Ricorreva ieri il XIV Anniversario dall'emanazione del Summorum pontificum [qui]. Nella nostra traduzione da Crisis Magazine, il realistico e dirompente intervento di Peter Kwasniewski sul motu proprio Summorum pontificum e le sue implicazioni, soprattutto dopo le recenti avvisaglie negative [qui trovate anche i link ai precedenti; vedi anche qui].
A quattordici anni dal Summorum Pontificum: i suoi tragici difetti
Peter Kwasniewski
Man mano che si palesa sempre più la corruzione dottrinale e morale della gerarchia della Chiesa odierna, che rivaleggia con quanto ci è documentato dell'epoca rinascimentale, sembra quasi un miracolo che il Summorum Pontificum - il motu proprio emanato da papa Benedetto XVI che liberalizza la celebrazione della Messa in latino - sia stato emesso. Ha costituito uno spartiacque, un gesto forte di benignità, e un chiaro fattore di incremento delle messe tradizionali in tutto il mondo e di indebolimento dell'egemonia dei modernisti. Siamo stati grati di avere un papa che, invece di gettare un osso ai presunti nostalgici – gli “indulti” di Paolo VI e Giovanni Paolo II – ha avuto il coraggio di dire la verità: la grande liturgia della nostra tradizione non era mai stata abrogata e mai potrebbe esserlo.
È giusto dire subito che il Summorum Pontificum è stato utile al movimento cattolico tradizionale così come in altri tempi un enorme razzo serviva a lanciare in orbita un'astronave: è dotato di molta potenza grezza ma può fare solo questo, e una volta esaurito il compito, cade. Il Summorum è destinato a essere uno dei grandi interventi papali della storia, ma non serve ad altro che a ridurre i danni; non può essere un pilastro, tanto meno un fondamento, di una struttura permanente.
Se non ne comprendiamo i punti deboli, non saremo in grado di capire perché siamo ancora così vulnerabili alle macchinazioni di papa Francesco e della sua cerchia e, più precisamente, non saremo in grado di raccogliere la forza necessaria per ignorare o opporci a ciò che il Vaticano potrebbe fare per ridurre o impedire la celebrazione del rito romano classico. Per quanto il movimento tradizionale abbia beneficiato pragmaticamente del Summorum (e su questo non possono esserci dubbi), dobbiamo imparare a appoggiarci completamente sulle nostre gambe, in modo da non crollare impotenti quando la stampella o il supporto giuridico venga improvvisamente rimosso.
Il Prologo del Summorum è un vero e proprio inno al ruolo centrale dei Romani Pontefici nel condurre la sacra liturgia nel corso dei secoli. Benedetto XVI riconosce giustamente il ruolo decisivo svolto da san Gregorio Magno, san Pio V e molti altri pontefici (il suo elenco comprende Clemente VIII, Urbano VIII, san Pio X, Benedetto XV, Pio XII e Giovanni XXIII). Tuttavia, non nota un fatto importantissimo: i papi, anche se di tanto in tanto modificavano i dettagli della liturgia, non si consideravano mai maestri e possessori dei riti della Chiesa, come se potessero esercitare su di essi un controllo completo, come se potessero gettare a mare questi riti e ridisegnarli da zero se ne avessero voglia. Per usare una metafora cara a Ratzinger, la loro era opera di giardinieri, non di fabbricanti. Se consideriamo i papi uno per uno, il contributo di ciascuno di loro impallidisce rispetto alla somma totale dell'eredità che hanno ricevuto e tramandato.
L'elenco dei papi nominati dal Summorum include un papa del sesto secolo, uno del sedicesimo, uno del diciassettesimo e cinque del ventesimo. Dopo molti secoli di stabilità - un fatto che non significa fissismo ma piuttosto un perfezionamento della forma che matura lentamente sotto la guida dello Spirito Santo, come ho sostenuto altrove - non possiamo non notare che "c'è qualcosa che non va" una volta arrivati nel ventesimo secolo: una sorta di escalation di prurito o mania di riforma liturgica mentre si passa dai cambiamenti di breviario e calendario d'inizio secolo, a una revisione della Settimana Santa a metà del secolo, a una decostruzione e ricostruzione di tutti i riti e cerimonie nel decennio 1963-1974.
