In un precedente articolo nella nostra traduzione da ‘Le Sel de la Terre’ [qui] avevamo anticipato ulteriori approfondimenti sulle osservazioni del teologo tedesco Johannes Dörmann su Giovanni Paolo II circa le OMISSIONI riguardanti le sue affermazioni sul fatto che Dio è solo misericordia da cui consegue la salvezza a priori per tutti, tant'è che siamo arrivati alla misericordia bergogliana che condona apertamente il peccato. Precedente qui. Ci sovviene anche Gaudium et spes, 22 qui (i semi delle variazioni sono tutti nei documenti del Vaticano II). Ricordo anche la questione del 'pro multis' [vedi anche qui]. Di seguito un nutrito approfondimento del nostro lettore Teofilo, particolarmente significativo in questi giorni di dibattito di un discusso sinodo.
Questioni sulla vera fede
Domande su questioni vitali per il bene della Chiesa e la nostra salvezza.
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I – È vero che Giovanni Paolo II, ispirandosi al Vaticano II, ha sostenuto che la salvezza sarebbe già stata garantita a ciascun uomo dall’Incarnazione del Verbo, senza bisogno di pentimento, di conversione a Cristo e quindi senza bisogno del concorso della nostra libera volontà sorretta dall’azione determinante della Grazia? Quel papa avrebbe dunque predicato l’errore gravissimo della cosiddetta “salvezza per tutti” o “redenzione universale”?
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[La salvezza per tutti, a priori] L’ha sostenuto un teologo tedesco, professore di “missionologia” all’Università di Münster, Johannes Dörmann (1922-2009), sulla base di approfondite ricerche su testi di Woytila quand’era cardinale e sulle sue prime tre encicliche di taglio dottrinale. Ma perché occuparsi ora di una tale questione?
I cattolici che vogliono oggi restare fedeli al dogma senza nello stesso tempo esporsi col criticare ambiguità, oscurità e persino errori penetrati nell’insegnamento e nella pastorale della Chiesa attuale, a partire dal Vaticano II, considerano Giovanni Paolo II un autentico difensore della fede e ne contrappongono l’insegnamento alle deviazioni sempre più evidenti dell’attuale pontefice, papa Francesco.
Ma siamo sicuri che il papa polacco sia effettivamente stato un difensore perfettamente ortodosso della fede? Il dubbio è più che lecito.
Dörmann ha analizzato in tre volumi alcuni scritti di Giovanni Paolo II prima di essere papa e le sue tre prime Encicliche dottrinali. Ne ha concluso che in queste opere, tra loro perfettamente coordinate, si può individuare in modo piuttosto netto la presenza della nozione della “salvezza per tutti” o “redenzione universale” già realizzatasi con l’Incarnazione. Non ci sarebbe quindi più bisogno di quel rinnovamento individuale totale attraverso il pentimento e la conversione del cuore e della nostra vita ai divini comandamenti; pentimento e conversione espressamente richiesti più volte da Nostro Signore (Mc 1,15; 2,17; Lc 13, 2-5) – rinnovamento assolutamente impossibile senza l’azione della Grazia, che modifica radicalmente il nostro essere spirituale facendoci diventare “uomini nuovi” in Cristo (Gv 3,1-10; 14, 23).
Ma come è possibile che simile, pernicioso errore si sia introdotto nella dottrina e nella predicazione senza che nessuno se ne sia accorto, si chiederà il perspicace lettore?
Il fatto è che si tratta di un errore non definito esplicitamente. Bisogna pertanto rintracciarlo nei testi dando innanzitutto il giusto significato alle omissioni di capisaldi della dottrina di sempre della Chiesa, che pur vi si trovano numerose. Un lavoro difficile, che richiedeva appunto la dottrina e l’impegno di teologi di grande preparazione e di vasta cultura come appunto il prof. Dörmann, il cui campo specifico d’ insegnamento, come ho detto, concerneva la “missionologia”, ovvero i fondamenti antropologici e teologici dell’attività missionaria, scienza da lui insegnata per molti anni all’Università di Münster, in Germania.
Le tre Encicliche di papa Wojtyla da lui prese in esame con grande acribia filologica sono, nell’ordine : Redemptor hominis, 1979; Dives in misericordia, 1980; Dominus et vivificantem, 1986. Esse, dimostra il prof. Dörmann, costituiscono triadicamente il fondamento teologico della famosa “Giornata di preghiera di Assisi” del 27 ottobre 1986, costituente ancor oggi un “simbolo” ufficialmente imposto ed accettato; simbolo che va tuttavia corretto, per ritornare ad una autentica “teologia della continuità”, sottolinea il prof. Dörmann.
