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mercoledì 1 dicembre 2021

Riflessioni sulla vittoria romana nelle guerre puniche, fondamentale per l’Italia e lo sviluppo della civiltà

Le ultime di cronaca non ci hanno risparmiato neppure l'ultima uscita del ministro della “transizione” Roberto Cingolani: «Non serve studiare quattro volte le guerre puniche, servono più digital manager». In nome di ciò che per le ideologie dominanti rappresenta il progresso ma, sostituendo senza remore la realtà degli esseri umani con l'amministrazione delle cose, mina alle fondamenta la nostra civiltà forgiata dall'umanesimo cristiano. Se lo sviluppo economico, tecnologico e scientifico si identifica con l'ossessione produttivista, materialista e pratica non c'è più posto per le finalità qualitative consone alla realizzazione dell’uomo e alla sua dignità. Non dimentichiamo che anche la cultura è un processo in divenire attraverso un percorso che inizia nella scuola ma non ha mai fine e implica conoscenze di base che consentono di acquisire e affinare competenze in ogni periodo della vita... Quanto alle guerre puniche, ad esempio, il loro studio insegna le leggi dell’espansione degli imperi. Lo scontro fra Roma e Cartagine infatti è un problema di sfere di influenza, fra una città come Cartagine che praticava una espansione di tipo sostanzialmente marittimo, attraverso il controllo delle rotte commerciali, e uno Stato che invece preferiva il controllo diretto dei territori, inglobandoli nella sua struttura. Le ostilità esplodono a causa di interessi commerciali, ma anche di rivalità politica per l’egemonia nel mediterraneo e della concorrenza spietata fra le due potenze rivali. Studiarne la dinamica nella complessità di scenari e realtà, anche secondarie, in campo permette di affrontare tematiche sempre attuali, sulle quali ha senso far riflettere i ragazzi di oggi. E dunque vale la pena per noi approfondirle grazie alla sapiente lettura che ce ne offre Paolo Paqualucci nelle riflessioni riprese di seguito. (M.G.)

Riflessioni sulla vittoria romana nelle guerre puniche,
fondamentale per l’Italia e lo sviluppo della civiltà

di Paolo Pasqualucci
1. Una vittoria dimenticata 
Il 19 ottobre dell’anno 202 a. C., anno 552 ab urbe condita, nelle pianure a sud di Tunisi, l’esercito romano con i suoi alleati numidi, guidato da Lucio Cornelio Scipione, detto poi Africanus proprio in seguito a questa vittoria, distruggeva l’esercito cartaginese, comandato dal fin allora invitto Annibale. Quella sanguinosa battaglia, che vendicava Canne, poneva finalmente termine alla seconda guerra punica (la “guerra annibalica”, per i Romani). Una guerra tremenda, durata 17 anni, dal 219 al 202 a. C., durante la quale l’Italia fu devastata da cima a fondo e perì, secondo Mommsen, circa un quarto dei cittadini romani, forse trecentomila uomini. Sembra che alcune zone del Centro-sud non si siano mai più riprese dalla terra bruciata provocata dalle devastazioni inflitte da Annibale agli Italici rimasti fedeli a Roma.

