampio, si riferisce alla presenza all’interno di una società di una classe, una élite, distinta per nascita, ricchezza, istruzione o particolare coraggio nella difesa della patria (a volte, per tutte e quattro le caratteristiche insieme). Se, con Aristotele, intendiamo “i migliori” come coloro che sono nobili nello spirito, eccezionali nella virtù, modelli di saggezza pratica, una classe del genere può esistere o meno a seconda delle strutture sociali che ne favoriscono o ne avversano la nascita e la permanenza. Inoltre, una classe sociale è una categoria mutevole e variabile; il passare del tempo può portare al decadimento tanto di una classe sociale quanto dei singoli individui. Proprio come la democrazia può degenerare nell’oclocrazia o dominio delle masse, così l’aristocrazia può degenerare nell’oligarchia o dominio dei pochi a favore dei pochi.

Per quanto oggi si tenda a parlare come se i regimi aristocratici fossero scomparsi con l’avvento della moderna democrazia, si può ben dubitare del fatto che qualsiasi popolo o civitas sia mai stato governato da qualcosa d’altro che non fosse un’aristocrazia, con membri che ne fossero i “migliori” di fatto o soltanto di nome. Ci sarà sempre una élite privilegiata anche in quelle società che si vorrebbero democratiche o socialiste; si pensi soltanto alla nomenklatura dell’ex Unione Sovietica, che poteva godere dei migliori appartamenti, automobili e cibo, o ai Kennedy degli Stati Uniti.

Il primo equivoco di cui fare piazza pulita è il pregiudizio per cui la tradizione cristiana sarebbe essenzialmente anti-gerarchica, e che promuova un’utopia in cui tutti sarebbero uguali sotto ogni aspetto, dotati degli stessi diritti e degli stessi privilegi. Dal Nuovo Testamento traspare chiaramente che la preoccupazione principale dei primi cristiani era la liberazione dalla schiavitù del peccato e la vittoria sull’orgoglio personale. San Paolo esprime tutta la sua gioia per questa paradossalità del Vangelo: “Colui che è stato chiamato nel Signore quando era schiavo, è un affrancato del Signore; similmente colui che è stato chiamato quando era libero, è schiavo di Cristo. […] Quindi, fratelli, in qualunque stato ciascuno fosse chiamato, rimanga con Dio” (1 Cor 7:22, 24). La prospettiva dell’Apostolo era che le distinzioni sociali, per quanto spesso derivino dai peccati, non sono il contesto spirituale all’interno del quale il cristiano deve imparare a vivere, a muoversi, a giocare tutto il proprio essere. Quando afferma: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal. 3:28), non sta lanciando uno slogan per una rivoluzione comunista, ma sta esultando nell’ineffabile mistero della comunione con il Salvatore risorto.

Per san Paolo, come per gli altri testimoni del Nuovo Testamento, sempre ci saranno sia i ricchi che i poveri (cfr. Marco 14: 7; Rm 15:26; 2 Cor 8), quelli che hanno il potere e quelli che non lo hanno (cfr. Matt. 20:25; Rom. 13: 1–7; 1 Piet. 2:13), il famoso e lo sconosciuto, il colto e il grezzo. La domanda decisiva e – in un certo senso – l’unica domanda, è questa: dov’è il tuo cuore (cfr. Matt. 6:21)? Indubbiamente, più un uomo si volgerà verso il Signore, più si allontanerà dalle misure e dai pesi terreni, e penserà con la mente di Cristo (cfr. 1 Cor. 2:16; Rom. 8: 6–9 , 12: 2; Filip. 2: 1–5). Quindi, sebbene il cristianesimo non sia una forma di egualitarismo – non si tratta di una teoria astratta, ma di una vita di amicizia con Gesù – esso promuove però una radicale rivalutazione del rango e dei privilegi mondani, conducendo il discepolo sempre più a fondo nell’abnegazione totale del Re Crocifisso.

Per una Visione Equilibrata dell’Aristocrazia

Nei diversi secoli della cristianità è sempre esistita la tentazione di considerare qualsiasi classe privilegiata come, ipso facto, un’incarnazione dell’ingiustizia nei confronti dei diseredati. La macchina di propaganda della Rivoluzione francese ebbe particolare successo nel proiettare un’immagine puramente negativa dell’ancien régime e della sua nobiltà. Eppure non si devono né esagerare i vizi dell’aristocrazia né trascurarne le numerose virtù. Quel che è certo è che le classi d’élite di tutte le epoche si sono rese responsabili di molto bene e di molto male, secondo l’antico principio per cui corruptio optimi pessima. Molti che nacquero e crebbero aristocratici raggiunsero le rispettive vette di santità all’interno di quella sfera sociale: esempi ben noti sono Elisabetta d’Ungheria, Tommaso d’Aquino, Tommaso Moro, Francesco Borgia (o, più correttamente, Francisco de Borja y Aragon), e tutto il lungo elenco di santi re e regine di cui si è ornata la storia europea, fino all’ultimo monarca regnante della dinastia degli Asburgo, Carlo I (1887-1922). Vale la pena notare che, senza alcuna eccezione, questi santi praticavano la vita ascetica, incontravano incomprensioni e talvolta persecuzioni da parte degli altri membri della loro classe e, quando non rinunciavano del tutto alla loro posizione e al potere, distribuivano comunque generosamente le loro ricchezze ai bisognosi. Nel bellissimo libro di Ferdinand Holböck Married Saints and Blesseds Through the Centuries (San Francisco: Ignatius Press, 2002) molti dei santi che vengono presentati appartenevano alla nobiltà della propria epoca.