Qualcuno potrebbe obbiettare che gli scritti di Wojtyla anteriori al papato non contano, contano solo i documenti ufficiali del suo pontificato. E tuttavia questi scritti dimostrano l’evoluzione coerente del pensiero di Giovanni Paolo II nel senso della dottrina della “redenzione universale”, muovendo dall’interpretazione del Concilio, nel quale fu attivo partecipante. I testi presi in considerazione da Dörmann sono soprattutto due: 1) Il Concilio Vaticano II e il lavoro dei teologi, del 1968, quando Wojtyla era ancora vescovo e professore universitario – saggio che si proponeva di impostare i criteri di una “teologia postconciliare” basata sulla “accomodata renovatio, l’ecumenismo, il dialogo”, indicando la “accomodata renovatio” un processo di rinnovamento della Chiesa e della “coscienza che essa ha di se stessa” attraverso “l’adattamento al mondo di oggi”. Un’impostazione che il papa polacco ha mantenuto in modo costante e rigoroso(1).
2) Il libro Segno di contraddizione. Meditazioni, Vita e pensiero, Milano, 1977. Un testo molto importante: contiene le conferenze tenute nel 1976 nel corso di un ritiro spirituale, di fronte a Paolo VI e ai suoi più stretti collaboratori. Dall’interpretazione che il futuro papa dà del Concilio, nota Dörmann, si vede come la Chiesa per lui sia già “il segno visibile della redenzione universale”(2). Vi si nota anche la tendenza di Wojtyla ad interpretare in senso ontologico immagini tradizionalmente solo simboliche, come quelle di Cristo sposo e la Chiesa sua sposa; del “matrimonio” di Cristo con la Chiesa mediante l’Incarnazione, matrimonio solo “virtuale”, che invece, nella prospettiva di Wojtila, tende a diventare matrimonio “formale” con tutta l’umanità(3). Nelle conferenze di fronte a Paolo VI, il cardinale sviluppa anche un’esegesi di Gaudium et spes art. 22 che già mostra la visione antropocentrica di cui alla posteriore Redemptor hominis(4). Da notare, osservo, che Paolo VI non trovava nulla da eccepire a certe tesi del cardinale, la cui audacia non poteva certamente sfuggirgli.
Il prof. Dörmann, personalità del tutto indipendente dalla FSSPX e dai circoli tradizionalisti, è stato un allievo di Ratzinger. Che Benedetto XVI abbia tuttavia corretto il simbolo eterodosso della “Giornata di Assisi” e sia ritornato ad una effettiva “teologia della continuità” con l’insegnamento preconciliare, facendo macchina indietro su ecumenismo, dialogo, rinuncia alla conversione dei miscredenti, libertà religiosa e compagnia cantante, sarebbe alquanto temerario affermarlo(5). Sia lui che Giovanni Paolo II hanno criticato ripetutamente la deriva edonistica e materialistica del nostro mondo occidentale, sottolineandone la mancanza di fede e la discesa nel nichilismo morale; tuttavia, non hanno mai modificato l’impostazione nuova, rivoluzi-onaria, non conforme alla Tradizione data dal Concilio alla Chiesa.
Ma restiamo a Giovanni Paolo II. Dell’analisi imponente del prof. Dörmann esiste una traduzione francese circolata solo negli ambienti cattolici francesi ostili al Concilio. Lo stesso credo di spossa dire della traduzione in inglese. Esiste anche una traduzione italiana, in quattro volumetti, che tuttavia, se non è esaurita, ha cittadinanza solo nei priorati della FSSPX(6). L’opera resta praticamente inaccessibile e i più, anche tra la minoranza che partecipa ai dibattiti e alle polemiche in difesa della dottrina tradizionale della Chiesa contro le deviazioni imperanti, praticamente ne ignorano l’esistenza o comunque sono nell’impossibilità di leggerla.
Si tratta, come ognun può immaginare, di uno studio complesso e di non facile lettura, pur essendo scritto in uno stile semplice e piano. L’impegno morale nel continuare comunque la battaglia per la difesa della nostra Fede contro i perversi errori dilaganti, impone di darne in qualche modo contezza. Infatti, la denuncia degli errori penetrati nell’insegnamento dei pontefici dal Vaticano II in poi, errori gravi, esiziali per il bene della Chiesa e per la nostra salvezza, è cosa utile e proficua a noi e agli altri, a tutta la Chiesa e senz’altro gradita al Signore.
