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martedì 10 gennaio 2023

Paolo Pasqualucci - La “Fenomenologia della percezione” secondo Cornelio Fabro

Tempo fa, su ‘Chiesa e Postconcilio’ ho dato l’annuncio di diversi volumi delle Opere complete di Cornelio Fabro, in corso di pubblicazione da una quindicina d’anni [qui - qui - qui - qui]. Fabro è stato uno dei filosofi cattolici più importanti del secolo scorso. Mi sembra perciò utile pubblicare questo denso e relativamente recente saggio del prof. Pasqualucci, una recensione approfondita della “fenomenologia della percezione” (V volume delle Opere complete). 
La “percezione” costituisce un problema essenziale per ogni filosofia che voglia spiegare in termini il più possibile realistici la nostra conoscenza del reale. In quest’opera della sua fase giovanile, Padre Fabro inquadra il problema della natura della “percezione” nell’ambito delle correnti di pensiero all’epoca dominanti, senza rinunciare a spunti critici originali, condotti sulla base di una rivalutazione (neo-tomistica) di Aristotele.

La  “Fenomenologia della percezione”  secondo Cornelio  Fabro
Paolo Pasqualucci 
Sommario : I. I. La percezione come fatto. II. L’oggetto della percezione come fenomeno unitario. III. Inquadramento storico. IV. L’Associazionismo (I due Mills, Bain). V. Sensazione e percezione, un nesso non risolto. VI. L’emergere delle prime forme di sintesi”. VII. La prima teoria della forma. II. VIII. La Gestalttheorie. IX. La critica alla Gestalttheorie. X. La Gestalttheorie come gnoseologia dell’oggetto concreto
* * 
Il quinto volume dell’edizione delle Opere complete di Cornelio Fabro, ci ripropone la seconda edizione aggiornata (1961) de La fenomenologia della percezione, pubblicata nel 1941, dall’allora trentenne filosofo.(1) Si tratta di un vasto e sistematico studio, dedicato in gran parte alla nascita, all’esposizione e alla critica della Gestalttheorie o “Teoria della forma”, che tenne il campo nella cultura europea nei primi decenni del XX secolo. L’autore fa un bilancio di questa importante corrente di pensiero, che all’epoca aveva già subito gli attacchi più radicali. Egli la colloca storicamente nel seguente modo. “Si può ammettere che “la teoria della forma” ha avuto un compito decisivo nella storia della cultura: tutte le teorie della percezione della psicologia più recente hanno le loro radici, in qualche modo, nei problemi suscitati dalla Gestalttheorie. È vero che in questi ultimi due decenni lo studio si è orientato verso princìpi di sintesi più conformi all’originalità dell’essere umano: ma tali princìpi non intendono escludere i problemi della psicologia della forma, se non per quel tanto ch’essa conteneva di gratuito e di unilaterale, confermando che i processi dello spirito attuano, ad ogni piano oggettuale, un principio di unità ch’è al fondo stesso dell’essere della coscienza”(2) .
L’opera si occupa quindi di un movimento di pensiero che apparteneva già al passato. E tuttavia il tema che essa ripropone mi sembra attualissimo, riguardando esso il problema della esatta natura della percezione, che costituisce il fondamento di ogni teoria della conoscenza. Un problema che la psicologia, intesa come scienza, non è riuscita a risolvere e che, anche per questo, mostra di mantenere un ineliminabile risvolto metafisico (vedi infra, § V).
Il lavoro di Fabro era prodromico al suo successivo studio “più strettamente teoretico” sulla teoria della percezione, uscito poi nel 1942 con il titolo Percezione e pensiero (ed annunciato dall’editore come sesto volume delle Opere complete).
L’impostazione teoretica del lavoro risulta dalla densa Introduzione, nella quale l’autore mette a fuoco i concetti essenziali della “fenomenologia della percezione” come affermatasi nel pensiero moderno, con le sue varie ed opposte concezioni.(3)
I.
I. La percezione come fatto. 
Il punto di partenza della sua riflessione è costituito dal rapporto tra percezione come “fatto immediato” e giudizio. “La fondazione critica [della conoscenza] ha da cominciare dalla percezione o dal giudizio?” (FP, 27). Il “giudizio” è opera dell’intelletto, che assume il dato offertogli dalla “percezione” e lo analizza conferendogli un significato, un valore. La tendenza generale, tipica del pensiero moderno (ma alla quale non si sottraggono del tutto nemmeno “Scolastici e Tomisti”) è quella di muovere dal giudizio e in sostanza dalla coscienza di sè del soggetto pensante, essendo questo l’aspetto più importante del processo conoscitivo, mancando il quale il nostro conoscere resterebbe perennemente incompiuto (FP, 28-29). Ma Fabro ritiene (giustamente, a mio avviso) di dover prendere le mosse dalla percezione poiché “la realtà è prima vissuta che classificata ed i contenuti concreti hanno immanenti, sia pur rozzamente, anche gli astratti, mentre non può esser vero il contrario” (ivi, 27-28).
La percezione, dunque, come fatto, che si tratta di distinguere bene dall’attività mentale del soggetto che ne è edotto: distinguerlo in sé per poter poi dare il suo a ciascuno (all’oggetto e al soggetto) nell’ambito di una concezione realistica della conoscenza, che eviti cioè l’errore soggettivista, che consiste nel ridurre la realtà alla “esperienza interiore” della coscienza (Hegel) dissolvendo in quest’ultima il dato della percezione (ivi, 49-50).
Mi sembrano sempre attuali le critiche che Fabro rivolgeva (prendendo ad esempio spunto dalle tesi del P. Maréchal) alla pretesa di filtrare sempre e comunque la conoscenza dell’oggetto mediante il “giudizio” e quindi “il concetto”, trascurando in tal modo l’intrinseca indipendenza dell’oggetto (nella sua natura e caratteristiche) dal giudizio e dal concetto (che sono nostri, non della realtà fuori di noi).
“Che il giudizio sia il centro di osservazione per una critica della conoscenza umana, passi; che lo sia anche della analisi fenomenologica, non lo credo e mi pare anzi pericoloso. Il giudizio pone un doppio problema ed una doppia esigenza d’oggettività, secondo che si tratta del suo contenuto o del suo valore. Il problema del valore può essere fondato del tutto a priori senza riguardo alle “presentazioni fenomenali” dell’oggetto?”. No, ovviamente, poiché “il giudizio assolve la sua funzione nell’atto categorematico: suppone perciò il contenuto, non soltanto nei termini, ma nell’oggetto stesso rispetto al quale il giudizio afferma (o nega) l’identità dei termini e dei rispettivi contenuti”. Ne consegue che “il ‘vero’ punto di partenza di una psicologia, ed almeno fino ad un certo punto anche di una critica della conoscenza, è quella forma di ‘tutto’ inizialmente dato alla coscienza nel quale l’intelletto possa trovare presenti od in qualche modo adombrati i contenuti ed anche le forme stesse di connessione che saranno poi affermate nel giudizio”. Non si può prescindere dal “tutto” rappresentato da “un contenuto globale di ordine percettivo, non puramente amorfo, né completamente organizzato, ma delineato più o meno vagamente”. 
 Questo “tutto” o “contenuto globale” che precede il giudizio, costituisce appunto il contenuto della “percezione immediata” (ivi, 30-32). Nel sostenere questo punto di vista, Fabro mostra qui di aderire all’impostazione di massima della Gestalttheorie. Questo “tutto” appare istintivamente al soggetto come una realtà compiutamente determinata, anche se non ancora definita nei particolari. Ma ciò non ci esime, evidentemente, dal compito di stabilire in modo più preciso “il contenuto della percezione”. “Io vedo la casa dirimpetto”, “io vedo un albero”... Come dobbiamo intendere il nostro vedere, non solo in quanto atto mentale del soggetto ma anche in quanto percezione sensibile di un contenuto costituito dalla realtà in sè e per sè, esterna al soggetto che la percepisce?
II. L’oggetto della percezione come fenomeno unitario.
L’albero o la casa constano di molteplici parti o elementi, con le loro caratteristiche, che costituiscono un’unità. La percezione ci fa perciò apprendere “un oggetto unificato”, non una molteplicità senza senso. Quest’oggetto “unificato” è anche “configurato”, perché l’oggetto ha la sua forma specifica, che è solo sua (quella di esser casa, albero etc.). Infine, è “qualificato”, questo oggetto, dalle sue qualità, a cominciare dal colore. Se non ci fossero i colori non potremmo veder nulla (ivi, 33-34). È chiaro che questi tre aspetti dell’oggetto concorrono a costituire l’oggetto nella sua inscindibile unità. E quest’unità, non è posta dall’intelletto ma appartiene all’oggetto. (L’intelletto la deve riconoscere, far sua). Così si deve intendere, se si vuol concepire la percezione come una conoscenza che si applica ad un contenuto reale, che ha ad oggetto “il concreto in una certa sua completezza caratteristica”. Ma questa “completezza”, sottolinea Fabro, va intesa “in due modi”, nel senso che essa oltre all’esistenza effettiva dell’oggetto ne rivela anche l’essenza. L’essenza si comprende però in un secondo momento, dato che essa non compare immediatamente nell’esistenza della cosa. In un secondo momento, si comprende che la struttura unitaria che si rivela nell’oggetto (configurazione, qualificazione in senso unitario) è anteriore al configurato e qualificato ed è anzi “la ragione dei medesimi, così nel loro essere come nel loro variare” (ivi, 34-35). Ma il discorso sull’essenza deve esser rinviato ad un ulteriore approfondimento teoretico. (Nella determinazione dell’essenza interviene il giudizio, che interpreta il significato dell’oggetto che la percezione ci rappresenta).
Ma restiamo alla percezione. Nel qualificarla ulteriormente, l’autore ricorre alla non facile nozione di “piani oggettuali” (ivi, 35-38), che riprende poi nella Conclusione dell’opera (ivi, 389 ss.). Questi “piani” non dovrebbero rappresentare un approfondimento delle unificazioni, configurazioni, qualificazioni di cui sopra? E tuttavia esprimono, a prima vista, l’idea che “il contenuto dell’oggetto non è assolutamente omogeneo”, cosa che sembra risultare senza ombra di dubbio dalla “descrizione fenomenologica” dello stesso. Non c’è qui una contraddizione con quanto precedentemente sostenuto da Fabro? Prima afferma che la percezione ci fa cogliere l’oggetto nella sua unità, successivamente che la “descrizione fenomenologica” (indotta dalla percezione) ci mostra nell’oggetto dei “piani” che non sono omogenei. 
Ma non ci troviamo di fronte ad alcuna vera contraddizione. Vediamo, infatti, in che senso i “piani oggettuali” non sono da considerarsi omogenei. Questi “piani” sono tre. Sono costituiti: dalle qualità esteriori dell’oggetto (colori, suoni, odori etc.); da figura grandezza, posizione nello spazio, qualità riconducibili all’idea di figura; dall’ “oggetto in quanto tale” ovvero dalla sua essenza, grazie alla quale esso possiede il colore e la figura, che lo fanno essere ciò che è (pp. 35-36). Colori e figura non si identificano tra di loro né si ricavano vicendevolmente, né si identificano con la sostanza, che spesso permane nel deteriorarsi dei primi (ivi). Fenomenologicamente, ossia dal punto di vista di una descrizione esteriore, abbiamo dunque “tre piani” di qualità diverse che appartengono all’oggetto (e pertanto “oggettuali”), tre piani che non sono omogenei tra loro. Tuttavia, nella percezione essi sono dati sempre insieme e costituiscono l’oggetto percepito come un oggetto “unico” (p. 36). Ed infatti, non possiamo certo dire che la nostra percezione dell’oggetto ci permetta di separarne, per esempio, la figura dal colore, come se percepissimo prima una qualità e poi un’altra oppure l’oggetto da un lato e tutte le sue qualità dall’altro. La nostra percezione del reale ha luogo all’insegna dell’unità.
III. Inquadramento storico.
Il problema consiste allora nello spiegare quest’unità, percepita dal soggetto come tale, come unità che appare già nella cosa stessa, così come viene da noi percepita. Noi infatti non percepiamo prima un “piano” poi un altro ma immediatamente l’oggetto nella sua unità, costituita appunto da questi diversi piani che si integrano per noi già nello hic et nunc della percezione.
Ma questa “spiegazione” costituisce a ben vedere il contenuto stesso di fondo del problema gnoseologico. Non si tratta pertanto di una “spiegazione” limitata ad una interpretazione di questo problema in chiave puramente psicologica. Dietro la psicologia, pur sempre teoreticamente intesa, si affaccia inevitabilmente la metafisica.
L’analisi di Fabro, che colpisce, oltre che per l’acutezza di molte osservazioni, anche per la padronanza di una materia così vasta e complessa, sviluppando essa uno spunto di Rodolfo Mondolo e dello studioso tedesco Erwin Straus, inquadra preliminarmente la moderna “fenomenologia della percezione” nelle sue ascendenze filosofiche, che risalgono alle origini stesse del pensiero moderno: a Cartesio, Berkeley, Hume, ai quali (soprattutto a Hume) deve ricondursi l’affermarsi dell’Associazionismo quale modo di intendere la “fenomenologia della percezione”. Il primo capitolo dell’opera si intitola infatti: Cartesianesimo, associazionismo e fenomenismo (FP, 63-110). E l’opera stessa appare divisa in tre blocchi: essa fa vedere l’Associazionismo in sé e nelle sue ascendenze metafisiche, la successiva reazione allo stesso della Gestalttheorie, la critica finale a quest’ultima. La critica, tuttavia, non esclude il (già ricordato) riconoscimento di un aspetto positivo assai importante, che è quello di rappresentare pur sempre, questa teoria, un valido contributo “per la fondazione critica del realismo” gnoseologico, come quello del tomismo aristotelicamente professato da Cornelio Fabro (ivi, 172; 273; 381-382).