Si trattò di una vittoria decisiva. Non solo perché lasciò i Cartaginesi senza esercito, costringendoli alla resa e a una pace che li lasciò disarmati e senza impero, retrocedendoli alla condizione originaria di semplice città dedita al commercio. Non solo per i protagonisti principali di essa, i Romani e gli Italici loro alleati, i quali, atterrando per sempre un nemico potente, tenace, astuto, valoroso e spietato (tale deve obiettivamente considerarsi l’avversario cartaginese), acquistarono il dominio, diretto ed indiretto, dell’Africa del Nord sino alla Libia, della Penisola Iberica e confermarono quello sulla Sicilia e la Sardegna. Il Mediterraneo Occidentale era adesso di fatto un lago romano. Questo dominio l’avrebbero rafforzato e tenuto senza interruzione per circa sei secoli (scusate se è poco), perdendolo alla fine grazie all’insediamento progressivo dei Germani in Gallia, Spagna, Italia e Africa durante il V secolo dopo Cristo, quando l’impero crollò in Occidente.
2. Il significato di quella vittoria nella storia mondiale e italiana
Decisiva, quella vittoria, per lo sviluppo della civiltà. Se i Cartaginesi avessero vinto quella guerra, cosa perfettamente possibile, non ci sarebbe stato alcun impero romano (forse Roma sarebbe addirittura scomparsa) e noi saremmo molto diversi da ciò che siamo; o meglio, non saremmo affatto. Invece della colonizzazione romano-italica dell’Africa del Nord (sant’Agostino ne è il prodotto più tardo e più illustre, essendo nato da madre punica (santa Monica) e da padre di origine romana, Patricius) avremmo avuto la colonizzazione cartaginese dell’Italia e delle sue isole. Cartagine, come aveva già fatto in Sardegna, avrebbe trapiantato africani tra noi e incoraggiato i matrimoni misti. Avrebbe importato la sua mostruosa religione, con i sacrifici umani a Baal. I Capuani traditori sarebbero stati premiati con un simulacro di Federazione italica, pienamente controllata da Annibale. Avrebbe, inoltre, sicuramente premiato a dovere i Celti della pianura padana, che si erano schierati compatti dalla sua parte. L’Italia sarebbe ricaduta nel peggior particolarismo e nella barbarie, dalla quale stava faticosamente uscendo, grazie all’opera conquistatrice ma anche di governo, civilizzatrice di Roma.

L’attacco di Annibale fu particolarmente insidioso e quasi letale: si abbatté sull’Italia mentre stava emergendovi in maniera decisiva l’unica Potenza in grado di por fine all’anarchia che la distingueva; interruppe l’unificazione della Penisola mirando ad impedirla per sempre. Ma la vittoria cambiò il destino dell’Italia, conferendole un’egemonia mediterranea che sarebbe durata sei secoli circa e ponendola per secoli al centro della storia mondiale.

2.1 La situazione dell’Italia, immersa nella guerra di tutti contro tutti

I popoli dell’Italia, sin da quando si hanno notizie storicamente affidabili, risalenti cioè al VII-VI secolo a. C., si erano sempre combattuti tra di loro per la sopravvivenza e l’egemonia locale, coalizzandosi via via (ricorrendo anche allo Straniero) contro quello che sembrava al momento il più forte e mostrava di esser capace di dominare tutti gli altri: uno schema che sarebbe puntualmente riapparso nell’Italia post-romana dopo la Guerra Gotica, del VI secolo d. C., devastata, impoverita, spopolata e divisa tra Longobardi e Bizantini. Tra i popoli dell’Italia antica i più civili furono gli Etruschi e i Sicelioti e Italioti ossia i Greci di Sicilia e d’Italia. Sempre in lotta tra di loro, fondarono tuttavia due forti entità politiche, basate sulle confederazioni di città. Lo Stato etrusco si estendeva in verticale, dalla Campania al Trentino e verso il Brennero, occupando, ad un certo punto, anche Roma e il Lazio . Nella spinta verso sud fu bloccato dalla greca Cuma e dalla potenza soprattutto navale della greca Siracusa. I Cartaginesi tenevano la Sicilia occidentale e la Sardegna, senza avventurarsi nel montagnoso interno. Abitualmente tenevano le coste, con le loro basi ed empori. Di fronte a Cuma, nel 474 a. C. i siracusani ottennero una grande vittoria navale contro gli Etruschi, cantata da Pindaro. Siracusa ebbe temporaneamente dominio anche nel mare Adriatico, fondando una colonia ad Ancona. Ma sia lo Stato etrusco che le formazioni statali dei Greci d’Italia subivano l’iniziativa dei rudi ma bellicosi popoli italici che tenevano tutta la dorsale appenninica, rampolli di antichi ceppi indo-europei. Era la prolifica nazione osco-umbra, con le sue numerose ramificazioni, dai Campani ai Sabelli, ai Sanniti, ai Lucani: popolazioni di contadini, pastori, produttori di latticini, guerrieri e mercenari. Gli Etruschi non riuscirono a varcare l’Appennino, a raggiungere l’Adriatico mentre i Greci della Magna Grecia non riuscirono ad avanzare verso nord, nemmeno con l’aiuto delle spedizioni di capi e sovrani ellenistici, da Alessandro il Molosso, zio di Alessandro Magno, che fallì contro i Lucani, ad altri capi minori sino a Pirro, re dell’Epiro, la cui grande spedizione fu fermata dallo Stato romano già abbastanza potente, nel 280-275 a. C.

