Il nominalismo contemporaneo consuma la definitiva rottura tra lo spirito e il corpo terreno. Ciò che le nostre idee e i nostri nomi ci presentano come universale non corrisponde a nulla nella realtà, che è costituita soltanto da individui ineffabili: per esempio il «cane» non esiste, non ci sono che cani, irriducibili gli uni agli altri, percepiti dai nostri sensi. L’intelligenza non permetterebbe di cogliere la struttura intima e comune a taluni esseri, ma produrrebbe mere entità della ragione: «l’uomo», «il cavallo», «l’imbecille», che non rinviano a nulla al di fuori del nostro spirito.
La scienza si riduce a una fantasia, e la sua validità si misura in base alla coerenza interna del suo discorso o alla sua efficacia tecnica. Non c’è più alcuna verità, poiché è impossibile riferirsi a una realtà esterna, ma una moltitudine di prospettive, di soliloqui carcerari, dove le parole non svelano, e anzi avvolgono le cose come un sudario nei carri funebri che sono i nostri crani. La filosofia si riduce a una storia letteraria della idee e delle opinioni passate. Il filosofo non è più innamorato della sapienza, ma l’esperto di qualche illustre sconosciuto – il che gli conferisce un rango sociale e un posto riservato nei convegni internazionali – oppure l’eclettico dispensatore di aforismi, il che gli vale i consensi degli esegeti e dei pasticcioni.
Di qui le due ideologie che intridono fino al midollo la nostra epoca, il RELATIVISMO, che proclama «A ciascuno la sua verità», e lo STORICISMO, il quale afferma «La verità muta col tempo». Capziose sirene: esse pretendono di fare spazio per la varietà della terra, mentre, di fatto, la dissolvono in tanti individui intercambiabili. Il relativismo, con il pretesto della massima tolleranza, conduce alla disperazione e alla manipolazione: da una parte, se «tutto si equivale», «niente vale» – poiché il valore presuppone la gerarchia – e quest’egualitarismo lastricato di buone intenzioni porta dritto al nichilismo; d’altra parte, siccome nessuna verità universale può servire da criterio per tutti, gli uni assoggettano gli altri solo con la costrizione o la seduzione.
Lo storicismo, sotto la bandiera di un acuto senso del tempo, sfocia nella perdita della storia e della memoria: poiché le idee sono circoscritte alle loro coordinate spazio-temporali, si conclude che il pensiero attuale sia l’unico capace di fornire criteri per il nostro presente, e che ciò che è più recente è anche più «vero». E allora perché interessarsi al passato, se non per curiosità aneddotica, visto che esso propone solo concezioni embrionali e desuete? Conservare la memoria sarebbe perdere il proprio tempo.
Queste false teorie, lo si intuisce, portano a uno sradicamento ben più profondo di quello derivante dall’esodo rurale o dalla perdita delle tradizioni. Esse intrappolano l’individuo dentro sé stesso. Non lo strappano a un terreno o a un paese, ma alla terra stessa, per gettarlo in un cerebralismo allucinogeno.
Fabrice Hadjadj, “La terra strada del cielo. Manuale dell'avventuriero dell'esistenza”. Ed. Lindau (pag. 25-26)
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