Dati i limiti del mio intervento, non posso seguire minutamente l’argomentazione di Fabro, sempre ricca di molteplici e rilevanti spunti teoretici. Cercherò tuttavia di rendere il senso complessivo della sua esemplare ricostruzione, approfondendo occasionalmente i punti che mi sembrano di particolare interesse. Cominciamo dall’esposizione che egli fa dell’Associazionismo in senso proprio (cap. III della sezione prima, pp. 94-110), senza la comprensione del quale è impossibile cogliere il significato della Gestalttheorie, che nacque proprio come reazione ad esso.
IV. L’Associazionismo (I due Mills, Bain).
Sulla scia di Locke e di Hume, l’associazionismo psicologico o fenomenismo empirico, comincia ad apparire nel pensiero inglese (i due Mills, Bain, con la loro appendice francese in H. Taine), con ragionamenti basati “più sull’osservazione che sulla deduzione” (FP, 95).
Dalla filosofia precedente (Hume) si mantiene “il principio della rigorosa corrispondenza” dell’idea con l’impressione prodotta dai sensi: “le idee nascono ed esistono nell’anima nell’ordine esatto che avevano le impressioni di cui sono le copie” (James Mill; FP, 95). Ma queste “copie” perché riescono a darci la sensazione (o percezione) della spazialità dell’oggetto a noi esterno? Ci riescono perché rappresentano “la contiguità spaziale e temporale [delle cose] come ragione primitiva ed inderivabile” (ivi).
Siffatta “contiguità” viene percepita da noi anche fisiologicamente, grazie al nostro “sforzo muscolare”, che viene fatto “rientrare come principio genetico della percezione dello spazio concreto”(ivi).
L’idea di un albero, di una pietra, di un cavallo, etc. si spiega dunque nel seguente modo. Il soggetto usa questi nomi, che sono “i nomi di ciò che io chiamo oggetti”, solo riferendosi alle proprie sensazioni: in concreto, “nominando un certo numero di sensazioni, guardate secondo un particolare stato di combinazione, vale a dire di concomitanza”. Così, “particolari sensazioni della vista, del tatto, dei muscoli sono le sensazioni per le quali, quando le idee di colore, estensione, ruvidezza, durezza, levigatezza, gusto, odorato, coalescono in modo da offrire un’idea sola, io dò il nome: idea di albero” (ivi, p. 96).
L’immagine o idea dell’albero come di una realtà esterna in se stessa unitaria, ce l’abbiamo in quanto le sensazioni che noi abbiamo delle singole componenti dell’oggetto coalescono (si associano) in modo da costituire un’unità, che risulta pertanto dall’associazione di elementi ritenuti di per se stessi originariamente semplici. Questa associazione è, secondo James Mill, inseparabile, nel caso, per esempio, della connessione di colore ed estensione, solidità e figura: le relative idee ci appaiono sempre associate (ivi). Inoltre, con il ripetersi dell’esperienza, l’associazione delle idee diventa così forte da presentarsi come inseparabile sino a darci “l’impressione di un contenuto semplice”. Ad esempio: se si fa girare rapidamente un disco con su dipinti i sette colori del prisma, i sette colori scompaiono e si vede solo il colore bianco (ivi, 96-97). L’associazione delle idee opererebbe come una sorta di “mental chemistry” (p. 97). Su questa “chemistry” si è soffermato ampiamente John Stuart Mill, approfondendo la teoria della “associazione inseparabile” e quindi della “associazione di idee” inseparabile.
“Quando due fenomeni sono stati sperimentati speso in congiunzione, e non sono mai occorsi separatamente l’uno dall’altro, né nell’esperienza né nel pensiero, allora si produce fra di loro ciò che si dice un’associazione inseparabile. Quando un’associazione ha acquistato questo carattere di inseparabilità, allora non solo l’idea richiamata dall’associazione diventa, nella nostra coscienza, inseparabile dall’idea che la suggerisce, ma gli stessi fatti o fenomeni che corrispondono a queste idee finiscono per diventare inseparabili nell’esistenza, e la persuasione (Belief), che abbiamo della loro coesistenza, a noi sembra intuitiva, benché sia un prodotto dell’esperienza” (p. 98).
Siffatta “persuasione” non deriva quindi, per J.S. Mill, dall’individuazione di un rapporto causale all’opera nella realtà, ma dalla semplice “contiguità” dei fenomeni tra di loro (ivi). Ciò significa, allora, commenta Fabro, che “la causalità diventa contiguità e l’esistenza è il frutto dell’inseparabilità fattuale che il ripetersi delle associazioni di contiguità riesce ad imporre al soggetto”. Tutto ciò implica un notevole “passo in avanti nella meccanizzazione dello spirito” (ivi), prospettiva tipica del positivismo. Questa “meccanizzazione” si rivela anche nelle concezioni di A. Bain, che estende il principio dell’associazione “ai processi del volere”, applicando l’associazionismo alla sfera morale (p. 103). Bain, inoltre, ha elaborato sottili analisi “sull’importanza dei fattori fisiologici e della funzione costruttiva della sensazione dello sforzo muscolare nella genesi delle percezioni” (ivi). Non limitata, questa analisi, alla percezione della resistenza allo sforzo, nei suoi vari gradi, e della durata dello stesso, ma estesa alla percezione stessa dello spazio.
“Per noi adunque la continuità [dello sforzo muscolare] è soprattutto il distendersi (sweep) di un membro [del nostro corpo] nello spazio, e poi si connette con la misura dello spazio od estensione. La nostra percezione dell’esteso risulta allora dalla combinazione delle sensazioni dei vari sensi con la sensazione del movimento, ove il nucleo genetico essenziale della percezione è fornito dalle sensazioni di movimento. In seguito noi avvertiamo la differenza fra il coesistente e il successivo, fra spazio e tempo, fra il distendersi muscolare e la durata di esso: è questo il mezzo che abbiamo per discriminare la materia estesa e lo spazio” (pp. 104-105).
Questa dunque la spiegazione associazionistica (indubbiamente interessante) della nostra percezione dello spazio. Essa si fonda sulle “sensazioni di movimento”, provocate dal distendersi muscolare, che si associano con quelle dei vari sensi. Che le “sensazioni di movimento” giochino un ruolo importante nella nostra percezione dello spazio, non credo si possa negare. Ma il fondamento di questa percezione, mi chiedo, dove dobbiamo trovarlo: in queste “sensazioni” o nell’esistenza in sé dello spazio fuori di noi? Lo spazio in quanto tale, l’estensione tridimensionale, non dobbiamo presupporla (come realtà fisica, non come intuizione trascendentale) affinché il movimento stesso da noi percepito possa effettuarsi? Il fatto è che, sulla scia di Berkeley, gli associazionisti tendevano a negare che si potesse vedere lo spazio in quanto tale. Nella percezione dello spazio, la vista giocava per loro un ruolo secondario e la preminenza veniva conferita alla “percezione tattile” (ivi, p. 105). Il risultato ultimo di quest’impostazione mi sembra allora consistere nella difficoltà (e forse nell’impossibilità) di separare concettualmente lo spazio dal movimento della materia che in esso si trova.(4) 
 Per Bain, “lo spazio puro è l’estensione non occupata, vale a dire il movimento che non incontra resistenza, cioè “il vuoto”; il movimento che incontra resistenza dà lo spazio occupato, cioè la corporeità” (ivi, p. 107). Il “vuoto” non è l’estensione in sé ma “il movimento che non incontra resistenza”. Ma il vuoto, osservo, non essendo creato dal mio movimento, non ha bisogno di un mio movimento per esser colto nella mia percezione, in quanto vuoto. Quando fermo la mia macchina davanti al cancello di casa, a distanza utile per poter aprire il cancello stesso senza urtare la macchina, come calcolo questa distanza? La calcolo appunto “a occhio”. E come fa l’occhio a calcolarla? Perché esso ha per natura la percezione della profondità, della prospettiva, onde può stabilire dei rapporti tra le cose (qui il cancello e la macchina), in relazione allo spazio tra di esse, sì da potersi muovere in esse, sempre in relazione a questo spazio. Ma come potrei cogliere la prospettiva se il mio occhio non avesse la capacità di vedere la distanza e quindi lo spazio in quanto tale? La “profondità” è spazio, non si può confondere con le cose che in essa si trovino o che la delimitino. Lo spazio vuoto che intercorre tra il cancello e la macchina lo scorgo per quello che è, ossia come spazio in sé e per sé, vuoto, che io utilizzo proprio perché è vuoto, ossia perché è spazio, senza ulteriore determinazione. Qui, non “associo” proprio nulla ma calcolo e proprio sulla base della percezione del vuoto da me lasciato in maniera appropriata tra il cancello e la macchina, da me arrestata al punto giusto di fronte al cancello stesso. Sembra evidente che il senso della vista gioca un ruolo fondamentale nella percezione dello spazio.
Anche l’associazionismo sembra condurre, dunque, con la sua materialistica “meccanizzazione dello spirito”, a forme di soggettivismo.
V. Sensazione e percezione, un nesso non risolto.
Un ulteriore problema è rappresentato dal rapporto fra sensazione e percezione. Se il parallelismo di lockeana e humiana memoria tra sensazioni ed idee deve intendersi in modo rigoroso, bisogna allora dire che l’associazione delle idee è parallela a o deriva da un’associazione già presente nelle nostre sensazionì. In tal modo, però, la percezione non si distinguerebbe dalla sensazione. Ed è questa la direzione verso la quale pencola l’associazionismo. “Le percezioni saranno [da esso] ricondotte, per vie più o meno traverse, alle sensazioni, e le sensazioni stesse saranno considerate come il risultato di sintesi a partire da elementi ancora più ridotti; un pulviscolo psichico che ondeggia nella subcoscienza, dalla quale gli oggetti emergono in unità fattizie per l’intervento di abitudini o abilità sintetiche che il soggetto ha acquistato nell’esercizio dell’esperienza stessa” (p. 97).
Emerge qui il problema, essenziale ad ogni teoria della conoscenza, del quale avevamo fatto cenno all’inizio: sino a che punto è possibile distinguere la sensazione dalla percezione? Tale distinzione non era ancora piena in Locke mentre in Kant la parte predominante sembra assunta dalla “rappresentazione” ossia dall’elaborazione della sensazione da parte del soggetto.(5) 
In teoria, la distinzione dovrebbe essere netta. La sensazione è l’attività dei nostri sensi in quanto tale, senza alcuna partecipazione della nostra consapevolezza o coscienza; con percezione, invece, si intende la sensazione della quale siamo coscienti: è la sensazione cui si è unito il nostro pensiero. La percezione sarebbe allora una sensazione della quale siamo consapevoli. Poiché siamo coscienti in generale dell’attività quotidiana dei nostri sensi, bisognerebbe allora dire che le nostre sensazioni sono in realtà sempre “percezioni”? Il problema nasce proprio da quest’ultima domanda. Ed è il seguente: la nostra consapevolezza si limita a registrare le nostre sensazioni oppure è già all’opera nella loro stessa formazione? La percezione è “registrazione passiva” o “processo costruttivo”? E quindi: nel nostro “vedere” è già implicito il nostro “pensare”?(6)
Nemmeno gli psicologhi del nostro tempo sono riusciti a giungere a conclusioni certe, pur procedendo con metodi che si considerano rigorosamente scientifici. Se noi prendiamo un qualsiasi manualetto di psicologia, troviamo all’inizio la distinzione di “sensazione” e “percezione”, che dovrebbe tutto chiarire, già in via preliminare. 
“Per sensazione si intende la risposta dei recettori sensoriali e degli organi di senso agli stimoli ambientali. La percezione, per parte sua, è un processo che implica il riconoscimento e l’interpretazione degli stimoli che colpiscono i nostri sensi. Lo studioso dei processi sensoriali si porrà domande del tipo: “In che modo l’occhio risponde alla radiazione elettromagnetica?”, mentre lo psicologo interessato alla percezione si chiederà piuttosto: “Come facciamo a riconoscere quell’oggetto? Quanto ci appare lontano? Dove si trova in relazione agli altri oggetti che vediamo intorno a noi?”. In altri termini, la percezione riguarda il modo in cui interpretiamo l’ambiente che ci circonda, e la sensazione riguarda i processi fondamentali di stimolazione degli organi di senso. Immaginate di udire delle note suonate al pianoforte: qualità come l’altezza, il tono e l’intensità sono sensazioni uditive, ma, se vi rendete conto che le note formano una melodia, la vostra è un’esperienza percettiva”.(7)
Stabilita in questo modo, su basi fisico-chimiche, fisiologiche, la distinzione non dovrebbe dar luogo a problemi. La risposta dell’occhio alla “radiazione elettromagnetica”, ossia all’onda luminosa che investe la retina, dovrebbe potersi spiegare in termini puramente meccanici, fisico-chimici per l’appunto. Mentre l’interpretazione del dato sensoriale che costituisce la percezione, dovrebbe potersi spiegare facendo ricorso unicamente ad argomenti di tipo psicologico. Ma la realtà non è così semplice. “La maggior parte degli psicologhi – continua il nostro manualetto – converrebbe che il confine tra sensazione e percezione è alquanto sfumato. Può esser difficile stabilire precisamente quanto debbano essere complessi gli stimoli perché si possa parlare di percezione e quanto lavoro di interpretazione sia necessario perché la sensazione diventi percezione”.(8)
VI. L’emergere delle prime “forme di sintesi”.
Se la psicologia, intesa come scienza soprattutto sperimentale, non è riuscita a risolvere sino ad oggi in maniera soddisfacente il problema del rapporto tra sensazione e percezione, cosa possiamo aspettarci dalla filosofia? Tuttavia è stata la filosofia a porre i problemi affrontati poi dalla psicologia. Ragion per cui, nell’attuale fase di stallo nella quale si trova la psicologia, che non riesce a darci una risposta ultima e definitiva sul fondamentale nesso sensazione-percezione, mi sembra più che giustificata la rilettura della vasta e approfondita indagine di Fabro sulla “fenomenologia della percezione”.