Lo Stato etrusco perdette la Campania, con le importanti città di Capua e Cuma, invasa dai Sanniti. A Capua, la popolazione, di origine etrusca, fu massacrata e dispersa. Roma, dopo la cacciata dei re etruschi aveva mutato regime, attraversando un periodo grigio ma si era ripresa e aveva distrutto Veio, centro strategico etrusco. Ma grave fu soprattutto l’attacco dei Celti, popolazioni estremamente primitive e feroci, che invasero l’Italia dai passi alpini occidentali a partire dall’anno 400 a. C. e si stabilizzarono alla fine, con la loro struttura sociale tribale e prevalentemente cantonale, in Lombardia ed Emilia, formando un largo cuneo che divideva i Veneti (sempre alleati dei Romani) dai Liguri dell’odierno Piemonte e Liguria, ancora primitivi. Genua era però già un attivo centro commerciale e fu sempre alleata dei Romani. I Celti non formarono mai uno Stato. Erano confederazioni di tribù, che vivevano in villaggi fortificati e borghi. Periodicamente compivano vere e proprie razzie contro gli altri popoli ai quali si offrivano anche come mercenari, per le numerose guerre e guerricciole che infestavano la Penisola. Erano “i lanzichenecchi del mondo antico” (Mommsen). Praticavano una religione tenebrosa, che ammetteva i sacrifici umani e il culto delle teste dei nemici conservate ricoperte da maschere d’oro e appese alle porte delle loro capanne: a volte trasformate in coppe. Erano odiati e temuti da tutto il resto d’Italia, in particolare da Etruschi e Romani. In una delle loro puntate offensive verso sud distrussero l’esercito romano all’Allia, un piccolo affluente del Tevere, nel 390 a. C., devastando e bruciando la città tranne il Campidoglio.

Gli Etruschi si ridussero alla fine alla sola Etruria, che sarebbe stata alla fine conquistata dai barbari Celti senza l’intervento dei Romani. Ma l’espansione dei popoli italici dagli Appennini non era comunque in grado di fondare uno Stato che non fosse una realtà meramente locale, regionale e tribale. I vari popoli tendevano a formare Leghe, più o meno cangianti, e a mescolarsi in certe zone. Anche a causa della sua geografia, l’Italia era in realtà aperta a tutte le invasioni e in preda ad una perenne frammentazione, dalla conflittualità diffusa e capillare. E difatti era minacciata dai Cartaginesi e dai sovrani ellenistici, come dimostra l’attacco in grande stile portato da Pirro. I Cartaginesi stavano conquistando la Spagna da sud, gradualmente. Miravano a fare la stessa cosa con l’Italia, muovendo dalle isole e dal possesso dell’intera Sicilia, che mai loro riuscì perché non riuscirono a conquistare la Sicilia orientale. Circa mille anni dopo, arabi e berberi musulmani, avrebbero seguito le stesse direttrici per tentare di conquistare l’Italia. La difficile e faticosa conquista dell’Italia da sud è riuscita raramente: da Belisario, generale bizantino, nel VI secolo e ai poderosi eserciti anglo-americani, nel 1943-45, tuttavia con notevoli difficoltà.
2.2 L’ascesa di Roma, una necessità storica, un bene per l’Italia

Vige oggi un “politicamente corretto” pacifista, ugualitarista, femminista, umanitario e quant’altro, che si compiace di denigrare la romanità, ricordandone solo i difetti o il periodo della decadenza; tutto intento a rappresentare l’ascesa di Roma quale impresa di lupi rapaci in mezzo ai supposti agnelli costituiti dai popoli di un’Italia antica pacifica, industre e agreste, dedita alla pastorizia sui verdi Appennini, alle industrie e al commercio in Etruria; o alle arti, alla filosofia, e ancora al commercio nelle raffinate città della Magna Grecia; o all’agricoltura e alla poesia epica nei cantoni dei Celti, con i loro bardi. Questo bel quadretto idillico, è ovvio, non ha assolutamente nulla a che vedere con la realtà storica.