Vediamo prove, francamente, di un ultramontanismo ipertrofico che fa del papa colui che determina il contenuto e il messaggio del culto cattolico, con sempre meno rispetto per la tradizione. Con la netta differenza che il rito romano codificato da Pio V dopo il Concilio di Trento preesisteva a qualsiasi codificazione papale. Quel Missale Romanum è quello che è non perché lo abbia fatto il papa, ma perché il papa ha verificato e convalidato ciò che aveva ricevuto, in un'edizione a stampa che gli è sembrata la più fedele alla tradizione.
Il Summorum Pontificum descrive così gli amanti dell'antico rito: «In alcune regioni, non pochi fedeli hanno aderito e continuano ad aderire con grande amore e affetto alle antecedenti forme liturgiche», che, dice Papa Benedetto, «avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito”. Tuttavia, non è dovere dei cattolici in quanto tali amare la liturgia che è pervenuta loro dalla fede delle epoche precedenti? Questo era nientemeno che l'obiettivo primario della parte sana del Movimento Liturgico come lo riconosciamo nella figura di Dom Prosper Guéranger: conoscere meglio la liturgia ereditata, per amarla di più e viverla più pienamente.
La “cultura e lo spirito” di questi fedeli erano “profondamente segnati” dalla loro liturgia – certo, e giustamente! I fedeli che si sforzavano di essere cattolici praticanti non avevano bisogno di una liturgia diversa, poiché quella con cui già adoravano aveva conquistato i loro cuori e le loro menti, e aveva permeato la loro vita e anche i loro ambienti sociali (basti pensare alle ricchezze dell'antico calendario liturgico). È come se il Summorum identificasse come minoranza l'unica mentalità cattolica e l'unico esito auspicato in tutta la storia della liturgia. Di conseguenza, la cosiddetta riforma fu un atto di violenza con cui i fedeli furono estraniati dalle “forme liturgiche” che definivano la fede e la vita cattolica.
Dopo aver offerto un elenco di papi che non hanno mai osato vietare (e, per lo stesso motivo, non hanno mai osato “permettere”) il culto nei riti antichi, Benedetto XVI cita l'“indulto” di Giovanni Paolo II, concetto che ha senso solo nell'ipotesi che la Chiesa abbia l'autorità di bandire o sopprimere un rito tradizionale, che Benedetto, solo pochi paragrafi dopo, smentisce (e, peraltro, nega in molti altri suoi scritti). Solo ciò che è stato definitivamente interrotto richiede un indulto; se l'usus antiquior non è mai stato abrogato e non può essere abrogato, allora un prete non ha mai avuto bisogno del permesso per dirlo, e mai avrà bisogno del permesso per dirlo.
Questo punto è ovviamente oltrmodo importante quando si reagisce a eventuali futuri tentativi papali o curiali di sovvertire l'uso del rito romano tradizionale. Purtroppo, nel suo approccio globale Summorum Pontificum [qui] e la lettera di accompagnamento ai vescovi Con Grande Fiducia [qui] riflettono ancora la falsa opinione secondo cui il papa e i vescovi hanno l'autorità di stabilire se ai sacerdoti ordinati sia consentito o meno di utilizzare la forma classica del rito romano, l'unica forma esistente di derivazione apostolica e di rito che nella chiesa ha conosciuto uno sviluppo organico di oltre 1.500 anni. È una contraddizione in termini dire che un sacerdote di rito romano utilizzi normativamente un rito in parte deformato e in parte inventato promulgato da un solo papa, mentre lo stesso sacerdote potrebbe o meno essere in grado di utilizzare un rito venerabile ricevuto e trasmesso da centinaia dei papi, sostenuti dalla loro autorità cumulativa.
La caratteristica più nota del Summorum Pontificum è la sua affermazione, nell'articolo 1, che ci sono due "forme" del rito romano:
Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.
Eppure l'affermazione che il Missale Romanum del 1969 di Paolo VI (il "Novus Ordo") sia, o appartenga, allo stesso rito del Missale Romanum codificato per l'ultima volta nel 1962, o, più chiaramente, che il Novus Ordo possa essere chiamato "il rito” della Messa – non può resistere all'esame critico, né questa affermazione può essere sostenuta riguardo a due libri liturgici, Vetus e Novus. Mai prima d'ora nella storia della Chiesa romana ci sono state due “forme” o “usi” dello stesso rito liturgico locale, contemporaneamente e con uguale statuto canonico.
Che papa Benedetto potesse dire che l'uso più antico non era mai stato abrogato (numquam abrogatam) dimostra che la liturgia di Paolo VI è qualcosa di nuovo, più che una mera revisione dell'antecedente, poiché ogni precedente editio typica del messale aveva sostituito ed escluso la precedente. Mentre ci sono sempre stati diversi "usi" nella Chiesa latina, questo sdoppiamento della liturgia di Roma è un caso di disturbo dissociativo dell'identità o schizofrenia.