Esposto sinteticamente l’Associazionismo, egli ci illustra egregiamente l’emergere delle prime teorie della forma (come “forme di sintesi”) dall’applicazione sperimentale del metodo associazionista. Mi piace soffermarmi sui cenni da lui dedicati a Wundt e Reid. Nella concezione associazionista, un ruolo essenziale veniva per forza di cose conferito alla facoltà della memoria, dato che si riteneva fosse “l’esperienza passata” il collant delle molteplici associazioni degli “elementi” costituiti da sensazioni ed immagini (FP, 119).
Ma Wilhelm Wundt si accorse che “il semplice ‘depositarsi’ dell’esperienza passata non potrà mai spiegare quell’unità noetica, ben definita ed articolata, che è l’oggetto della percezione. A quel modo, si potrà al più spiegare perché l’oggetto è appreso hic et nunc con tali proprietà e disposizioni concrete, mai la struttura e l’appartenenza interiore. Per spiegare questo, che è il costitutivo fondamentale dell’oggettività, occorre postulare una forma più semplice di associazione, cioè una associazione “immediata”, nella quale le associazioni si collegano non per via della memoria, ma per le relazioni che in esse scopre immediatamente la coscienza. In questo senso più ampio, l’associazione comprende una quantità di processi di connessione, nei quali le rappresentazioni da collegare non si sgranano meccanicamente l’una appresso all’altra, ma si presentano alla coscienza d’emblée, come un tutto ormai relazionato nelle sue parti. Si pensi alla percezione di una figura piana: essa si rivela immediatamente nella sua struttura geometrica ed il ricorso alla memoria è qui impossibile, poiché le rappresentazioni associate delle parti singole – le linee dei lati – non possono esser disgiunte l’una dall’altra e neppure paragonate l’una con l’altra. L’associazione dev’esser simultanea, non successiva” (FP, 119-120). L’intuizione di Wundt introduce la simultaneità al posto della successione delle associazioni di elementi (cosiddetti) semplici: la percezione dell’oggetto avviene immediatamente e ci presenta l’oggetto come un tutto, una forma che risulta per noi della sintesi immediata di tutti i suoi costituenti. Il carattere intuitivo ed originario della percezione era stato affermato ben prima di Wundt anche da Thomas Reid.
In polemica con Hume, Reid distingue tra sensazione e percezione in questo modo. Quando “odoro una rosa”, il profumo della rosa, considerato in se stesso, costituisce la sensazione “in senso proprio”. La sensazione è costituita, pertanto, “unicamente da ciò che si prova”, per il fatto stesso di provarlo. È un qualcosa di isolato in se stesso. Invece la percezione stabilisce un rapporto con l’oggetto fuori di noi, che va oltre il dato immediato della sensazione, ed anzi lo ricomprende. La qualità della rosa di provocare in me la sensazione del suo profumo, la rosa stessa e l’atto mentale con il quale credo a questa qualità, tutto questo “è ciò che noi chiamiamo percezione” (FP, 126). Una nozione composita, questa di Reid, che, ricorda Fabro, stabilisce tra sensazione e percezione una rapporto che è quello di “segno” e “cosa significata”, e per questo il filosofo scozzese è considerato il precursore del moderno concetto di percezione (ivi, 127).
Tuttavia, per Reid, questo rapporto complesso si dà in una conoscenza “immediata ed intuitiva”; esso costituisce in realtà “un fatto semplice, primitivo e assolutamente inderivabile” (ivi).
In queste prime “forme di sintesi”, la contrapposizione al metodo analitico degli associazionisti si manifesta nel principio che la nostra percezione non può essere il risultato di una somma o “sommazione” di elementi semplici che, nell’unità di tempo data, vengono a costituire il composto che sarebbe l’oggetto della nostra percezione. Al contrario, la percezione coglie l’oggetto come un tutto, sinteticamente, ed in modo immediato ed originario. Se ne deve concludere che l’oggetto, in quanto contenuto di una nostra percezione, non consta di parti o elementi che possano scomporsi: esso ci appare come un tutto unitario, che si impone alla nostra consapevolezza, indipendentemente da ogni analisi.
VII. La prima teoria della forma.
Da questi pochi cenni alle “forme di sintesi”, anticipate dal “sintetismo immediato degli Scozzesi” (FP, 125), si vede quale fosse il nuovo orientamento che si stava preparando: nella nostra percezione della realtà non procediamo analiticamente bensì cogliamo in modo immediato, d’un sol colpo, il Tutto come unità che si esprime in una forma (Gestalt). Il Tutto viene dunque (aristotelicamente) prima della parte e le conferisce significato. 
Questa prospettiva comincia ad emergere nella “prima teoria della forma” che è già tutta tedesca ed è sinteticamente quanto efficacemente analizzata da Fabro in pensatori quali Herbart, Lotze, Brentano e nel suo discepolo von Ehrenfels, Meinong ed altri ( FP, cap. III, La prima teoria della forma, 139-168).
Herbart proclama che la psicologia deve occuparsi solo dei “dati immediati” della coscienza, ossia “delle rappresentazioni nella loro molteplicità”. A lui si deve il concetto fortunato di “soglia della coscienza” (Bewusstseinsschwelle), intesa come “il limite delle rappresentazioni che sono presenti alla coscienza e di quelle che non sono presenti” (ivi, 140-141). Egli professa tuttavia una concezione meccanicistica della coscienza stessa. Per lui, “tutta la nostra vita intellettuale, il percepire ed il ritenere, il dimenticare ed il ricordarsi, il pensare in generale, è il risultato del meccanismo psichico di cui le forze elementari sono le rappresentazioni in lotta tra loro” (ivi). Le “rappresentazioni” si compenetrano a vicenda e si escludono a vicenda; si trasformano mediante la loro pressione reciproca in una “tendenza a rappresentare”; i loro residui, le sensazioni “oscure o indebolite” che cadono al di sotto della “soglia” della coscienza, si fondono tra di loro. Questa “fusione” (Verschmelzung) è diventata termine di scuola nella psicologia tedesca per spiegare “la genesi della ‘forma’ a partire dagli elementi, analogamente alla “chimica mentale” dei Mills”( ivi, 141-142).
Se Herbart cerca ancora di restare fedele alla teoria della Associazione, la reazione contro questa è molto più evidente in Lotze, che non accetta la concezione meccanicistica propugnata da Herbart. Lotze mette in rilievo come nella nostra coscienza si attui una scelta tra i contenuti che essa mantiene e quelli che rifiuta. Si ha già “unità di coscienza” quando la coscienza “aduna in unità” solamente una parte delle impressioni che ha ricevuto. Ciò mostrerebbe, secondo Fabro, che Lotze già prospettava quel concetto di “intenzionalità” della coscienza che sarebbe stato poi sviluppato da Brentano. Distinguendo nettamente tra sensazione e percezione, Lotze elabora poi una nozione del “processo percettivo” come “creazione originale del soggetto”, nel senso che il soggetto, mediante la percezione, apprenderebbe una “relazione” che è un’attività di “ordine superiore” al sentire e all’immaginare, relazione che non sarebbe affatto arbitraria perché sorgerebbe “sulla base indispensabile dei contenuti inferiori”, rappresentati appunto dal sentire e dall’immaginare (ivi, 143-145).
Brentano, nella sua importante Psychologie vom empirischen Standpunkt, riformula la distinzione tra “fatti fisici” e “fatti psichici”, che gli associazionisti tendevano a mettere sullo stesso piano. Nell’atto cognoscitivo bisogna distinguere bene “il fisico” dallo “psichico”. Al primo appartengono il colore, la figura, il paesaggio; l’accordo che odo; il caldo e il freddo; l’odore che sento; le immagini delle mie fantasie. Al secondo, “le rappresentazioni”, che per Brentano sono non tanto ciò che è rappresentato quanto “l’atto del rappresentare”: non il suono udito ma l’udire un suono; non il colore ma vedere un oggetto colorato; pensare un’idea generale; il ricordare; il giudicare etc. (FP, 147-148). Il fenomeno psichico allora è “attività psichica in relazione ad un oggetto”; esso “esige intrinsecamente di essere riferito ad altro, ad un oggetto come proprio termine o come proprio fondamento” (ivi, 148).
Cosa caratterizza, allora, il fenomeno psichico? Lo contraddistingue, afferma Brentano, “ciò che gli Scolastici del Medio Evo chiamano la in-esistenza (lo inesse) intenzionale (o anche mentale) di un oggetto”; ovvero “la relazione ad un contenuto, la direzione verso un oggetto”, quale che sia, anche non reale (ivi). Lo “in-esistere” intenzionale non si ritrova nei fenomeni fisici. Perciò l’intenzionalità, il contenere un oggetto intenzionale, caratterizza i fenomeni psichici esclusivamente e quindi anche la percezione, nel senso di “percezione interiore”, che è anzi da ritenere l’unico autentico significato della percezione, dato che i colori, i suoni, gli odori (i fenomeni della cosiddetta “percezione esteriore”) non esistono come tali negli oggetti (ivi, 148-150). Inoltre, i fenomeni psichici sono percepiti “con immediata evidenza” ed appaiono come unità (ivi, 149).
“Il nucleo della teoria brentaniana sull’intenzionalità (commenta Fabro) comporta che i soli fatti immediatamente evidenti sono i fenomeni psichici attualmente presenti, non i fenomeni fisici, cioè le cose nella loro concreta esteriorità” (ivi, 150). Soluzione non soddisfacente, perché “riserva l’immediatezza gnoseologica, in modo esclusivo, all’atto psichico come tale” (ivi). Si vede come l’emergente nuovo indirizzo tenda a porre in primo piano “l’atto psichico come tale” al punto da svalutare la sensazione, in quanto “fatto fisico” che non ci rappresenterebbe mai la realtà delle cose (esteriore), visto che le qualità delle stesse sarebbero una nostra elaborazione.(9)
È stato un allievo di Brentano, Cristian von Ehrenfels, ad avanzare ulteriormente nella definizione del concetto di “forma” in relazione alla percezione, intesa come intuizione immediata ed unitaria della realtà, in un saggio del 1890, dedicato alle “qualità di forma” (Gestaltqualitäten). Questa terminologia risaliva ad Ernst Mach, e si riferiva, in sostanza, alla qualità dell’esser “forma” delle cose, forma compiuta, unitaria. Il problema che si poneva era allora il seguente: quando noi percepiamo qualcosa di compiuto in una forma, per esempio una melodia, ci troviamo di fronte sempre a semplici sensazioni e “sommazioni di sensazioni” oppure a qualcosa di interamente nuovo? Ehrenfels risolveva il problema giungendo a concludere: 1) che la forma “è qualcosa di più della somma delle sue parti”, e 2) che il Tutto da essa rappresentato rimane nella sua “unità primitiva” anche se si cambia l’intero complesso degli elementi che lo costituiscono. Le “forme” hanno la proprietà di essere trasportabili o meglio “trasponibili” (ivi, 152-154). Infatti, se noi consideriamo una melodia, ci accorgiamo che essa “ha un tema il quale presenta un inizio, uno sviluppo, una chiusa: la melodia è quindi qualcosa a sé e in sé”, che si distingue perfettamente da tutti gli altri suoni, anche musicali. Nelle composizioni della musica classica, anche in quelle che contengono numerose variazioni, il tema dominante si riesce sempre a seguire. Esso costituisce perciò una “forma” compiuta ed autonoma, che è cosa ben diversa (qualitativamente) dagli elementi che lo compongono. Lo stesso può dirsi di “una figura”, che si distingue nettamente, in campo visivo, rispetto ad altri oggetti o figure. Ne consegue che sia la melodia che la figura ”non constano di suoni o linee o punti, comunque combinati, ma tutto questo dev’esser presentato secondo una particolare “forma”. La melodia così come la figura, non è una qualità “elementare”, ma una “qualità formale” (Gestaltqualität)” (ivi, 152). Perché si possa avere la percezione dell’oggetto, occorre quindi “afferrare “la legge” secondo la quale la figura o la melodia è costruita”. E questa legge rappresenta il qualcosa di più o al di sopra degli “elementi”, è ciò che costituisce la qualità per la quale l’oggetto ha la “forma” che gli inerisce (p. 153). Ma siffatta qualità o “legge” viene costruita dalla mente, mediante l’opera della fantasia e dell’intelletto (ivi, 156-158).
Circa il secondo principio, quello della “trasponibilità” delle “forme”, basta riflettere al fatto che “una melodia può essere trasportata di tono, ed avere il complesso degli elementi fisici completamente cambiati: qualora restino invariati i rapporti fra gli intervalli e conservato il ritmo, la melodia è riconosciuta identica a quella di prima [...] Analogamente per le forme spaziali, o figure: noi possiamo percepire la stessa “forma spaziale”, p. es. un quadrato, sulla base di differenti gruppi sensoriali; possiamo cangiare il colore delle linee e dei punti e ciononostante la percezione della figura, come tale, resta inalterata” (ivi, 153-154). Non mi è possibile soffermarmi qui sulle controversie (acutamente analizzate da Fabro) provocate dalla teoria di von Ehrenfels, soprattutto per ciò che riguarda il concorso del soggetto pensante e senziente all’origine della “forma”; controversie nelle quali si distinse Meinong, con la sua “teoria dell’oggetto” (pp. 158-168). Vengo piuttosto alla Gestalttheorie vera e propria, che Fabro fa oggetto di un’ampia “esposizione analitica sostanziale, sia pure per sommi capi” (p. 172), cominciando dal suo fondatore, Max Wertheimer.