Si avversa oggi il ricordo stesso di Roma perché, nel suo aspetto positivo e duraturo, la civiltà da essa fondata si basava sui valori che oggi l’Occidente decadente e corrotto ha rinnegato: dalla famiglia e dal matrimonio monogamico al senso dello Stato, del diritto, dell’autorità, del bene comune, del valore militare, della disciplina come norma di vita, della saggia politica.

I Romani iniziarono come gli altri, cercando cioè di costruire il loro staterello difensivo con le guerre e le alleanze. Inizialmente, sconfissero la Lega Latina nella battaglia del Lago Regillo nel 496 a. C. stabilendo però una Federazione con gli sconfitti (Foedus Cassianum), egualitaria sul piano militare. Subirono successivamente la potenza estrusca, che fu anche benefica per la città. Ridiventati indipendenti, ricominciarono le lotte assai dure per la sopravvivenza. Il Tirreno era dominato dai Cartaginesi, che sbarcavano dove volevano e quando volevano. Il nemico principale era ora costituito dai popoli italici, che premevano verso le coste tirreniche ed erano già dilagati in Campania. Periodicamente colpivano le spedizioni dei Celti, rapide e devastanti, tra il militare e il banditesco. Questa era l’Italia nel V e soprattutto nel IV secolo a. C.:, segnato da guerre quasi continue. Limitate le zone più colte e civili, rozzezza e barbarie ancora diffuse. Poche le strade, le coste impraticabili perché paludose, devastate dalla malaria per centinaia di km., soprattutto quelle tirreniche. Vi erano popoli in declino, come gli Etruschi e i Greci del Meridione, i più colti e raffinati. Vitali invece gli Italici e in espansione. Ma nessuna alleanza bellica o confederazione di tribù sembrava in grado di prevalere su tutte le altre o di opporsi ad un invasore straniero forte e organizzato. I Celti, che occupavano la parte centrale e più ricca della pianura padana restavano un corpo estraneo, tant’è vero che spesso chiamavano i Celti transalpini e altri barbari a sostegno delle loro scorrerie, mentre i Greci d’Italia tendevano a ricorrere all’aiuto dei condottieri ellenistici, dell’Epiro, della Macedonia, con i loro provati eserciti di mercenari modellati sulla falange di Alessandro. I Celti erano sentiti come un pericolo costante da parte di tutti gli altri popoli dell’Italia, una sorta di forza della natura che sembrava impossibile domare.

Nella guerra di tutti contro tutti, i Romani cominciarono un poco alla volta a vincere le loro guerre. Cominciarono a ristabilire la loro egemonia nel Lazio, dominando la Lega Latina. Dopo l’incidente della distruzione di Roma da parte dei Galli (390 a. C.), i confederati cercarono di staccarsi ma Roma restò in controllo. Nel 360 i Galli tornarono, alleati ai Peucezi, ma furono disfatti a Porta Collina. Nel 348 Roma stipulò un trattato di alleanza con Cartagine, rinnovato nel 306, che la difendeva contro Etruschi e Greci occidentali, ancora forti sul mare. Quest’alleanza consentiva a Roma piena libertà d’azione nella penisola: non doveva temere attacchi dal mare, dominato dai punici, che in compenso potevano sbarcare dove volevano, tranne che sulle coste del Lazio. Nel 340 a. C., con la battaglia del Vesuvio, fu sconfitta una grossa coalizione di popoli italici e ribelli latini. La vittoria portò alla sottomissione della Lega Campana. Dal 324 inizia la lotta contro i Sanniti, che durò alcuni decenni. Sanniti e Romani lottavano per la supremazia nell’Italia centrale e meridionale. Roma si trovò ad un certo momento sola contro tutto il resto d’Italia coalizzato. Ma a Sentino, nel 295 a.C., Etruschi, Umbri, Galli Senoni e Sanniti furono disfatti in una feroce battaglia.