Non è affatto possibile, né tanto meno desiderabile, parlare del rito tridentino e del Novus Ordo come “due usi” o “forme” dello stesso rito romano; ed è assurdo affermare che la forma deviata è "ordinaria" e quella tradizionale "straordinaria", a meno che la valutazione non sia meramente sociologica o statistica. Con una crescente compagine di studiosi che mostra le differenze radicali nel contenuto teologico e spirituale tra il rito romano e il moderno rito papale di Paolo VI, non è intellettualmente onesto o credibile affermare che il vecchio e il nuovo rito esprimano la stessa lex orandi o, di conseguenza, la stessa lex credendi. Può darsi che il nuovo rito sia esente da eresia, ma la sua lex orandi si sovrappone solo in parte a quella dell'antico rito, e così anche per le credenda che essi trasmettono — come si vede non solo nei testi ma anche nelle cerimonie e in ogni altra dimensione del culto pubblico.
Una pretesa comune ai tradizionalisti di ogni genere, potrebbe essere la seguente: ciò che Paolo VI ha fatto alla liturgia della Chiesa cattolica è stato un sommovimento tettonico, un assalto senza precedenti alla tradizione - e quindi veramente sbagliato, indegno del papato, incompatibile con i doveri dell'ufficio papale, malvagio come è malvagio il parricidio o il tradimento. Sappiamo che i papi precedenti arricchivano o modificavano i riti, ma mai in modo tale da poter guardare al “prima” e al “dopo” e dire: sono cose diverse. Paolo VI fece quello che nessun papa aveva mai osato fare: cambiare ogni rito della Chiesa cattolica, da cima a fondo. Ha anche modificato tutti i formulari sacramentali, la più sacra delle formule.
Nel confrontare le messe antica e nuova, si osservano calendari in gran parte incompatibili, lezionari quasi totalmente diversi, e una radicale decostruzione dell'eucologia (cioè dei testi di preghiera), della musica e delle rubriche. Simili confronti sfavorevoli possono essere fatti tra due azioni qualsiasi della Chiesa in preghiera: vecchio e nuovo battesimo, vecchia e nuova cresima, vecchie e nuove ordinazioni diaconali, sacerdotali ed episcopali, vecchie e nuove benedizioni di qualsiasi oggetto, e così via. Indubbiamente, i tradizionalisti hanno ragione a dire che non si è trattato affatto di una "riforma", ma piuttosto di una rivoluzione.
Un papa ha l'autorità per fare ciò che ha fatto Paolo VI? Non gli chiedo se potesse pretendere di avere l'autorità, spendendo mille anni di capitale politico nel chiedere alla gerarchia e ai fedeli un'obbedienza alla caparbietà, una ricezione della rivoluzione che vizia l'atteggiamento cattolico che definisce l'accoglienza della tradizione. Né mi chiedo cosa Paolo VI avesse in mente soggettivamente di fare o di poter fare, né cosa i vescovi e il resto dei fedeli pensassero soggettivamente di fare o dovessero fare in risposta all'imposizione di nuovi riti che hanno più affinità con Cranmer e Pistoia che con Cluny e Trento.
Piuttosto, dovremmo chiederci se oggettivamente un papa abbia il diritto di sostituire nuovi riti ai riti sviluppati organicamente all'interno della Chiesa cattolica lungo tutta la sua storia. Le intenzioni soggettive possono essere disordinate e confuse; ma oggettivamente la rivoluzione liturgica ha separato i cattolici dalla loro stessa tradizione, dall'ortodossia come "culto logico", e ha riconfigurato il rapporto tra lex orandi e lex credendi in modo tale che una coalizione di liturgisti che canalizza "il magistero del momento" diventi l'unica norma della preghiera.
Se tale rottura può essere considerata legittima e accettabile, non sono più rimasti principi perenni nella liturgia: tutto è stato ridotto a mero esercizio del papato in qualunque modo si voglia. Il cardinale Juan de Torquemada (1388-1468) ha espresso la miglior prospettiva di buon senso della maggior parte della storia della Chiesa: se un papa non osserva «il rito universale del culto ecclesiastico» e «si divide con pertinacia dall'osservanza della chiesa universale», è “suscettibile di cadere nello scisma” e non è né da obbedire né da “ tollerare ” ( non est sustinendus ).