II.
VIII. La Gestalttheorie.
La Gestalttheorie teorizza “un sintetismo assoluto”. Essa respinge i due concetti base della concezione “analistica”, propria dell’Associazionismo: che ogni nostra percezione riposi su di un “fascio” di elementi, che può acquistare un senso solo mediante una “sommazione”; che “ogni funzione psichica” sia “una connessione di sommazioni pure” ossia la “costruzione”, a partire da “pezzi isolati ed avventizi”, di un primo complesso, ricavando da questo un secondo e così via; costruzione che non si fonda su alcun “principio ultimo che regga, nella sua struttura, l’aggregazione” che si viene in tal modo a creare, dato che a quest’ultima basterebbero “i fattori estrinseci della frequenza e della simultaneità di presentazione” (ivi, 173).

Per i Gestaltisti, c’è nella mente “la tendenza spontanea a considerare l’oggetto da un punto di vista totalitario”, ossia come un tutto (unitario) strutturato nelle sue parti, che hanno significato solo in esso. Come disse Wertheimer, in una celebre conferenza tenuta alla Kant-Gesellschaft nel 1924 : “si danno dei tutti strutturali, il comportamento dei quali non è determinato da quello dei loro elementi individuali, come pezzi isolati, ma ove invece i processi parziali sono essi stessi determinati dalle leggi strutturali interne del tutto”.(10)
L’uso del termine Gestalt, che si traduce in genere con “forma”, richiede qualche chiarimento. Forma, in che senso? Spiega Fabro, basandosi su di un illuminante saggio di Max Wundt, che non si tratta qui della forma sostanziale nel senso di Aristotele, né dello eidos platonico (l’intelligibile puro), né della fenomenologia husserliana (ivi, 308). La “Gestalt” abbraccia in unità “tanto la “forma” come la “figura” e prescinde dalla “posizione ontologica” che questi termini possono avere nella concezione metafisica del reale” (ivi). La Gestalttheorie vuole cogliere “il modo di “apparire” caratteristico degli oggetti nella percezione: la “Gestalt” [la “forma”] è ciò che nella percezione s’impone di per sé ed anzitutto, ed è ciò che costituisce il momento centrale, il nucleo di contenuto dell’apparizione fenomenale [...] È “l’apparire puro” degli oggetti, del loro presentarsi e fissarsi nel campo dell’attenzione [...] la situazione fenomenale particolare che gli oggetti prendono nella coscienza del soggetto, per cui un contenuto s’individua in sé e non può esser confuso con alcun altro”.(11)
     [Le leggi di organizzazione della forma] Wertheimer mise in rilievo la “tendenza spontanea della mente” a considerare l’oggetto come un tutto ordinato secondo certe “leggi di organizzazione” (otto in tutto), che egli ricavò sperimentalmente. Fabro riporta minutamente i relativi tests, costituiti da combinazioni di macchie, punti, cerchietti, figure geometriche (ivi, 179-186). Mi limiterò ad esporre il test della prima legge.
Essa è quella della “vicinanza come fattore di aggregamento”. La mente tende spontaneamente a raggruppare i punti o cerchi tra loro più vicini, sino a formare con essi delle figure geometriche, così come accade con “i gruppi” di stelle, che gli antichi astronomi elaborarono in “complessi figurali” noti (ancor oggi) come “costellazioni” (pp. 179-181). Vediamo allora la prova sperimentale.
Se ho una serie a coppie di punti o cerchietti uguali, intervallati secondo una cadenza regolare, in questo modo: º º º º º º º º etc., ai quali attribuisco in successione le lettere: ab, cd, ef, etc., la nostra mente come se li rappresenterà, secondo quale “forma”? Unendo i più lontani o i più vicini tra loro? Unendo immediatamente i più vicini, secondo l’ordine: ab, cd, ef, etc. E non secondo l’ordine: a bc d ef etc. I punti b e c, d ed e, etc. sono troppo separati fra di loro. Questo modo di procedere della mente dimostrerebbe che essa non pone in essere delle associazioni; al contrario, intuisce immediatamente il Tutto della serie alla luce del criterio, pure immediato, della vicinanza (p. 180). La mente riproduce un ordine che già si ritrova nell’oggetto.
Un altro “fattore di aggruppamento” è costituito dalla “somiglianza o buona forma”: la mente tende spontaneamente a raggruppare i punti o cerchi tra loro uguali per forma e colore, a preferenza di quelli disuguali (seconda legge di organizzazione). La vicinanza e la somiglianza possono poi “opporsi in modo alterno” o “contribuire l’una all’altra”, con una “accentuazione della verticalità” dell’immagine (terza legge). La percezione dipende poi anche dalla posizione che la serie occupa nella sequenza (settima legge) e “dall’esperienza passata” (ottava legge), che non va però sopravvalutata (ivi, 182-185).
Dalle deduzioni “psicologiche sperimentali” di Wertheimer si concluse che “noi non percepiamo le differenze assolute delle cose ma quelle proporzionali”. A che cosa? Alla posizione che l’oggetto occupa nella serie o sequenza nella quale è ricompreso, alla direzione, alla “buona forma” e così via. Ciò dimostrerebbe, contro gli associazionisti, che “mentre il valore dello stimolo [visivo] può crescere in modo continuo, la sensazione cresce in modo discontinuo” (ivi, 185).
     [Il rapporto figura-sfondo] Le “leggi di organizzazione” di Wertheimer furono integrate (nel 1913) dalle acute osservazioni dello psicologo danese E. Rubin sul rapporto (già delineato da Wertheimer) tra l’oggetto e il campo visivo: l’oggetto appare come “figura” che si delinea nettamente sullo sfondo rappresentato dal “campo”. Tra “campo” e “figura” sembra esserci un equilibrio reciproco (legge della “segregazione” o Gliederung, ripartizione del campo). Rubin precisò la “funzione psichica” del campo, inteso come “sfondo” (ivi, 186-187).
Fabro riproduce note combinazioni di figura e sfondo, irreversibili e “reversibili”, come quella famosa della coppa o anfora bianca su di uno sfondo nero (nota come “vaso di Rubin”). Se noi “seguiamo con l’occhio i bordi, cioè il “profilo” della coppa: si avrà ad un certo momento la percezione subitanea di due volti [neri] in profilo [uguale e contrapposto] posti di fronte, mentre la coppa sarà scomparsa e la zona bianca ridotta a sfondo. Non si può quindi affermare in modo assoluto, secondo Rubin, che lo sfondo sia amorfo” (p. 188). C’è anche il disegno di un anatroccolo che può diventare un coniglio, se al posto del lungo becco dell’anatroccolo si vedono le lunghe orecchie di un coniglio (p. 189). (In quest’ultimo caso, però, lo sfondo non c’entra). Questa “reversibilità” si riscontra anche in immagini geometriche: ad esempio, una stella a sei punte (ma non come quella di Davide) chiusa in un esagono può apparirci all’improvviso come un insieme di “tre cubi interni all’esagono, di cui uno posto in alto, e gli altri due in basso”, e questi cubi possono apparirci in alto o basso rilievo (p. 190). E la semplice immagine lineare del cubo, non può forse apparirci secondo due direzioni diverse, una rivolta in basso ed una rivolta in alto? (ivi). Qui le figure geometriche lineari acquistano improvvisamente spessore, i quadrati diventano cubi.
Nell’elaborare i princìpi generali del rapporto tra figura e sfondo, Rubin trovò che il contorno o “profilo” (Kontur) della figura sembra costituire il fattore dominante. Nel “profilo” vanno localizzate le “forze” che determinano quale delle due parti del campo ha da essere la figura, quale lo sfondo” (p. 191). La figura non si appiattisce mai sullo sfondo. Essa acquista uno “pseudo-rilievo” e appare più “penetrante” dello sfondo. Il contorno “non opera in tutti e due i sensi”: il suo influsso si dirige sempre alla figura inclusa e non a quella includente”; ovvero: “la qualità del contorno dipende da quella della superficie che esso termina ed a cui appartiene” (p. 192).
Il “rapporto percettivo” tra figura e sfondo si ritrova anche in campo acustico (nella musica, in particolare, ove subisce inversioni nelle forme musicali di alcuni grandi Maestri: Bach, Händel, Beethoven) e in campo tattile (per esempio, nelle esperienze dei ciechi) (pp. 193-195). La “dualità figura-sfondo”, come studiata e messa in rilievo dai Gestaltisti, non si spiega (sottolinea Fabro) in termini di esperienza e quindi mediante l’idea di una associazione di due elementi: figura e sfondo. La loro articolazione va considerata “come una forma di organizzazione spontanea, sorta dalla distribuzione (a mosaico) dello stimolo sull’organo di senso” (ivi, 196).
La riflessione su questa “dualità” induce ad alcune considerazioni. Si è notato che, nel caso dell’immagine reversibile, non è possibile vedere simultaneamente le due immagini.(12) Nel caso del vaso di Rubin, o vedo la coppa o vedo i profili. Ciò non sembra dimostrare che, nell’istante della percezione, la mia mente non può associare le due diverse immagini incluse nel rapporto tra l’oggetto e lo spazio che gli fa da sfondo? La mia mente può coglierne solo una e come un tutto unitario in se stesso. Ciò che colgo, nella percezione, è una forma le cui componenti sono sempre afferrate simultaneamente da me: non posso però cogliere simultaneamente due configurazione diverse nella stessa forma, che le attribuiscono un significato diverso, capovolgendo addirittura il rapporto tra figura e sfondo.
Inoltre, una delle due configurazioni sembra essere quella più semplice, che si coglie spontaneamente, mentre l’altra ci colpisce in un secondo tempo, risultando di una lettura più complessa. Tant’è vero che alcune delle “inversioni” elaborate dai Gestaltisti o non si riescono a percepire (per me, quella annunciata nel disegno di una donna giovane che si può vedere anche come una vecchia – FP, 189), o vi si riesce solo con un certa fatica, dopo che siamo stati messi sull’avviso: nel mio caso, quella contenuta nella “scala di Schröder”, che può mostrare di avere i gradini “tanto in posizione diritta da destra a sinistra, come in posizione rovesciata da sinistra a destra” (p. 190). Il fatto è che in posizione rovesciata la scala cessa di esser tale. Essa appare piuttosto un tetto costruito a gradoni, ascendenti da destra a sinistra. Si può allora distinguere, mi chiedo, tra un’immagine naturale (la coppa, la scala, la stella nell’esagono, etc.) conforme all’intenzione di chi l’ha disegnata o riprodotta e un’immagine artificiale o fortuita, che sarebbe quella risultante dall’inversione di significato successivamente percepita nell’immagine stessa, inversione che sarebbe allora il prodotto esclusivo della nostra mente; la quale prevaricherebbe con la fantasia, sull’intuizione immediata della “forma” offertaci dalla realtà?
Ma si potrebbe obiettare che la forma passibile di “reversibilità percettiva” può essere del tutto semplice, come nel caso del “tracciato lineare del cubo” o della linea curva che taglia verticalmente a metà un rettangolo, dando vita ad una superficie concava da un lato e convessa dall’altro; superfici sulle quali la mente si sofferma separatamente, quando sono colorate in modo diverso (ivi, 190-191). In aggiunta, non vi sono forse dei casi nei quali il soggetto coglie l’immagine di reversione prima ancora di quella semplice o naturale che dir si voglia? Ciò dimostrerebbe allora che la nostra mente può cogliere a piacere l’una o l’altra immagine. Non sarebbe pertanto possibile stabilire una scala di priorità, tra l’immagine “naturale” e quella “artificiale”, risultante dalla reversione dell’immagine stessa.
Anche se il principio da me enunciato in via di ipotesi non può pretendere di essere veramente universale, credo tuttavia che sia legittimo chiedersi se l’immagine risultante dalla “reversione” della forma originaria percepita, possa considerarsi anch’essa immediata e spontanea.
     [Il principio della costanza della percezione] L’analisi di Fabro prosegue in modo sistematico, con il mettere in rilievo come la Gestalttheorie abbia dimostrato l’insufficienza del modo nel quale l’Associazionismo aveva concepito il “principio della costanza” (ivi, 196-212). Secondo l’Associazionismo, deve esistere “un rapporto costante tra lo stimolo locale e la reazione percettiva; in altre parole: a condizioni esterne costanti deve corrispondere un rendimento percettivo costante” (ivi, 196). Tutta una serie di esperimenti di tipo “gestaltico”, condotti anche su animali, ha dimostrato, invece, che non c’è corrispondenza univoca tra stimolo e percezione (visiva). Quest’ultima non è direttamente proporzionale allo stimolo. Nonostante il variare di quest’ultimo, “l’oggetto rimane per noi pressoché costante nelle sue dimensioni, e cioè noi non sappiamo soltanto che l’oggetto (realmente) non ha mutato dimensioni, ma altresì vediamo come pressoché costanti le sue dimensioni apparenti” (p. 199). Perché si abbia la suddetta “costanza di percezione” non occorre, perciò, che lo stimolo sia sempre costante.
Dati i limiti di questo mio intervento, non seguirò Fabro nella esposizione minuta degli esperimenti condotti a sostegno della tesi. Né lo seguirò nell’analisi particolareggiata che egli fa della concezione gestaltica della percezione dello spazio e del movimento, considerate “percezioni fondamentali” (ivi, 213-247), né in quella che concerne “la forma nella patologia, nelle attività superiori e nella sua genesi” (249-299), ugualmente fascinosa ed importante (perché l’analisi delle patologie della forma consente di comprendere meglio l’operare corretto delle nostre percezioni).
     [La percezione dello spazio] Voglio tuttavia ricordare brevemente la convinzione dei Gestaltisti della possibilità nostra di percepire lo spazio in quanto tale, fondamentale per ogni teoria realistica della conoscenza (vedi supra, § IV).