Dieci anni prima del formidabile attacco portato da Pirro, lo Stato romano, nel 290, comprendeva Lazio, Sabina, Etruria, Umbria, Piceno, Lucania e la colonia latina di Venosa in Apulia. Napoli era stata conquistata nel 326 a. C. ma aveva mantenuto il suo status di città greca, con propria moneta. I Romani deducevano colonie, costruivano fortezze collegate con strade militari, imponevano ordine e disciplina. Dominavano senza infingimenti ma anche governavano, con la loro capacità organizzativa e la loro mentalità giuridica, dando agli altri popoli la possibilità di partecipare, a diverso titolo, ad un’opera comune, che apportava vantaggi a tutti.

“Perciò alle comunità cadute sotto il dominio di Roma, in luogo dell’indipendenza che avevano perduta, o fu accordato il pieno diritto alla cittadinanza romana, o una certa forma di regime proprio, che riuniva, a una larva d’autonomia, i vantaggi reali di partecipare alla grandezza militare e politica di Roma, e soprattutto di avere una liberissima costituzione comunale; e veramente negli stati federali d’Italia non si trova [come in Grecia – ndr] indizio di una comunità d’iloti” cioè di popolazioni poste in semi-schiavitù, come “comuni tributari” (Mommsen).

Nell’Italia centro-meridionale si formò un solido blocco, un vero Stato, cui aderirono anche gli ormai sfioriti Etruschi, dopo aver tanto combattuto contro i Romani, che di fatto li avevano salvati dall’occupazione dei Galli distruggendone un grosso esercito al Lago Vadimone nel 285 a. C. “Se si osserva questa lotta di parecchi decenni per l’egemonia, la forza d’attrazione del sistema federale romano appare come il fattore più importante dello sviluppo politico. Incalzate nel Sud dai Sanniti, nel Nord dai Galli, la maggior parte delle città e delle tribù [dell’Italia centrale e meridionale] si decise per Roma, che malgrado la sottomissione lasciava ai suoi alleati una notevole indipendenza e compensava il servizio militare , facendo partecipare al bottino. Visto che Cere, Capua e Napoli erano stati esempi impressionanti di annessione vantaggiosa, ora i piccoli organismi del paese erano naturalmente spinti verso la lega romana” (Joseph Vogt).

Roma dimostrava di essere uno Stato dotato della forza e della volontà necessaria per fare una politica italiana. Una politica, cioè, che non era di sola conquista e sfruttamento. Essa mirava anche a costruire un’unità politica e un destino comune, sia pure con Roma in posizione di preminenza. Lo Stato romano, con il suo eccellente esercito, stava diventando il protettore naturale degli altri popoli d’Italia contro le invasioni straniere, a cominciare da quelle endemiche dei Galli, rimasti stranieri. Solo dopo la conquista romana della pianura padana, interrotta dalla guerra annibalica, i Galli si sarebbero integrati alla civiltà romana, all’Italia, dando un apporto significativo (e ancor più significativo in epoca imperiale).