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[Le omissioni] Ho detto sopra che l’errore attribuito a Wojtyla sulla salvezza garantita a tutti dall’Incarnazione, conferita a priori a tutti gli uomini, già traspare dalle omissioni di importanti verità di fede. Che dal Concilio in poi non si parli più di certe scomode ma essenziali verità di fede, è o non è un fatto accertato? Lamentele in questo senso appaiono periodicamente in qualche articolo di giornale e nei commenti dei blog cattolici non conformisti.
Non c'è bisogno di esser dottori in teologia per accorgersi che il concetto stesso del peccato originale è praticamente scomparso dall’orizzonte al pari di quelli del Purgatorio e dell’Inferno. La tradizionale dottrina dei Novissimi, delle verità rivelate concernenti le realtà estreme, ultime (novissimae, in latino) che fine ha fatto? Dell’Inferno si è persa ogni traccia ma a ben vedere anche del concetto stesso del peccato. La necessità della nostra santificazione quotidiana viene ancora insegnata? E la verità di fede del giudizio individuale dell’anima di ciascuno di noi subito dopo la morte? E si insegna ancora che solo nella Chiesa è possibile la salvezza? Non pare proprio, anche perché alla salvezza, quale nozione guida, sembra essersi sostituita la “dignità dell’uomo” quale obbiettivo e scopo finale della Chiesa. La Chiesa, in nome di questa supposta “dignità” elevata a valore assoluto, dovrebbe ora realizzare l’unità del genere umano nella pace e nella giustizia sociale, invece di cercare di convertire il maggior numero possibile di uomini a Cristo per la salvezza della loro anima, come comandatole da Nostro Signore risorto.
Queste assenze, queste innovazioni, queste distorsioni (qui solo accennate) della vera Missione della Chiesa sono sotto gli occhi di tutti.
Chiesa e Postconcilio ha recentemente pubblicato in traduzione italiana [qui] una pagina della rivista ‘Le Sel de la terre’ di diciotto anni fa, dei Domenicani tradizionalisti di Avrillé, in Francia, illustrante i risultati cui è giunto Dörmann nel commentare il cap. II dell’Enciclica Dives in misericordia. A quell’epoca, la suddetta rivista pubblicò a puntate diverse parti della traduzione francese dell’opera di Dörmann. La pagina contiene in pratica un sunto delle omissioni di fondamentali verità di fede individuate da Dörmann nella sua puntuale analisi degli scritti di Giovanni Paolo II; nella fattispecie, del modo mutilo di intendere la figura del Messia, Nostro Signore.
Per comodità del lettore, ritraduco questa pagina. Dopotutto, repetita iuvant.
“Commentando il capitolo II [di Dives in misericordia], il professor Dörmann, ne ha sottolineato le strane omissioni. Giovanni Paolo II riesce a descrivere e definire la missione del Messia senza menzionare esplicitamente il peccato né il bisogno assoluto che l’umanità peccatrice ha della redenzione.
Inoltre, l’enciclica nelle “dichiarazioni messianiche” di Gesù non vede altro che la rivelazione della misericordia del Padre, senza dire una parola della sua volontà [di Gesù] di essere riconosciuto come il Messia. Anche le sue azioni sono presentate [dal papa] al di fuori di questa esigenza della fede. (Nel Vangelo è chiarissimo che Nostro Signore, quando compie miracoli vuole suscitare e rafforzare la fede. Ora, l’enciclica non ne fa assolutamente menzione, così come tace della necessità di questa fede e del battesimo per la salvezza).
Come spiegare questo silenzio sull’essenza della missione del Messia? Vi si può vedere una riduzione della dottrina cristiana, riducendo tutto al livello umano (l’azione messianica vista solo come guarigione di ogni sofferenza umana - mettendo da parte ciò che l’amore redentore del Cristo possiede di essenziale e specifico). Ma questa riduzione, per quanto grave, è solo un aspetto del problema. Il prof. Dörmann discerne sullo sfondo una trasposizione ancora più grave: i versetti del Vangelo, citati in abbondanza, sono sapientemente inseriti in una cornice preesistente che deforma il messaggio del Nuovo Testamento rinchiudendolo in uno schema a priori.
Siffatto schema è quello della salvezza universale [in tedesco: Allerlösung]. Non viene mai esposto ex professo tuttavia è sottinteso nell’enciclica in modo sufficiente per far insidiosamente mutare di senso la maggior parte delle nozioni in essa racchiuse.