Berkeley negava la possibilità di percepire lo spazio, da lui ridotta a percezione lineare della distanza. Non poter percepire la distanza significava per Berkeley non poter percepire lo spazio in quanto tale. E perché la distanza non può esser vista, sia “in sé” che “immediatamente”? Perché “la distanza, essendo una linea che giunge perpendicolarmente all’occhio, proietta, sul fondo di questo, un sol punto che rimane invariabilmente lo stesso, tanto se la distanza aumenta quanto se diminuisce”.(13)  Ne seguiva, che Berkeley doveva concepire la nostra “stima della distanza degli oggetti [che siano] considerevolmente lontani” come “ rather an act of judgement grounded on experience than of sense”.(14) Circa l’affermazione iniziale di Berkeley, osservo: egli riduce “la distanza” ad una “linea” che giungendo perpendicolarmente all’occhio può esser percepita da esso solo come “un punto”. Un punto non ha profondità. Qui abbiamo una nozione lineare o metrica della distanza, che appare alquanto riduttiva. Nella distanza, non dobbiamo comprendere anche la tridimensionalità? L’occhio percepisce nettamente la profondità, la prospettiva: la nostra visione non è affatto appiattita, come se constasse di una serie di punti, in fondo alla retina, tutti uguali nell’esser privi di spessore ossia di proiezione all’esterno, nella profondità del campo visivo.
Ma, prescindendo da questo aspetto, bisogna porsi questa domanda: se percepiamo la distanza con “un atto di giudizio” e non con il senso della vista, questo atto di giudizio dovrà basarsi sull’esperienza. Ma su quale esperienza, mi chiedo, se noi siamo, secondo Berkeley, comunque impossibilitati a cogliere la distanza, “tanto se aumenta quanto se diminuisce”? L’esperienza, non la facciamo qui sempre con l’organo della vista? E quest’ultimo non è impossibilitato per natura a cogliere la distanza, in quanto tale? Così spiega egli, allora, il ruolo dell’esperienza nella vicenda: “Se percepisco un gran numero di oggetti intermedi, quali case, campi, fiumi et similia, che ho sperimentato occupare uno spazio considerevole, ne traggo il giudizio o la conclusione che l’oggetto che vedo al di là di essi si trova a grande distanza. E pertanto, quando un oggetto appare esser vago e piccolo, ed io ho sperimentato da vicino che appare ampio e robusto [nelle sue dimensioni], ne concludo istantaneamente che esso si trova lontano”.(15)
Ma come ho sperimentato che “gli oggetti intermedi” occupano in se stessi “uno spazio considerevole”? Con un altro giudizio? Non può essere, dal momento che questi “oggetti” costituiscono essi stessi il parametro che mi permette di giudicare della distanza. E quindi: l’esperienza assunta a base del giudizio presuppone già la capacità dell’esperienza stessa di cogliere la distanza, il che è contro l’ipotesi. Inoltre, questo giudizio consta di una comparazione, che si fonda sulla memoria di un’esperienza precedente, nella quale però la memoria non dovrebbe aver alcun ruolo, altrimenti si aprirebbe un regresso all’infinito. Ma il ragionamento di Berkeley può ammettere un’esperienza che sia prima in assoluto, nel senso che sia tale senza dover far ricorso alla memoria? Se capito per la prima volta in una zona aperta e desertica, senza “case, campi, fiumi” tra me e l’orizzonte, e scorgo lontano (verso l’orizzonte) dei punti in movimento (animali, uomini) o delle macchie (macchie, boschetti), mi accorgo o non mi accorgo che si trovano a grande distanza da me e senza bisogno di traguardarli ad oggetti intermedi? Dobbiamo dire, in modo palesemente assurdo, che senza questi “oggetti intermedi” io non potrei rendermi conto del fatto che gli “oggetti”, che mi appaiono come punti all’orizzonte, sono lontani? Bisogna, invece, concedere all’esperienza (ai nostri sensi) la capacità di cogliere la distanza, ossia alla nostra vista la capacità di vedere lo spazio in quanto tale.
E se si risponde a queste critiche sostenendo che Berkeley nega in realtà solo che l’occhio possa cogliere le cose lontane (che si trovano appunto “distanti”) mentre può cogliere quelle vicine a noi, bisogna rispondere, a mio avviso, che non si può ammettere nell’occhio la capacità di cogliere la distanza solo in parte. Con quale criterio Berkeley riduce la capacità dell’occhio di cogliere la distanza alle sole cose vicine o a quelle che si trovino ad una distanza media rispetto a quelle più lontane? Quelle più lontane sarebbero percepite come tali solo per comparazione con quelle meno lontane o più vicine, una comparazione, per di più, fondata sul ricordo delle dimensioni effettive di queste cose più vicine o meno lontane! Ma in realtà è la distanza in quanto tale che, secondo Berkeley, non si può percepire, a prescindere dalla sua lontananza dal soggetto: altrimenti egli non scriverebbe che il “punto” terminale della famosa retta “rimane invariabilmente lo stesso, tanto se la distanza aumenta quanto se diminuisce”. Se Berkeley avesse ragione, noi vedremmo allo stesso modo della macchina fotografica, senza profondità di visione.
Ma veniamo all’argomento della Gestalttheorie. Per essa, la distanza e quindi lo spazio, vengono colti nel Tutto organizzato costituito dalla “forma” che comprende istantaneamente l’immagine dell’oggetto specifico e lo spazio tra di esso e il nostro occhio. “Così uno vede una parete bianca ad una certa distanza: la bianchezza è ristretta alla superficie della parete, mentre lo spazio intermedio fra l’osservatore e la parte non appare bianco, ma semplicemente trasparente, cioè spazio puro, inarticolato. In questi casi di “spazio omogeneo” bisogna ammettere che lo stimolo, parimenti omogeneo, causa qualcosa di minimo nel sistema nervoso, il minimo che si possa pensare in queste condizioni. Eppure questo minimo è sufficiente per generare un campo di forze che danno la percezione dello spazio a tre dimensioni” (FP, 215).
Lo spazio a tre dimensioni è “trasparente” ma la sua presenza non può sfuggire alle leggi di organizzazione della Gestalt che ricomprende per noi la parete bianca, posta ad una certa distanza da noi. Il vuoto che è lo spazio intermedio è ricompreso nelle leggi di organizzazione del Tutto costituito dalla forma che istantaneamente viene da noi percepita come parete bianca distante da noi. Come potrebbe esserne escluso? Come potrebbe non rientrare negli “stimoli” che il Tutto della forma suscita nel nostro sistema nervoso? Nel Tutto, la parte costituita dallo spazio vuoto non può rappresentare una soluzione di continuità nelle nostre percezioni, una zona dalla quale non pervengano stimoli.
Questa spiegazione sembra presupporre la nostra capacità di cogliere la profondità dello spazio fuori di noi, che non ha bisogno di essere dimostrata? In realtà, la percezione dello spazio sembra dipendere qui dal “campo di forze” che si genera di per sé nel campo visivo, ove si ha uno spazio vuoto tra l’oggetto e l’osservatore. La nostra capacità di cogliere la profondità non vi entrerebbe per niente. E tuttavia, osservo, senza questa capacità di cogliere la profondità come prospettiva (che la macchina fotografica non possiede) “il campo di forze” stimolerebbe invano il nostro organo di senso.
Lo spazio viene dunque percepito, secondo i Gestaltisti, soprattutto perché abbiamo spontaneamente la disposizione ad abbracciare l’oggetto come un Tutto, e il Tutto, che costituisce il nostro “campo visivo”, deve ricomprendere lo spazio tra gli oggetti ed il soggetto. Questa disposizione spiegherebbe al fondo anche le “illusioni” della percezione (ivi, 218-233).(16)
IX. La critica alla Gestalttheorie
Le molteplici ed argomentate critiche rivolte alla Gestalttheorie, sono l’oggetto di un’analisi molto approfondita (ivi, 303-361). Una delle critiche fondamentali riguarda il postulato “isomorfista” elaborato da alcuni esponenti di spicco della teoria. Questo aspetto mi sembra di particolare interesse.        [L’isomorfismo, sviluppo estremo della Gestalttheorie] Lo sviluppo sistematico del principio della Gestalt indusse già Wertheimer a trasmutare dalla psicologia alla fisiologia, ossia “dall’analisi fenomenologica alla spiegazione causale” della forma (ivi, 288). Wertheimer, “allo scopo di spiegare il passaggio dal mosaico delle eccitazioni retiniche all’unità dell’oggetto percepito, immaginò che l’energia dello stimolo producesse nel sistema energetico dell’organo recettore una risposta di natura globale, come una specie di “corto circuito” (Kurzschluss). Il centro del problema veniva così spostato dal campo psicologico, nel quale le interpretazioni precedenti lo fissavano, al campo fisiologico, cioè nel campo di forze che si producono a partire dalla superficie esteriore dell’organo di senso, lungo le vie nervose, fino ai centri cerebrali” (ivi, 289). In tal modo, si veniva ad ipotizzare un “correlato fisiologico” della “forma” dell’oggetto percepito, e lo si ipotizzava nel “complesso sistema centrale di distribuzione nervosa” del cervello (ivi). Wertheimer credeva di poter fondare questa teoria sui progressi recenti della fisiologia cerebrale (ivi). Ma in tal modo la Gestalttheorie veniva a subire un mutamento qualitativo non indifferente: “dalla Gestalt fenomenale, che è un oggetto di osservazione immediata, si passa alla supposizione della Gestalt fisiologica, come processo condizionante o addirittura causale della Gestalt fenomenale” (ivi, 290).
Köhler si spinse oltre, con il saggio Le forme fisiche in quiete e in condizione stazionaria, del 1920. Il principio della Gestalttheorie, secondo il quale il Tutto è più della somma delle sue parti, scriveva, unifica mondo percettivo e spirituale. “L’impressione definita di una figura, il carattere specifico di un motivo musicale, il significato di un proverbio o di una proposizione qualsiasi sono certamente qualcosa di più della somma dei relativi punti colorati, delle sensazioni tonali e dei significati isolati delle parole singole” (ivi, 291). Ma questo principio vale anche “nel mondo fisico”? Vi sono in esso dei “Tutti”, “le proprietà dei quali non possono esser costruite per addizione delle qualità delle singole parti?” (ivi). Un esempio in tal senso è costituito per Köhler dall’acqua. Le proprietà di una molecola d’acqua sono strutturalmente diverse e ben più complesse di quelle dell’idrogeno e dell’ossigeno che la compongono: sommandosi nella nota proporzione di due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno, essi danno luogo a qualcosa di strutturalmente diverso ed interamente nuovo rispetto alle caratteristiche individuali di quelle due sostanze (ivi, 292).
Nel mondo fisico vi sarebbero dunque delle realtà, delle categorie di “fatti” che possiedono le caratteristiche di base della “forma”, che sono sempre quelle stabilite da von Ehrenfels (vedi supra, § VII).
Un primo esempio il nostro autore lo trova nei “sistemi in equilibrio stazionario”, come quelli elettrici. “Un gruppo di condensatori, isolati fra di loro, non è che un complesso fisico di sistemi singoli, indipendenti. Ma supponiamo di unire, per mezzo di un filo, i vari condensatori: immediatamente si ha che i sistemi si aggiustano a vicenda rispetto alle differenze di potenziale e si ottiene una redistribuzione uniforme di carica in tutti i punti del sistema totale che si è formato”. Con il collegamento, si raggiunge una “uguaglianza di distribuzione” che ha carattere “dinamico”. Il che significa, ed è questo che interessa Köhler, che “la quantità di carica di un punto del sistema dipende direttamente – è in funzione – da quella di tutto il campo a cui il punto appartiene, cioè di tutti gli altri punti presi insieme” (ivi, 293). È il Tutto con la sua determinata forma, con le sue leggi di organizzazione a spiegare l’essere delle parti o meglio (in questo caso) dei punti. Lo stesso principio, Köhler lo vede all’opera in altri esempi di “equilibrio fisico”: “la propagazione del calore, la diffusione di un liquido in un sistema di vasi comunicanti, la diffusione di una sostanza in una soluzione, la distribuzione di una corrente elettrica su di un conduttore omogeneo” (ivi).
Le “realtà fisiche” di questo tipo devono considerarsi “unità formali” o “forme fisiche” poiché esse verificano, secondo il Nostro, i due criteri di von Ehrenfels.
“Come nella forma psichica che è la “melodia”, anche nelle “forme fisiche” ciò che è essenziale è la capacità che hanno le “parti” del “tutto” di agire le une sulle altre; tale capacità è fondata su certe condizioni di spazio e di tempo (simultaneità, successione). Sono queste relazioni interne di causalità [...] che danno ad un “tutto” fisico il carattere di struttura unitaria” (ivi).
Le “forme fisiche” possono poi esser considerate “trasportabili”. “Invero è possibile anche in esse ottenere che certe proprietà restino costanti, qualora si abbia l’avvertenza, allorché si cambiano e si alterano i valori assoluti delle parti, di conservare inalterati i valori dei rapporti primitivi. La struttura di una carica non cambia, se si cambia la materia del corpo conduttore, purché resti di natura omogenea...” (p. 294).
La Gestalttheorie, nota Fabro, cerca in questo modo di introdurre il suo concetto della “forma” nell’ambito della fisica moderna. Per essa, “in natura si danno alcuni processi che presentano un comportamento interno caratteristico secondo una rigorosa dipendenza delle parti dal tutto, a differenza di altri processi nei quali non si hanno “parti” ma “elementi”, i quali si regolano in modo indipendente gli uni dagli altri” (ivi).