Come protesse gli Etruschi e tutti gli altri dai Galli e poi mosse decisamente alla conquista delle loro terre, per por fine alle loro devastanti scorrerie e garantire la sicurezza di tutti con il raggiungimento dell’arco alpino, nostra frontiera naturale; allo stesso modo, Roma venne a proteggere i Greci del Meridione contro i Cartaginesi, loro nemici naturali da secoli. Tutta la Sicilia ma anche Taranto erano da sempre obiettivi dell’espansionismo marittimo punico, che contendeva all’Egitto ellenistico il possesso della Cirenaica e aveva attratto nella sua sfera d’influenza anche la Corsica, un tempo possesso etrusco. “L’espansione romana è vittoriosa espansione dei popoli del Centro dell’Italia, organizzati sotto la direzione della classe politica dominante in Roma. A poco a poco si forma un’unità e una coscienza nazionale italica nel segno della politica romana” (Ettore Paratore).
Con le guerre puniche, Roma fu tuttavia costretta, notano gli storici, p.e. Mommsen, ad uscire dalla “politica italiana”. Fu questo un bene?
3. Con le guerre puniche Roma fu costretta ad uscire dalla politica italiana, con conseguenze anche negative, ma la forza delle cose lo richiedeva.
Il Senato romano esitò prima di sfidare la potenza cartaginese in una guerra che sembrava inizialmente limitata alla lotta per conquistare la base di Messina, strategica per il dominio dello Stretto. Ancora oggi gli storici si chiedono se la prima e la seconda guerra punica fossero evitabili. Sono le classiche domande che si pongono gli storici e non sono affatto illegittime. Di fronte alle tante calamità che apportano le guerre, soprattutto quelle lunghe e accanite, ci si chiede sempre se tutto questo si sarebbe potuto evitare. Avrebbe potuto Roma rimanere nella sua dimensione di potenza italiana, senza lasciarsi trascinare in un’impresa che avrebbe messo, almeno in parte, in crisi i valori tradizionali e l’avrebbe poi spinta sulla via dell’imperialismo? Provocando anche gravi conseguenze sociali, quali ad esempio la crisi dell’agricoltura per le gravi perdite di soldati, nella vita civile contadini e agricoltori?

Il fatto è che proprio la dimensione di potenza egemone nella Penisola, avviata ormai all’unificazione sotto il suo dominio, impediva a Roma di isolarsi in una dimensione solo “italiana”. La vittoria nelle guerre sannitiche e l’estendersi della Confederazione guidata dai Romani verso sud, allarmò a tal punto i Tarantini (non minacciati dai Romani) da indurli a chiamare in Italia Pirro, uno dei migliori generali del suo tempo, per difendere la libertà dei Greci d’Italia. Egli mirava in realtà a fondare una monarchia militare tra Epiro, Italia meridionale, Sicilia, estendibile all’Africa. Era una antica aspirazione dell’espansionismo ellenico, una direttrice geostrategica ripresa tanti secoli dopo dai Bizantini.
L’esito è noto. Con la sua falange e gli elefanti vinse due volti i Romani, sia pure a caro prezzo, e marciò anche verso Roma per ottenere una pace che gli concedesse una larga parte dell’Italia meridionale. Ma senz’esito. La federazione italica dei Romani non cedette. Napoli e Capua gli chiusero le porte in faccia. Pirro si presentava come “liberatore” degli Italici dalla “tirannia” dei Romani. Annibale lo avrebbe imitato non molto tempo dopo. L’ultimo della lunga serie dei “liberatori” del nostro Paese sarebbe stato il generale Eisen-hower, comandante in capo delle armate alleate che ci invasero e occuparono dal 10 luglio 1943 al maggio del 1945 e oltre, sino alla nostra firma del Trattato di Pace, a Parigi, nell’estate del 1947. Le promesse di Pirro agli alleati dei Romani non fecero alcun effetto. Giunse sino ad Anagni. Tallonato da forti eserciti romani, ritornò alla base. Nella terza battaglia, a Benevento (275 a. C.) i Romani resistettero ed egli dovette ritirarsi, sconfitto, ritornando in Grecia poco dopo. Lo schema posto in essere da Pirro fu poi attuato in modo più ampio e assai più pericoloso da Annibale.

