Riprendo il primo articolo de La Testata di Silvio Brachetta.
Le parole si misurano, ma non per occultare la verità.
E perché mai si dovrebbero misurare le parole?
Due parole sul mestiere dello scriba
La dottrina della bocca
È vero, lo scriba assennato misura le parole. Le calibra al millimetro, le soppesa, le numera secondo un ordine. Le centellina come uno scultore, le mescola con cura al silenzio e odia essere verboso: fa questo non solo per via del «sì, sì, no, no» evangelico.
Oh Signore – implora Yeshua ben Sirach, il Siracide – «non abbandonarmi ai capricci della mia lingua». Sa bene, Yeshua lo scriba, che c’è una «doctrina oris» – una disciplina della lingua, della bocca, della parola – che fonda il logos.
E cosa non deve uscire dalle labbra o dalla penna dello scriba?
La maldicenza: «Il peccatore è vittima delle proprie labbra, il maldicente e il superbo vi trovano inciampo». Il giuramento: «Non abituare la bocca al giuramento» – come pure il falso giuramento: «Se giura il falso, non sarà giustificato, e la sua casa si riempirà di sventure». La presunzione: «C’è un modo di parlare paragonabile alla morte». Le stupidaggini: «Non abituare la tua bocca a grossolane volgarità». La diffamazione: «Un uomo abituato a discorsi ingiuriosi non si correggerà in tutta la sua vita».
Ecco, questo dice il Siracide su chi deve parlare e scrivere.
Cosa invece debba uscire dalla bocca dello scriba, non è riassumibile in qualche citazione. Tutta la Scrittura è uscita dalla penna dello scriba. Non lo scriba evangelico, non quello ipocrita, analogo ai farisei. Lo scriba ha, da sempre, un mandato unico: il vero.
Sempre lui, Yeshua ben Sirach, fa l’elogio dello scriba, cioè di colui che «indaga la sapienza di tutti gli antichi» e «si dedica allo studio delle profezie». Lo scriba «penetra le sottigliezze delle parabole, indaga il senso recondito dei proverbi e s’occupa degli enigmi delle parabole».
Lo scriba, per essere tale, è un penitente che ha un mandato celeste: «egli sarà ricolmato di spirito di intelligenza; come pioggia effonderà parole di sapienza». Se non succede questo, o c’è un tradimento del mandato, o lo scriba non sa scrivere.
Non è un mandato da nulla, non è una cosetta alla portata di tutti: «Egli dirigerà il suo consiglio e la sua scienza; mediterà sui misteri di Dio; farà brillare la dottrina del suo insegnamento».
Scribi, scribacchini, scriventi, scrivani e giornalisti
Il caso odierno più pietoso è il ronzio tedioso del giornalista, che sta in fondo alla scala dei vergatori di pagine bianche. Lo scriba è lo scrittore. Lo scribacchino forse scrive male, ma cerca pur sempre d’imitare l’umile scriba. Lo scrivente copia e, nel copiare, almeno attinge a qualcosa che assomiglia allo scrivere. Lo scrivano è uno scrivente pagato.
Ma è il giornalista che ha raggiunto l’ipogeo, il punto più basso dell’arte scribale. Il giornalista non sa scrivere, non sa copiare, non sa scribacchiare e (cosa più grave) non è umile. L’unica cosa che gli resta è la paga, che condivide con lo scrivano.
Il giornalista è riuscito a sradicare ogni legame con la «doctrina oris», con la delicatezza di un bolide che sbanda e strappa reti e steccati. Il giornalista – meglio, il cronista – è uno che ha imparato a leggere e scrivere, ma accetta per danaro di essere rieducato dal capo, che decide cosa egli può o non può scrivere – e come lo deve scrivere.
Il cronista deve «misurare le parole», non per dire la verità, ma per occultarla con cura. Il cronista deve parlare e scrivere in obliquo, con parole scelte dall’editore, in modo che si faccia ripetitore di concetti premasticati da altri. Questo non lo scompone, perché ha un rapporto equivoco con il vero, ma univoco col prestampato e il preideato.
Si differenzia dal copista, perché chi copia potrebbe avere una qualche probabilità di avere sottomano il testo di uno scrittore. Non così il giornalista, che ha sottomano solo le sciocchezze di chi lo paga e dei gruppi di potere che lo manovrano impuniti. Il giornalista crede che il sapere scrivere abbia a che fare con la grammatica e la punteggiatura, così come crede che per fare l’Amleto di Shakespeare sia sufficiente avere una buona storia da raccontare.
Se a tutto questo si aggiunge l’assenza di preghiera, la supponenza infinita, l’aridità della parola, la difficoltà a separare l’ironico dal ridicolo, la noia, l’incapacità di uno sguardo retrospettivo, la verbosità caotica e la retorica stucchevole – beh, si vede qualcuno che si è perso.
La parola, al contrario, è un ufficio sacro. Se è Parola, se è Logos, essa è dirompente, è una testata: «così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55, 11).
Silvio Brachetta
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