Ma nel concetto di “forma” della Gestalttheorie (in special modo nell’elaborazione ultima fatta da Köhler) non si sente l’influenza di quello del “campo” con le sue relative “forze di campo”, elaborato dai Fisici per interpretare i fenomeni elettromagnetici, ed esteso successivamente da Einstein (come ipotesi) alla struttura dell’intero universo? Lo stesso Köhler, ricorda Fabro, in un’opera successiva (Dynamics in Psychology, scritta nel 1938 in America), “per convalidare l’ipotesi dell’isomorfismo, mutua dal Faraday “il principio del campo” (Feldprinzip) che deve regolare i rapporti fra il processo sensoriale periferico e le “tracce” (Spuren) cerebrali dell’esperienza passata”.(17)   A me sembra che “il principio del campo” sia presente nella “psicologia della forma”, sin dalle formulazioni di Wertheimer. Non per nulla questa psicologia si sviluppa (agli inizi del XX secolo) parallelamente alla nascita della Nuova Fisica, e sembra pervasa della medesima temperie culturale che ha prodotto quest’ultima.
Ma torniamo all’isomorfismo di Köhler. Egli sostiene che il concetto di “forma” o “struttura” sia giunto a dominare, oltre che nella fisica, anche nella fisiologia. “Le terminazioni nervose nell’organo periferico, il nervo con le sue fibre, il centro con i suoi strati di fibre e cellule, non sono delle unità staccate o staccabili, che si associano casualmente per il conseguimento di un risultato, ma formano un sistema unitario che è il settore ottico. Secondo il principio generale della “forma”, gli eventi del sistema non sono in funzione (esclusiva) dei processi che possono avvenire in una sua parte, p. es. nell’organo recettore, ma traggono la propria caratteristica dalle condizioni generali di tutto il sistema, particolarmente del sistema centro-corticale che ha condizioni più stabili rispetto alle altre parti. Non è, pertanto, dall’effetto dello stimolo, come stimolo, che dipende il rendimento fenomenale della percezione; ma piuttosto dalla “regolazione” o tendenza all’equilibrio che ha luogo dopo l’eccitazione: la “forma fisiologica” che ne deriva, esprime esattamente il rapporto che intercede fra la “forma fisica” da cui è partito lo stimolo e la “forma fisiologica” preesistente. Nell’organo periferico, lungo il nervo conduttore, nei centri, si producono dei fatti di “regolazione” in tutto simili a quelli che si osservano nella distribuzione di una carica elettrica in un condensatore a potenziale diverso o nella diffusione di due soluzioni di concentrazione ineguale [...] Ne segue che l’organo, quand’è eccitato, non risponde con un suo processo particolare, ma secondo le condizioni che ad esso impone il campo totale”. Perciò “forme fisiche” e “forme fisiologiche” obbediscono a leggi identiche (ivi, 296). Che sono le stesse per le “forme fenomenali”. E proprio questo sarebbe l’isomorfismo: la “somiglianza di struttura” fra le forme fisiche, fisiologiche e fenomenali (p. 298). Cambia “il materiale” della percezione, ma la “struttura” sarebbe sempre la stessa.
Ne risulta una dipendenza stretta della percezione in senso proprio dalla fisiologia: “le “forme” della percezione altro non sarebbero che la versione “fenomenale” delle forme fisiologiche ad esse soggiacenti”. E nelle forme fisiologiche operano “forze elettromotive” ossia “fatti fisici” che obbediscono al medesimo criterio, che realizzano la medesima Gestalt. Una simile concezione non poteva che sfociare in una sorta di pangestaltismo, ossia nella pretesa di spiegare non solo gli altri fenomeni percettivi (il movimento apparente, le illusioni spaziali, la percezione patologica) ma anche l’azione e lo stesso pensiero (ivi).
Köhler si rendeva conto, postilla Fabro, del carattere “misterioso” delle “forme fisiologiche” e del fatto che queste ultime, ed in parte le “forme fisiche”, vengono di fatto dedotte da quelle “psicologiche” per analogia. Egli limita, perciò, l’isomorfismo a mero postulato, “ipotesi di lavoro” (ivi, 298-299). Ma ciò non salvò la Gestalttheorie da critiche che colpirono con particolare durezza proprio il principio dell’isomorfismo. 
      [Mancanza di originalità e di universalità] E non si limitarono certo a questo. Si originò subito una controversia sulla “originalità della Gestalttheorie”, se fosse da considerarsi legittima la sua pretesa di esser stata la prima teoria “a mettere in evidenza l’originalità del fatto percettivo e a confutare in modo definitivo l’atomismo psichico della vecchia psicologia” (ivi, 310). Si fece notare che c’erano stati diversi precursori (vedi supra, § VII). Fabro ne amplia qui l’elenco, richiamando anche Dilthey, con il suo particolare concetto di “atto psichico” (Erlebnis) (ivi, 311-323), concetto che oggi si tende a rendere con “esperienza vissuta” o “il vissuto”.
Naturalmente, fu messa in discussione anche “l’estensione” della Gestalttheorie ossia la sua “universalità”, la sua pretesa (alla fine) di costituire “la categoria suprema dell’essere e del conoscere”. Si fece notare che “più che la “forma” nella sua esteriorità, ciò che a noi preme, per i risultati pratici della vita, è di conoscere le cose nel loro contenuto reale; e il “tutto” non si esaurisce nella “forma”, ma abbraccia i rapporti reali che ha l’oggetto attualmente. I Gestaltisti invece facevano di ogni erba un fascio e credevano di aver tutto risolto quando chiamano un oggetto come “forma”: un metodo così semplificatore non è fatto certamente per chiarire le idee” (ivi, 325).
La controversia, sul punto, si riduceva alla fine a questo: “è proprio vero che la Gestalt assorbe ogni contenuto psichico, cosicché nulla si dia né al di sotto, né al di sopra di essa?” (p. 326).
     [Assenza del concetto di materia] Il termine “forma” (questa l’accusa) veniva usato “per coprire i significati più disparati” e questo era possibile, secondo lo psicologo francese Pierre Janet, uno dei promotori della psicologia sperimentale in Francia, perché questo concetto di “forma” trascurava completamente l’idea della materia. Questa notazione mi sembra particolarmente interessante. Non ci può essere forma senza materia corrispondente. La “materia” è correlativa e complementare della “forma”: la forma è appunto forma di una materia, e la “materia” è sempre materia di una forma. Potrà darsi che, qualche volta, l’una si trovi separata dall’altra, ma l’essere completo è dato dall’unione naturale di ambedue. All’essere di una prugna appartiene tanto la Materia come la Forma; la Materia, da sola, è una prugna incompleta” (ivi). Ne consegue che “l’opposizione di Materia e Forma sembra, nel campo della oggettivazione percettiva, assai più importante dell’opposizione, avanzata dai Gestaltisti, fra motivo, sfondo e figura. Il fermarsi alla sola Forma conduce spesso a sminuire notevolmente il valore dell’oggetto, perché la sola Forma non di rado è inadeguata ad informarci del contenuto reale delle cose” (ivi).
Il concentrarsi sull’idea della “forma” aveva condotto i Gestaltisti a “ridurre il problema della percezione ad un problema di fisiologia cerebrale”, di contro ad altri (loro critici) che “lo affondavano nell’oscurità degli istinti e delle tendenze affettive”. Bisognava invece ammettere, concludeva Janet, che tale problema “restava inesplicabile fin quando non venisse riattaccato all’intelligenza”, ossia ad “un atto intellettuale elementare”, che ha la capacità di “distinguere la Forma da quanto può entrare a far parte dell’atto totale della percezione” (p. 327).
I critici della nuova psicologia concordavano sul fatto che “la Gestalt non assorbe ogni contenuto di conoscenza e che è subordinata a fattori di ordine superiore”, i quali “sono di ordine intellettuale” (ivi). Si accusava, in realtà, la Gestalttheorie di aver voluto diventare una filosofia, andando oltre i propri limiti, che erano quelli di una costruzione scientifica limitata al campo della psicologia. (Un’accusa simile, mutatis mutandis, fu poi rivolta – e tutt’ora lo è – alla psicoanalisi, che da semplice terapia delle nevrosi, da semplice branca della medicina volle indebitamente ergersi a Weltanschauung capace di spiegare non solo certe malattie mentali ma i fondamenti stessi della nostra personalità - il nostro stesso esser un Io, dotato di intelletto, coscienza, volontà – affidandosi in ciò principalmente alle discutibili “categorie” costruite sull’esperienza delle patologie mentali).
    [Uso improprio del metodo] Il metodo della Gestalttheorie veniva inoltre accusato di un uso improprio. Elaborato inizialmente per render conto delle sole percezioni visive, “nelle quali le proprietà degli oggetti vengono presentate simultaneamente, secondo una sintesi originaria”, era stato in un secondo tempo esteso a tutti gli altri campi della sensibilità, inclusa “la psicologia animale” e quella “infantile”, il che non non si poteva considerare affatto legittimo (p. 330). Jean Piaget, pur lodando per certi aspetti la Gestalttheorie, la criticava in profondità, poiché non dava una spiegazione valida dell’evoluzione della psiche infantile (ivi, 333-335).
     [Mancata considerazione del significato della forma”] Un altro appunto essenziale era il seguente: l’aver messo in secondo piano il momento del significato, “livellando i processi superiori del pensiero a ordinari processi di forma” (ivi, 336). La Gestalttheorie non sembrava distinguere tra “forma” e “significato”. Percepire la forma non significa comprendere di per sé il significato di ciò che si è percepito. Quest’ultimo può richiedere un’elaborazione da parte del soggetto, posteriore all’apprendimento della forma dello stesso e che tuttavia può influire sulla sua percezione, nella misura in cui essa si fonda sull’esperienza passata del soggetto, “nella quale l’organizzazione intuitiva ‘coincideva’ con il senso o significato” (tesi dello psicologo sperimentale belga A. Michotte – ivi, 336-338).
In Italia, questa critica fu sviluppata dal P. Gemelli e dalla sua Scuola: bisogna capire che il “significato” viene come ad incorporarsi nella “forma”, sicché “è l’elemento intellettuale del significato ciò che decide e costituisce il fulcro nella strutturazione percettiva dell’oggetto” (p. 342). In conclusione, sarebbe “il significato” a guidarci nella percezione, il significato ossia “ciò che sappiamo di un oggetto”. Esempio: “...avviene, infatti, che noi riconosciamo una persona per quello che in realtà non è, per il fatto che ci si era fondati su un particolare al quale quel significato era associato” (p. 343).
     [Critica all’isoformismo] Resta da vedere, in ultimo, la critica all’isoformismo, che fu la più radicale, come si è detto (ivi, 346-361).
Si mise in rilievo innanzitutto che: 1) non era affatto certa “la corrispondenza fra i processi fisiologici del sistema nervoso e l’apparire di un contenuto fenomenale”; e che pertanto: 2) non era affatto dimostrabile che “ogni processo di formazione ed ogni forma fenomenale seguisse come effetto, rigorosamente determinato, di un processo di formazione e di una forma fisiologica” (p. 347). Simile “parallelismo psicofisico” era scientificamente indimostrabile ed inoltre giustificava l’accusa rivolta ai Gestaltisti, sostenuta anche da Wilhelm Wundt, di esser alla fine ricaduti nel “deprecato Associazionismo materialista”, proprio in reazione al quale era nata la Gestaltpsychologie (p. 348). Non si trattava, naturalmente, di negare l’esistenza di un nesso tra “percezioni sensibili” e “fisiologia”: ciò che non si poteva accettare era la tesi che le prime derivino dalla seconda e proprio grazie a quel concetto di “forma”, nato inizialmente solo per spiegare, in chiave puramente psicologica, la dinamica della percezione visiva. È certamente vero che “ad ogni situazione di coscienza corrisponde una certa situazione cerebrale”. Ma come intenderla, senza cadere negli eccessi opposti dell’idealismo e dell’isomorfismo a tinta materialista della Gestalttheorie nella sua forma estrema? Ancora al tempo nel quale scriveva il P. Fabro “restava indecifrabile il rapporto fra la funzione biochimica e quella fisiologica, e fra questa e quella psicologica” (ivi). Questo il problema, che non sembra sia stato ancor oggi risolto, nell’AD 2009, nonostante il grande incremento delle nostre conoscenze nel campo della neurologia e della fisiologia.(18)
Il principio dell’isoformismo appariva ai suoi critici in preda ad un circolo vizioso. Infatti, “dalla constatazione delle forme fenomenali evidenti esso passa all’affermazione dell’esistenza di dette forme fisiologiche e della corrispondenza in questione”. Ma questo non si può accettare: “tutte le rappresentazioni che si fanno intorno ai processi cerebrali non sono che immagini che noi deriviamo dal campo psichico. Non è stato ancora dimostrato che i processi che avvengono nel cervello siano strutturati nello stesso modo [...] Le ricerche fisico-chimiche fin qui fatte sul cervello non dicono nulla di tutto questo” (p. 351). Quest’osservazione era dello psicologo tedesco F. Goldstein, che pure aderiva pienamente alla Gestalttheorie (nella sua forma limitata alla psicologia vera e propria). 
Fu inoltre dimostrato che la teoria köhleriana delle “forme fisiche” non regge anche dal punto di vista della Fisica (ivi, 352-353) e si sostenne, pertanto, che è inaccettabile anche il suo utilizzo della teoria fisica del “campo” e delle “forze di campo”, per spiegare il modo di essere ed operare di tutto il “settore ottico” del nostro organismo (vedi supra, all’inizio di questo paragrafo). Il “campo psichico” e quello “fisico” non possono ricondursi sotto un comun denominatore e comunque il “settore ottico” non opererebbe affatto nel modo ipotizzato da Köhler.(19) 
Il fatto è che “fenomeni fisiologici” e “contenuti fenomenali” sono tra loro “incommensurabili”, tant’è vero, si osservò, che “la “forma” (Konfiguration) può sorgere anche senza un processo psico-fisico strutturato, il quale, d’altronde, non può contribuire alcunché alla sua spiegazione” (ivi, 358). Il problema poi si complica maggiormente, postilla Fabro, “quando si fa presente che la percezione, nel funzionamento di una coscienza normale, non gravita attorno alla “figura spaziale”, ma attorno al nucleo intelligibile che è il significato, il quale può subordinare a sé lo stesso apparire della forma” (p. 359).