Consolidandosi come Stato italiano, i Romani erano intervenuti efficacemente contro i pirati illirici che, dall’odierna Dalmazia, taglieggiavano duramente il traffico navale dei mercanti italici. Avevano pertanto messo piede in quella zona, suscitando l’allarme del potente Regno di Macedonia. Ma quest’azione doverosa contro i pirati, apparentemente solo aggressiva, era una conseguenza delle responsabilità che cominciavano ad incombere sui Romani in conseguenza della loro politica “italiana”: erano obbligati a proteggere gli interessi e il buon diritto degli italici anche all’estero, venendo in conflitto con le altre Potenze. Con la vittoria contro Pirro, lo Stato Romano, che nel frattempo si era alleato a Cartagine per esser protetto sul mare, si estese sino allo Stretto, venendo a contatto con la Sicilia, obiettivo strategico primario per i Cartaginesi. Ora, non fu proprio l’ascendere di Roma a prima potenza dell’Italia a provocare l’invasione di Pirro? Chiamato dai Tarantini, un tipico rappresentante dell’imperialismo greco – era il periodo delle lotte accanite tra gli eredi dell’impero di Alessandro Magno – cercava di impedire che in Italia si consolidasse una potenza capace di dominare l’intera penisola. Per resistere a Pirro, che attaccò senza risultati anche i Cartaginesi in Sicilia, Roma si alleò con Cartagine per esser protetta dalla sua flotta, venendo così coinvolta nella secolare lotta mediterranea tra i punici e il mondo greco. Si può dire che, a causa di Pirro, Roma abbia cominciato ad uscire, per logica interna dei fatti e senza volerlo, dalla dimensione puramente “italica” della sua politica, per immergersi nella grande politica internazionale.

Questa logica la si vede, a mio avviso, ancor più all’opera nelle guerre puniche. La prima ebbe per oggetto il possesso della Sicilia. La Sicilia era un bastione di importanza economica e militare essenziale per i Cartaginesi. Unita al possesso della Sardegna e al controllo della Corsica, consentiva loro di chiudere l’Italia dentro il Tirreno, di conservare il monopolio commerciale e il controllo navale dell’intero Mediterraneo occidentale e di controllare anche quello centrale. Con il possesso della Sicilia, Cartagine poteva controllare il Canale di Sicilia e, se voleva, bloccarlo con le sue flotte. Ma la Sicilia era anche per l’Italia di fondamentale importanza strategica. Era ed è l’antemurale che la difendeva e la difende dall’Africa. Il possesso della Sicilia consente all’Italia di affacciarsi sul Mediterraneo centrale e di controllare lo Stretto, a sua volta punto geografico di fondamentale importanza strategica, per l’Italia. La Sicilia non poteva esser lasciata ad uno Stato nemico. E nemmeno le altre due isole lo potevano, costituendo esse un baluardo difensivo naturale ed essenziale per la costa tirrenica. Uno Stato, quello punico, che, per il modo in cui concepiva il commercio marittimo, avrebbe quasi sicuramente chiuso lo Stretto al commercio dell’Italia e alle sue flotte.

In un’epoca, come quella antica, nella quale la guerra era considerata un modo tutto sommato normale di risolvere le controversie, una guerra per decidere del possesso della Sicilia era in sostanza inevitabile. La guerra, come sappiamo, fu lunga e sanguinosa (anche se non come la seconda punica), ed ebbe momenti di stanca. Il padre di Annibale, Amilcare Barca, valente generale, pur ridotto alle fortezze della costa occidentale della Sicilia (Monte Pellegrino e Marsala, Trapani) resistette sempre. Dovette cedere e ritirarsi, perdendo l’isola, quando la flotta romana distrusse completamente quella cartaginese alle Egadi, acquistando il dominio totale del mare, cosa che rendeva impossibile ai Punici il mantenimento delle piazzeforti siciliane. In tal modo, quella guerra fece diventare Roma una potenza navale. Essa si ritrovò così in mano lo strumento indispensabile per una politica di conquista a livello mediterraneo. La “guerra annibalica” fu in un certo senso una conseguenza della prima. Approfittando delle gravi difficoltà causate a Cartagine dalla rivolta dei mercenari, i Romani accolsero l’invito della guarnigione cartaginese ribelle della Sardegna, ad impadronirsi dell’isola, minacciando Cartagine di guerra se si fosse opposta. I Cartaginesi dovettero subire. La perdita economica derivante dalla perdita delle due isole fu però compensata con la conquista della Spagna sino all’Ebro da parte dei Barcidi, che organizzarono un forte esercito in loco. Nonostante le perdite, Cartagine possedeva ancora uno Stato di tutto rispetto, con tre quarti quasi della Penisola Iberica e tutta la costa africana sino all’ Egitto escluso. Non aveva bisogno di una nuova guerra con Roma, dal punto di vista economico.