D’altra parte non serve nascondersi il fatto che le classi “più alte” abbiano perpetrato crimini oltraggiosi contro le classi “più basse”, come quando la aristocrazia de facto costituita dagli spagnoli in Sud America o dagli inglesi in Nord America trattava gli indigeni americani con tale spietata brutalità da sollevare appassionate proteste in nome dei diritti umani fondamentali (e mi vengono in mente i grandi teologi domenicani Francesco de Vitoria e Bartholomé de Las Casas). Sfruttare terribilmente i poveri, o chiudere un occhio nei confronti dello sfruttamento, è stata una caratteristica fin troppo familiare del rapporto tra le classi “superiori” e “inferiori” della storia occidentale, e non si può negare che questo scandalo e questa sofferenza abbiano svolto un enorme ruolo nei violenti sconvolgimenti dell’epoca moderna. Nella sfera della politica, in particolare, troppo spesso l’autorità non è stata diretta al bene comune dei governati, ma verso il bene privato del governante o di particolari gruppi di interesse; si può vedere qualcosa di simile nel modo in cui i vescovi, i superiori religiosi, o anche i mariti e i padri hanno governato, a volte, più per loro comodità e convenienza che per il vero bene di chi era affidato alle loro cure. L’ascesa del liberalismo (ivi incluso il femminismo) è, almeno in parte, una reazione contro veri abusi, proprio come il protestantesimo, il progenitore del moderno liberalismo, guadagnò plausibilità al suo dissenso grazie al lassismo e alla confusione della Chiesa tardo medievale.

Forse sorprenderà molti sapere che il magistero della Chiesa contiene degli insegnamenti ufficiali diretti agli aristocratici, che ne chiariscono i diritti e i doveri. La fonte principale di questo insegnamento fu Papa Pio XII – egli stesso un membro dell’aristocrazia romana – che seppe combinare una profonda conoscenza della storia politica con una lucida consapevolezza delle crisi della modernità. “Un’attenta lettura dei documenti dei pontefici precedenti e successivi a Pio XII rivela che lui soltanto ha trattato metodicamente la questione della nobiltà, spiegandone la natura e la missione passata e presente” (tutte queste affascinanti allocuzioni del Pastor Angelicus dal 1940 al 1958 sono raccolte in Plinio Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana, pp. 134 s.s.). Papa Benedetto XV, rivolgendo una toccante allocuzione allo stesso illustre gruppo nel gennaio 1920, arriva a parlare di un “sacerdozio della nobiltà”, esortando i nobili di tutto il mondo a dare un esempio degno nel parlare, nel vestire e nei modi, a preservare e a promuovere “il patrimonio intellettuale” della cristianità, a praticare la loro santa fede senza paura e con fervore (de Oliveira, 158-160).

Conclusione

Con argomenti presi dalla ragione naturale e dalla Sacra Scrittura, la Chiesa cattolica ha sempre sostenuto un “et et” dell’etica sociale: da un lato, afferma la giustizia della stratificazione sociale, vale a dire dell’ineguaglianza basata sulla virtù, sullo sforzo e sulla posizione; dall’altro, riconosce l’uguaglianza assoluta della natura umana e della vocazione battesimale del cristiano, che non ammette alcuna cancellazione o abrogazione. Queste due verità si legano strettamente al principio per cui la gerarchia è a servizio del bene comune, e il bene comune si realizza soprattutto nella Visione beatifica, dove tutti i beati godono della felicità piena di possedere il bene supremo, e godono della visione di Dio secondo diversi gradi in base alla loro carità durante questa vita. Il principio cardine qui sulla terra, quindi, dev’essere questo: ciò che è superiore, migliore o più forte è ordinato al servizio di ciò che è inferiore, più bisognoso e più debole, alla costruzione dell’intero organismo sociale nella giustizia e nei legami di vera amicizia. È e rimarrà sempre vero il vecchio assioma: servire est regnare, servire è regnare. 
 (Traduzione a cura di Carlo Schena)

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