Tuttavia, nella conclusione di questo capitolo, il P. Fabro non calca la mano sulla critica all’isomorfismo dei Gestaltisti, dal momento che, egli ricorda, essi hanno prospettato questa dottrina più che altro come un’ipotesi di lavoro. Scartando gli “aspetti fisiologici della teoria”, ne resta allora l’aspetto positivo, se in essa i suoi propugnatori hanno voluto semplicemente “significare il fatto di una dipendenza reale fra i contenuti fenomenali ed i processi fisiologici che innegabilmente avvengono dentro il sistema nervoso. Una posizione di questo genere non sarebbe molto distante da quella aristotelica che ritiene, anche nell’uomo, esservi un’unione essenziale fra anima e corpo e, per conseguenza, anche una dipendenza necessaria nell’operare” (ivi, 360-361).
E con questo rilievo, di spirito cum grano salis conciliante nei confronti della Gestalttheorie, Fabro passava, nell’ottavo ed ultimo capitolo dell’opera, a fare il bilancio della teoria da un punto di vista più filosofico, quello che vagliava “la posizione speculativa della Gestaltpsychologie” (ivi, 363-402).
X. La Gestalttheorie come gnoseologia dell’oggetto concreto
Dal punto di vista strettamente speculativo, la teoria della “forma” fu accusata di kantismo e di idealismo. L’elaborazione estrema della teoria, applicata da Koffka al piano filosofico, sembrava fare della Gestalt addirittura una categoria, “accanto alla sostanza e alla causa” ed anzi a loro “fondamento” (ivi, 363). Da qui l’accusa, appunto, di “kantismo” (la Gestalt come “forma a priori” o “recipiente psichico” che accoglie e organizza gli “elementi” psicofisici) e di “idealismo” (perché il suo concetto del Tutto o totalità ricorderebbe quello dell’Idealismo assoluto, con il suo peculiare rapporto fra le parti e il Tutto) (ivi, 363-366).
I Gestaltisti hanno sempre respinto sdegnosamente queste critiche, ribadendo, ad esempio con Köhler, che “la Gestalttheorie difende una conoscenza diretta ed immediata della realtà come oggettiva” (ivi, 366). L’immagine della realtà dentro di noi, dell’oggetto in noi, corrisponde all’oggetto fuori di noi; l’elaborazione che ne fanno “i processi organici” psicofisici dentro di noi introduce sì un elemento soggettivo nel conoscere ma non tale da eliminare “l’oggettività vera” dell’oggetto appreso e conosciuto. Naturalmente, il realismo gnoseologico dei fautori della Gestalt mantiene il principio che il carattere oggettivo della nostra conoscenza riposa sempre sull’organizzazione del Tutto rappresentato dalla struttura del campo, visivo ed in effetti psico-fisico; organizzazione di “un Tutto strutturato” che, sola, permette di dare un senso alle parti e di concepire la nostra conoscenza in modo unitario (ivi, 366-368).
Particolarmente assurda sembrava loro l’accusa di kantismo, dato che essi non postulavano affatto l’esistenza di categorie a priori. Gli oggetti della nostra conoscenza erano invece considerati unicamente “dal punto di vista unitario della struttura” ossia come sempre appartenenti, dal lato del soggetto e dell’oggetto, al “tutto strutturato” che costituisce di fatto il concetto di Gestalt. Come puntualizzò Koffka, “la “Scuola della forma” riconosce agli oggetti in sé di avere una struttura, una “forma fisica”, poiché essa mantiene che la legge fondamentale della natura, è quella dell’ordine da conservare e da raggiungere. Riconosce ai medesimi altre qualità fenomenali, come la capacità di resistere alle deformazioni, l’impenetrabilità e l’inerzia secondo la quale gli oggetti più pesanti si muovono più lentamente dei più leggeri. La teoria ha di proprio la persuasione che la corrispondenza fra gli aspetti fenomenali delle cose e quelli reali, non è primariamente un fatto d’esperienza – benché non si neghi che l’esperienza possa anche influire sopra queste proprietà reali – ma piuttosto il risultato diretto dell’organizzazione [...] Tutto questo, conclude Koffka, non ha niente a che fare con l’apriorismo kantiano” (ivi, 370).
Sempre in coerenza con il proprio approccio realistico, la Gestalttheorie difendeva la realtà del principio di causalità. Contro Hume, Koffka ribadiva che noi “siamo convinti che si percepisce nell’esperienza la causalità reale e non la semplice successione spazio-temporale, benché la causalità, come tale, non abbia uno stimolo d’impressione proprio e adeguato” (p. 372). La causalità “non è un “oggetto” di percezione”. Ma questo non significa che essa non esista effettivamente nelle cose. La teoria della forma “ammette che il concatenamento dei fenomeni nella nostra coscienza corrisponde a rapporti dinamici reali che si svolgono nei processi individuali della nostra percezione, della nostra emozione e dell’azione [...] In più, essa estende alla natura stessa oggettiva il campo d’intelligibilità secondo quei limiti che le leggi dell’induzione permettono” (ivi, 372-373).
     [L’effettiva valenza speculativa della Gestalttheorie] Fabro trova pertanto legittima la pretesa della Gestalttheorie “di stare a sé e di non voler rientrare sotto il patrocinio di alcun sistema preesistente”, convinta di aver dato vita a “un’interpretazione nuova dell’esperienza” (ivi, 378). Legittima, nonostante le sue ovvie insufficienze e contraddizioni.
In effetti, la Gestalttheorie non opta per nessuno dei dualismi tradizionali (spiritualismo-materialismo; empirismo-razionalismo; meccanicismo-vitalismo) che considera frutto di “un dualismo preconcetto ed irreale fra spirito e materia”, della cui origine incolpa Cartesio (ivi). Per essa, come si è visto, materia e forma, senso ed intelletto, “formano realtà e processi unitari, si compenetrano a vicenda”. La sua prospettiva è monista: l’un membro delle coppie appena richiamate è intrinsecamente ordinato all’altro, cosicché il loro confluire è un fatto primitivo naturale, non qualcosa di posteriore o di aggiunto. Prima c’è l’organizzazione e l’ordine, non la dispersione e il disordine. “Si può mostrare, afferma Koffka, che il concetto di ordine non appartiene essenzialmente all’ambito della conoscenza e neppure a quello della vita, ma è una caratteristica di qualsiasi fatto naturale, e quindi entra anche nel campo della fisica”” (ivi).
Perciò la controversia in biologia tra Meccanicismo (solo forze fisico-chimiche spiegano il vivente) e Vitalismo (occorrono anche forze di natura superiore), i Gestaltisti pensavano di averla risolta con il loro concetto di universalità della “forma”. All’epoca, l’insufficienza del Meccanicismo era sempre più evidente: esso non era in grado di spiegare “i fatti di adattamento funzionale, di regolazione, di rigenerazione e simili”, per esempio a livello embrionale. I Gestaltisti, cioè Köhler, trovavano la spiegazione nell’universalità della “forma”, che ricomprendeva sia i sistemi organici naturali che quelli inorganici, intesi come sistemi “dotati di più gradi di libertà” ossia di più possibilità di comportamento (rispetto, per esempio, all’azione obbligata e uniforme di una macchina). Un sistema del genere era per il Köhler (lo si è già visto) quello posto in essere da una corrente elettrica. “Se io impedisco che una corrente elettrica raggiunga in un conduttore una distribuzione uniforme, provocando qualche perdita di energia, la prima cosa che accade quando l’interruzione è rimossa, è un cambiamento di percorso verso lo stato finale che prima non era stato possibile raggiungere. In questo cambiamento ciascuna parte si regola differentemente nelle varie occasioni a seconda della natura dell’interruzione: tale esattamente è anche il caso dell’embrione nei processi di autoregolazione”(ivi, 378-380). Questo modo di autoregolarsi, questa “forma”, valeva, secondo Köhler, anche per i sistemi organici.
Per Fabro, questa “concezione naturalista”, propria alla Gestalttheorie, in base alla quale essa dichiarava anche di aver superato l’Aristotelismo, più che risolvere il problema posto dall’antitesi tra Meccanicismo e Vitalismo, lo eludeva (p. 380). Secondo Wertheimer, il Vitalismo è quella concezione che considera “i fatti naturali in se stessi essenzialmente ciechi e casuali, al di sopra dei quali si aggiungerebbe qualcosa di mistico che imporrebbe l’ordine” (ivi). Ma questo, nota giustamente Fabro, può dirsi del Vitalismo dei secoli XVII e XVIII, non certo di Aristotele, per il quale l’anima è un “principio sostanziale e non una semplice forza operante dall’estrinseco” mentre il vivente “è corpo naturale” nel quale non operano forze “mistiche” bensì “fisico-chimiche” (p. 381). Tuttavia, afferma Fabro, nonostante i suoi limiti, “la critica dei Gestaltisti è venuta quanto mai opportuna a denunziare il fallimento di quelle interpretazioni della natura che, dal secolo XVI in poi, la filosofia e la scienza moderna hanno opposte all’interpretazione aristotelica, che aveva, fino allora, con varia fortuna prevalso”. Perciò, ma solo sotto questo aspetto, sembrava (ottimisticamente) al P. Fabro che la dottrina della Gestalt significasse “un indizio di ritorno alla mentalità aristotelica” (ivi).
Solo un “indizio”, si capisce. Dato che anche questi teorici della “forma” non riescono a liberarsi compiutamente delle dottrine che pur combattono, come dimostra l’analogia testé richiamata fra la “forma” costituita dal campo di energia elettrica in un conduttore e quella costituita dal “campo” di un embrione con i suoi processi di autoregolazione. “Il risolvere tutte le forze naturali, commenta Fabro, in energie elettriche, ed il costruire tutti i modelli naturali su modelli elettrici, non è forse un’altra forma di meccanicismo, sia pur aggiornata, secondo la quale si ha un livellamento di tutte le manifestazioni naturali ad uno schema e contenuto univoco e uniforme come nel meccanicismo classico?” (ivi).
Quest’ultima critica ne contiene un’altra, cui ho già fatto cenno: quella contro la tendenza dei teorici della “forma” ad assorbire il “significato” nella “forma”. La similarità di forma (o “strutturale”) tende a far conferire lo stesso “significato” e all’autoregolazione di un embrione e a quella del campo elettromagnetico rappresentato dalla distribuzione di energia elettrica in un conduttore.
     [Il problema del significato e la necessità del ritorno ad Aristotele] I Gestaltisti, sottolinea Fabro, ebbero sì il merito di lasciare “le forme” nell’ambito dell’esperienza (evitando quindi di farne delle “categorie” puramente mentali) però “assorbirono nella forma anche il significato” (p. 383). Si tratta invece di trovare il giusto equilibrio.
È pacifico che l’analisi fenomenologica, “nella sua ricerca sintetica”, deve “determinare le funzioni che rendono possibile il presentarsi immediato delle “qualità formali”. E la “determinazione” di queste “funzioni” ha costituito il contributo “veramente positivo” della “nuova Psicologia” (ivi). Essa ha dimostrato che la “forma” è un contenuto originale ed immediato di per sé e che, nello stesso tempo, “non è primieramente un contenuto intellettuale”. Si è pertanto evitato di cadere in un soggettivismo di tipo kantiano o idealista. Ma la Nuova Psicologia si è dimostrata carente nel risolvere “il problema del passaggio dalla “forma” ai contenuti intellettuali” (p. 384). Altrimenti detto: risolto il primo problema, di “come” le qualità sensibili si presentino come “forme”, resta il secondo problema, di “come le “forme” si presentino come “oggetti” aventi un significato” (ivi).
Quest’ultimo, come scaturisce dalla forma, che costituisce la percezione dell’oggetto, del quale il significato è il significato? Scaturisce esso dalla forma o quest’ultima si limita a contenerlo, a portarlo in sé, per così dire? Il significato di qualcosa ha sempre, a ben vedere, un che di enigmatico. Mi sono sempre chiesto: che vuol dire, esattamente, il fatto in sé dell’aver significato? O, se si preferisce, dell’esser l’in-sé della cosa, in quanto suo significato?
Nell’approfondire il problema del significato, in un paragrafo intitolato: “Il significato come contenuto intelligibile”, Fabro va oltre la critica alla Gestalttheorie e pone i termini generali della sua propria ricerca su percezione e pensiero (ivi, 386-389).
Il significato della “cosa” non può dunque ridursi alla sua “struttura” né al suo “valore pratico”, come se fosse indotto dalla prassi (era questa la posizione di alcuni critici della Gestalttheorie). Il “valore pratico”, per esser stabilito, necessita del concetto di “relazione” (tra “parti e tutto, soggetto ed oggetto”). Tuttavia quest’ultima non può sussistere se i suoi termini non sono già “in sé” e se non contengono “un nucleo sul quale si può sviluppare quella solidarietà ontologica fra i termini che è la relazione” (p. 387). La “relazione” presuppone “il nucleo”, il quale “costituisce il quid proprio del significato di una “cosa”, ciò per cui una cosa occupa un dato gradino nella scala degli esseri” (ivi). La relazione presuppone dunque la quidditas dell’ente che si pone nella relazione o che pone la relazione.