Si può discutere all’infinito di chi sia stata la colpa dello scoppio della guerra annibalica. Ma la questione è, a ben vedere, secondaria. Annibale aveva un disegno strategico preciso: Roma si poteva abbattere solo portando la guerra in Italia. I Romani pensavano lo stesso: Cartagine si vinceva solo portando la guerra in casa sua, come aveva fatto Attilio Regolo, che si lasciò sfuggire una vittoria quasi certa a causa degli errori che commise. Ora, la guerra in Italia Annibale, con il Mediterraneo dominato dai Romani, poteva portarla solo per via di terra, partendo dalla Spagna. L’audace impresa militare si basava su di un calcolo politico preciso e per niente peregrino: sollevare contro i Romani tutte le tribù celtiche, dalla Francia meridionale alla pianura padana. E in aggiunta, staccare da Roma gli alleati italici, disfare la Federazione italica. Era la strategia di Pirro, al quadrato, per così dire. Il calcolo riuscì, grazie anche al genio militare di Annibale, che distrusse tre eserciti romani in tre grandi battaglie. Riuscì però con i Galli, non con la Federazoni italica. Le defezioni ci furono ma nell’insieme l’alleanza tra romani e italici tenne bene e questo fu decisivo per la vittoria finale. Alla testa dei Galli aggregatisi al suo esercito, Annibale entrava nell’Italia centrale come condottiero del temuto nemico nazionale degli Italiani di allora. All’estraneità dell’elemento cartaginese e africano, che Greci e Romani avevano sempre sentito come qualcosa di nemico e ostile, barbaro in diversi suoi aspetti, a cominciare dalla religione, si aggiungeva quella della barbarie celtica, che ora Annibale faceva dilagare per l’Italia, al suo servizio.

“Le popolazioni italiche rimaste fedeli avevano dato alla guerra il senso di una guerra nazionale contro il nemico invasore” (Ettore Paratore)

“Molti Marsi, Peligni, Marrucini si arruolarono volontari con Scipione, in Africa e in Ispagna. La nazione italica dimostrò compattezza. I soldati migliori dell’esercito romano venivano dall’Appennino: dal dorso appenninico dell’Etruria; poi c’erano gli Umbri, i Marsi, le altre popolazioni sabelliche. Si soleva dire: -- nessun trionfo sopra i Marsi e senza i Marsi” (Ettore Pais).

La II guerra punica non ebbe un obiettivo limitato come la prima, la cui posta era la Sicilia. La strategia di Annibale, che cercava anche di coinvolgere la Macedonia nell’attacco a Roma, dimostra che egli si proponeva di abbattere definitivamente la potenza romana, di distruggere dalle fondamenta lo Stato italico che su di essa si basava. Non sappiamo se egli volesse anche distruggere Roma come città. Ma indubbiamente egli impostò la guerra come guerra all’ultimo sangue per l’egemonia su una parte del mondo allora conosciuto, egemonia che implicava la distruzione politica e militare completa dello Stato avversario. La vittoria dei Romani, ovvero dello Stato romano-italico che si estendeva da Sena Gallica sino allo Stretto e già aveva cominciato ad occupare la pianura padana, comportò il dominio secolare dell’Africa del Nord da parte di una potenza che aveva il suo centro nell’Italia e in Roma. Durante il tardo impero, un’invasione massiccia della penisola iberica da parte dei Mauri, provenienti dall’odierno Marocco fu stroncata con alcune dure campagne in quella regione, ci informano succintamente le fonti, in poche righe.

Dall’Africa l’assalto e l’occupazione di parti dell’Europa peninsulare sarebbe venuto solo mille anni dopo, con l’Islam, nell’VIII secolo d.C., che riuscì per lunghi secoli là dove Annibale aveva iniziato la sua avventura, in Ispagna, e per un tempo assai meno lungo in Sicilia, finché la riscossa della Spagna cattolica non lo ricacciò in Africa, dopo che i Normanni avevano riconquistato la Sicilia alla Cristianità.

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