Questo è dunque il problema fondamentale del Summorum Pontificum: è internamente incoerente, fondato su una monumentale contraddizione causata dal peggior abuso del potere papale nella storia della Chiesa. Di conseguenza, le sue disposizioni non possono fare a meno di echeggiare, quasi ad ogni passo, una dialettica insolubile tra i privilegi irrinunciabili della tradizione ecclesiastica collettiva e un'autorità assunta o presunta sull'origine della liturgia, sull'ontologia e sulla teleologia. Il motu proprio riflette e rafforza i falsi principi dell'ecclesiologia e della liturgia che hanno portato alla crisi stessa a cui è stata data una parziale risposta. L'opera di Benedetto XVI, infatti, è spesso caratterizzata da un metodo dialettico hegeliano che vuole contenere contemporaneamente elementi contraddittori, ovvero ricercare una sintesi più alta da una tesi e dalla sua antitesi (in questo quadro si può intendere l'arricchimento reciproco).
Dopo il suo Prologo e l'articolo 1, il resto del Summorum Pontificum tiene sottilmente in ostaggio la liturgia tradizionale, o le dà, per così dire, cittadinanza di seconda classe. Il risultato pratico del suo linguaggio è stato quello di moltiplicare le scuse per pastori e vescovi, i quali possono sempre affermare che la cura pastorale è o sarebbe ostacolata dall'esistenza di sacramenti nel vecchio rito, che la guida episcopale implica il potere di veto sulla facoltà del sacerdote di “esser disposto ad accettare le richieste” di celebrare la venerabile Messa, e che i cattolici che la richiedono fomentano la discordia e minano l'unità della Chiesa.
Il Summorum Pontificum complica inutilmente la situazione e moltiplica le possibilità di ostruzionismo burocratico. Non è mai facile persuadere i vescovi ad essere veramente pastorali, ma un documento che dicesse semplicemente: "La vecchia Messa deve essere resa disponibile in ogni diocesi in più luoghi entro tale data, e tutti i seminaristi devono esservi addestrati” avrebbe potuto superare parte dell'inerzia, dell'ostruzionismo e della procrastinazione perpetua che abbiamo visto nei quattordici anni dalla pubblicazione del motu proprio.
L'articolo 9 può essere preso come caso di studio:
Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, può anche concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell’Unzione degli infermi, se questo consiglia il bene delle anime.
Sebbene l'intenzione sia ammirevole — liberare queste ricchezze a beneficio delle anime — il linguaggio è ancora una volta troppo cauto, troppo evasivo. Quando sappiamo che un pastore ha “scrutato con attenzione tutti gli aspetti”? Quando lui lo sa? Perché deve concedere il permesso per gli altri riti sacramentali, se non sono stati più abrogati della Messa? E la condizione primaria, «se il bene delle anime sembri richiederlo», sarà spesso accolta con una fragorosa replica: «La salvezza non dipende da un particolare rito liturgico!».
Conosco vescovi che semplicemente negano categoricamente che sia un bene per le anime avere accesso ai riti tradizionali della Chiesa; dicono che è meglio per loro essere “obbedienti”, essere “umili e contenti di ciò che la Chiesa fornisce” e “non cercare esteriorità o fissarsi sulle proprie idee di ciò che è riverente”, ecc. così: se pastori e vescovi avessero la più pallida idea di cosa sia “per il bene delle anime”, non saremmo nella situazione disastrosa in cui siamo.
Per quanto grandi siano i benefici che si siano potuti raccogliere attraverso il Summorum Pontificum, abbiamo un disperato bisogno di una comprensione teologica più completa della legittimità intrinseca della liturgia tradizionale e dell'inalienabilità (per così dire) dei diritti del clero e dei laici verso essa. Dobbiamo renderci conto che, per quanto i papi abbiano aggiunto al culto divino nel corso dei secoli, non siamo obbligati ai papi sulla liturgia; essa preesiste loro, superiore nella sua realtà e nella sua autorità; è possesso comune di tutto il Popolo di Dio.
Se viene abrogato il Summorum Pontificum, non sarà con ciò abrogata la tradizionale liturgia romana; se le disposizioni del Summorum vengono ridotte, non sarà la ragione per limitare la sempre crescente restaurazione del nostro immenso tesoro di fede e cultura. Può darsi che la Divina Provvidenza veda la necessità di svezzarci ancora di più dal latte dell'ultramontanismo affinché possiamo continuare a nutrirci della tradizione, con o senza l'approvazione dei prelati.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
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