Siamo in una prospettiva rigorosamente aristotelico-tomistica, peraltro espressamente richiamata dall’autore nelle ultime quattro pagine dell’opera, intitolata Conclusione (ivi, 399-402). Simile prospettiva non appare affatto superimposta da preferenze personali dell’autore, formatosi nel clima dell’Università Cattolica degli anni Trenta del secolo scorso, ben diverso dall’attuale. Tale prospettiva appare, invece, coerente con tutta l’analisi delle teorie della “forma”, così come rigorosamente impostata dal Nostro.
Ciò risulta con chiarezza, a mio avviso, dalle “gradazioni” che si devono riscontrare nella natura dei “significati”, esposte da Fabro nel seguente ordine : vi sono i “significati di esperienza concreta della vita ordinaria”; quelli “tratti dall’esperienza scientifica, poggiata sull’analisi sperimentale, strettamente oggettiva”, che porta a “classificare gli oggetti” secondo caratteristiche loro intrinseche “ma sempre fenomenali” (Scienze fisiche e naturali); quelli che dipendono “dalle proprietà spaziali pure”, che concernono “la quantità secondo la considerazione intelligibile assoluta, secondo l’essenzialità delle dimensioni misurabili (Scienze matematiche, astronomia, meccanica, fisica matematica)” (ivi, 387).
Il “significato” individuato in questi tre ordini o “gradazioni” dello stesso, non ci dà ancora il senso profondo della cosa stessa, l’in-sé della cosa. Perché? Perché “tutti e tre presi insieme non esauriscono il contenuto di ciò che s’intende per oggetto reale o “cosa””; non lo esauriscono perché “ciascuno ne realizza un aspetto e tutti insieme danno il complesso delle qualità aderenti alla “cosa” e “portate” da essa”(ivi). Questa tripartizione dei vari piani del significato riprende la tripartizione dei tre “piani oggettuali” presenti nell’oggetto, che non ne intaccano l’intrinseca unità (vedi supra, § II), approfondendola con il discorso sul “contenuto intelligibile”.
Infatti, il senso profondo della cosa richiede un’ulteriore “gradazione” (la quarta), che deve cogliere “la radice di tutto quanto appare al di fuori”, nelle qualità o accidenti racchiusi nella “forma” della cosa stessa. Questo sarebbe il significato nel suo senso primario : “ciò per cui una cosa è ciò che è nell’ambito dell’essere come tale”. Siffatto quid costituisce “ciò che più intimamente appartiene ad un oggetto”. Se potessimo vederlo (immediatamente, così come vediamo la “forma” dell’oggetto) esso ci darebbe “la chiave intelligibile di tutto ciò che in qualsiasi forma appartiene in proprio all’oggetto” (ivi, 387-388). La “gradazione” finale di senso è evidentemente costituita da quel significato nel quale si esprime l’essenza stessa della cosa. Ciò si può anche esprimere dicendo che l’essenza della cosa ne costituisce “il contenuto intelligibile” (p. 388). E nel cammino verso l’apprendimento di questo contenuto, che deve saper conciliare l’astratto dell’approccio teoretico con il concreto della percezione, un aiuto fondamentale può appunto esser offerto dalla filosofia di Aristotele, rettamente intesa (ivi). L’uso appropriato del pensiero dello Stagirita può, infatti, permettere il superamento di quel dualismo insanabile tra “il concreto” e “l’astratto”, che consuma alla radice il pensiero moderno. “Tutto il problema della percezione, in ciascuna sua fase, è il problema della “sutura” di un dualismo di contenuti: qualità sensibili e qualità formali, qualità formali e significato, significato concreto e significato astratto” (ivi).
La “posizione speculativa” della Gestalttheorie è dunque quella di un pensiero dal taglio realistico, che “affonda nella contemplazione della situazione concreta e sorge da essa” (ivi, 277). Nella sua forma più equilibrata, essa elabora un concetto del Tutto (della totalità) che permette di concepire la percezione come una sorta di “compromesso fra i dati sensoriali attuali e l’attitudine attiva del soggetto” (p. 346). Tuttavia, anch’essa inclina al materialismo, con tutte le sue incredibili unilateralità, restando succube della concezione allora (come oggi) dominante, di origine positivista, di una “psicologia senz’anima” (ivi, 324). Accogliendo quanto di buono c’è nella Gestalttheorie, il male speculativo in essa presente va corretto, in via preliminare, già con il riprendere il discorso aristotelico sul rapporto fra il Tutto e la parte.
“La nostra ricerca termina con l’affermazione del “primato del Tutto” nell’ambito dell’assimilazione conoscitiva” (ivi, 399). In modo simile, si chiede Fabro, alle prospettive dello storicismo diltheyano e quindi al concetto espresso da Hegel nella celebre frase sull’identità tra verità e totalità: “Das Wahre ist das Ganze” (il vero è il tutto), nella Prefazione della Fenomenologia dello Spirito? No. In modo simile a quanto stabilito da Aristotele, che fu “il primo ad esprimere scientificamente ed applicare, in tutto l’ambito dell’essere, il principio della totalità”, nel ben noto concetto, secondo il quale “il Tutto è [per natura] prima delle parti”.(20) In questo concetto del Tutto, rileva Fabro, l’idea di finalità occupa un posto essenziale: è in relazione al fine che noi abbiamo nella natura la bellezza e l’ordine, il fine al posto del caso. “Nelle opere della natura, scrive Aristotele, ed anzi massimamente in esse, vige infatti non il caso, ma la finalità e questa finalità, per cui si viene all’esistenza, ha la natura e la funzione della bellezza [...] Si deve inoltre tener presente che chi discute di una qualsiasi parte od elemento della realtà non fa menzione del suo aspetto materiale, né ha interesse per questo, bensì mira alla forma nella sua totalità. Quel che importa è la casa, non i mattoni, la calce, le travi; così nello studio della natura è la realtà complessiva e totale di un dato essere, e non quella delle sue parti, che separate dall’essere di cui sono costituenti neppure esistono”.(21)
Il “tutto” che, per Aristotele, viene “prima” delle parti ricomprende naturalmente l’ente “concreto”, l’ente “reale”, grazie alla “forma”, intesa come “forma sostanziale” che si determina in una “materia”. Materia e forma sono rivelate dalla dimensione (la “proprietà dimensiva”) e dalla figura, che “riproduce fenomenalmente i tratti della forma” (FP, 401). E nell’acquisto della figura da parte della materia, precisa Aristotele, non c’è “alterazione” dell’essere ma “passaggio alla perfezione” (ivi). Allora, conclude Fabro, “per Aristotele e per S. Tommaso, come per Goethe, il divenire della figura è l’ascesa dell’essere verso il suo compimento esteriore onde si ha la sutura fra il fenomenale e l’essenziale, fra l’essere e il divenire” (p. 402).
Il riferimento a Goethe non mi convince del tutto, considerando l’impianto panteistico e quindi immanentistico del suo pensiero.(22) Ma resta la validità del rinvio ad Aristotele e S. Tommaso per una riformulazione del principio di totalità, da intendersi secondo le esigenze di una metafisica realistica, opposta tanto al soggettivismo di origine kantiana ed idealistica quanto all’empirismo di origine positivistica, decottosi ormai nel peggiore scientismo. Richiamo tanto più valido oggi, nell’imperversare dei nichilismi che spingono in folla ad un sempre più tetro e morboso sincretismo.
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1. CORNELIO FABRO, La fenomenologia della percezione, a cura di Christian Ferraro, in ID., Opere complete, 5, EDIVI (Editr. del Verbo Incarnato), Segni, 2006. D’ora in poi: FP. Si tratta di una eccellente edizione critica. Essa riproduce anche l’interessante prefazione di Agostino Gemelli all’edizione del 1941 (op. cit., pp. 423-426). P. Gemelli aveva guidato il giovane Fabro nella non facile ricerca, precisando che l’autore, oltre ad aver preso conoscenza diretta “di tutta la vasta letteratura”, aveva anche “ripetute alcune delle più significative esperienze” mentre di altre “si era preso cura di conoscere metodi e risultati” (ivi, 425). Questa conoscenza diretta, sperimentale, del difficile argomento, non limitata quindi alla pur impegnativa lettura dei testi, si nota indubbiamente nell’esposizione di Fabro. L’unico appunto (minore) che mi sembra di poter fare alla presente edizione, è quello di non aver dato (in note dell’editore) qualche informazione su autori minori o comunque meno noti, citati con un certo rilievo nel testo, risalenti ad un secolo fa ed oggi in pratica dimenticati. [Il presente articolo è diviso in due sezioni. È apparso inizialmente sulla ‘Rivista Internazionale di Filosoia del Diritto’, serie V, anno LXXXVII, n. gennaio-marzo 2010, pp. 43-88. Ringrazio la Direzione della Rivista per la cortese autorizzazione alla pubblicazione in questa sede].
2. FP, Prefazione (del 1961), p. 6.
3. FP, pp. 27-60.
4. Su Berkeley, vedi: FP, 74.
5. Su Locke, vedi FABRO, FP, 70. La “perception” è indagata nel cap. IX del libro II dello Essay Concerning Human Understanding. Ciò che Locke chiama “nuda percezione” è in realtà la sensazione poiché in essa “il nostro animo è in generale solamente passivo, e non può evitare di percepire ciò che percepisce” (ivi, II, 1). La percezione vera e propria fa vedere, invece, un comportamento attivo del nostro intendimento, ed è il primo gradino della nostra conoscenza (ivi, II, 2-4; 9-11). Per Kant, la percezione (Wahrnehmung) sembra esser subordinata al concetto di “rappresentazione”. “Le cose nello spazio e nel tempo, però, ci sono date solo in quanto percezioni (rappresentazioni accompagnate da sensazione - mit Empfindung begleitete Vorstellungen), e quindi solo per mezzo di una rappresentazione empirica”. Si noti bene: non sono sensazioni accompagnate da “rappresentazioni” (nel nostro io) ma rappresentazioni accompagnate da sensazioni, pur trattandosi di “rappresentazioni empiriche” ovvero di intuizioni dell’oggetto ricavate dall’esperienza e non trascendentali (KdrV, B 147; tr. it. P. Chiodi, I. KANT, Critica della ragion pura, UTET, Torino, 1967, p. 171).
6. Sul punto, senza conclusioni definitive: G. KANIZSA, Grammatica del vedere. Saggi su percezione e Gestalt, Il Mulino, Bologna, 1980, i primi due capitoli, pp. 25-115 e in particolare pp. 101-115. Si tratta di una raccolta di articoli e saggi scritti tra il 1954 e il 1975.
7. P. ROOKES, J. WILLSON, La percezione, 2002, tr. it. M. Riccucci, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 7-8. Op. cit., p. 8.
9. Su Brentano vedi anche, per un’interpretazione del suo pensiero consona agli orientamenti epistemologici attuali: P. SPINICCI, Sensazione, percezione, concetto, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 95-105.
10. FP, 178. L’elaborazione sistematica iniziale delle tesi della Gestalttheorie risaliva ad una monografia del 1912. Oltre a Wertheimer, gli esponenti più famosi della teoria sono stati Köhler, Koffka, Lewin.
11. FP, 308. Il saggio di WUNDT è: Ganzheit und Form in der Geschichte der Philosophie, del 1932 (FP, ivi, nota n. 5). In una nota alla citata prefazione della prima edizione dell’opera, Il P. Gemelli ricordava che, secondo alcuni, il termine Gestalt si sarebbe dovuto meglio tradurre con “configurazione”. Ma il termine “forma” era diventato ormai di uso corrente (FP, 425, nota n. 1).
12. P. ROOKES, J.WILLSON, La percezione, cit., p. 50.
13. FP, 213-214. Si tratta del § 2 di An Essay towards a New Theory of Vision, intitolato: Distance of itself invisible.
14. An Essay, cit., § III. Cito dall’edizione della Everyman’s, a cura di A. D. Lindsay (1920), rist. Dent-Dutton, 1969, p. 13.
15. Ivi.
16. Sul concetto di “campo visivo” secondo la Gestalttheorie, sempre utile: A. MARCOLLI, Teoria del campo. Corso di educazione alla visione, Firenze, Sansoni, 1971, parte II: Campo ghestaltico, pp. 65-144.
17. FP, 300, nota n. 39.
18. Si legga quanto scrive un autorevole neurobiologo inglese contemporaneo: “For all our immense and expanding knowledge of the brain’s microstructure, the subtleties of its biochemistry and physiology, what do we really know about the neuroscience of the mind? Perhaps this very concept is meaningless”(S. ROSE, The 21st–Century Brain. Explaining, Mending and Manipulating the Mind ( 2005), Vintage Books, London, 2006, p. 186. Il passo citato è tratto da un capitolo intitolato: What We Know, What We Might Know and What We Can’t Know, op. cit., pp. 187-220).
19. FP, 354-357, con la nota n. 83.
20. FP, 399. La frase di ARISTOTELE si trova in Pol., A, 2, 1253 a, 19-20. Quella di HEGEL nella Vorrede della Phaen. d. Geistes. La frase di Hegel continua così: “Das Ganze aber ist nur das durch seine Entwicklung sich vollendende Wesen”: il Tutto è l’essenza che si compie nel suo proprio sviluppo. Manca l’indicazione di una finalità ad essa superiore, che la giustifichi (Phaen. d. Geistes, ed. Hoffmeister, Hamburg, Meiner, 1952, 6a ed., p. 21).
21. FP, 400. Il passo di ARISTOTELE è tratto da De Part. Anim., I, 5, 644 b, 22 ss., nella traduzione di G. Calogero (FP, ivi).
22. Sul significato immanentistico del concetto di Gestalt nel poeta tedesco, vedi: E. CASSIRER, Goethes Pandora (1918), in ID., Idee und Gestalt. Goethe-Schiller-Hölderlin-Kleist, 1924 2ed., rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1971, pp. 7--31; p. 17 ss.

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