Così si spiegano le singolari omissioni. Se in effetti tutti gli uomini, dall’inizio del mondo sino alla sua fine, sono fin da ora giustificati, ciò significa che l’opera delle redenzione umana è essenzialmente conclusa. In un quadro del genere, quale può allora essere la missione del Messia? Non più quella di riscattarci dal peccato mediante la croce (come avrebbe detto un qualsiasi cattolico prima del Vaticano II, risposta che Giovanni Paolo II non dà mai), e nemmeno quella di suscitare la fede e la conversione necessarie alla salvezza (e nemmeno di questo Giovanni Paolo II parla mai), bensì solamente quella di farci prender coscienza della misericordia divina. Il Messia è nient’altro che un segno visibile del Padre, il quale è amore e misericordia : questo è il Leitmotiv di tutto il capitolo II dell’enciclica”(7).
“Prender coscienza della misericordia divina” significa qui (annoto) prender coscienza del fatto che la misericordia divina, grazie all’Incarnazione, ci ha già salvato tutti, senza bisogno della nostra conversione al cattolicesimo. Ci troviamo quindi di fronte ad un errore nella fede di portata incalcolabile. La missione della Chiesa, stabilita dal Signore in persona, viene completamente stravolta e l’esistenza stessa della Chiesa diventa superflua. Che tutto nel modo d’essere della Gerarchia attuale appaia inquinato da questo mostruoso errore, del quale nessuno sembrar voler rendersi conto, non lo dimostra la crisi stessa gravissima e finora irrisolvibile che continua a martirizzare la Chiesa?
Ma vediamo più da vicino l’analisi del prof. Dörmann.
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[La “rivelazione sdoppiata”] L’enciclica Dives in misericordia sviluppa la “verità sull’uomo” trattata dal papa nella sua prima enciclica, la Redemptor hominis. È stato notato che queste due encicliche costituiscono un dittico. Dörmann condivide la tesi del Padre Tucci, secondo la quale le due enci-cliche costituiscono un tutto organico: “la prima rappresenta l’uomo nella sua grande dignità, la seconda mostra Dio nella sua misericordia”. E il “reciproco coordinamento delle due encicliche corrisponde alla premessa dottrinale della ‘rivelazione sdoppiata’”(8). Il concetto di “rivelazione sdoppiata” è un’elaborazione di Dörmann al fine di illustrare nel modo migliore la personalissima teologia di Wojtyla.
La Rivelazione si sdoppierebbe in questo senso: la salvezza già garantita a tutti dall’Incarnazione costituirebbe la rivelazione a priori, del tutto oggettiva; la presa di coscienza di questa rivelazione a priori o implicita sarebbe invece la rivelazione a posteriori, della quale i singoli individui devono esser resi consapevoli ad opera dell’odierno Magistero e trarne le conseguenze. E questa presa di coscienza, lo è di che cosa? Appunto della rivelazione a priori ossia del fatto che ognuno di noi è già stato comunque salvato, sin dalla nascita, dall’Incarnazione. Questo, aggiungo, sarebbe l’autentico contenuto della “nuova evangelizzazione”, che viene di continuo rilanciata, al posto della “conversione” di individui e popoli a Cristo, ritenuta da sempre indispensabile per la salvezza, sino al Vaticano II escluso. È ingenuo stupirsi per la scomparsa della “conversione” persino dal lessico dell’attuale Gerarchia cattolica: se la salvezza è stata già attuata a priori dall’Incarnazione, viene meno l’esigenza della conversione di individui e popoli a Cristo per la loro salvezza. E si spiegano le tante omissioni, i silenzi su dogmi fondamentali: verità di fede che di per se stesse contraddicono implacabilmente la tesi della salvezza già garantita a tutti.
La Rivelazione avrebbe pertanto d u e aspetti nel pensiero di Wojtyla, uno a priori e uno a posteriori, secondo la terminologia elaborata da Dörmann. Se si preferisce: uno implicito ed uno esplicito, dove però l’esplicito è tale solo ad opera dell’attività della Gerarchia, orientata costantemente al “dialogo” e all’”ecumenismo” nel senso stabilito dal Concilio. Il primo aspetto viene elaborato da Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis. Il testo-chiave dal quale il papa polacco prende le mosse è il famoso paragrafo 22, 1-2 dell’enciclica conciliare Gaudium et spes. In questo paragrafo si trova il celebre passo: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo unito ad ogni uomo”.
Il principio della “rivelazione sdoppiata” che, precisa Dörmann, “ già il cardinale Wojtyla aveva ricavato dalla Gaudium et spes 22”, viene sviscerato dal teologo tedesco nella sua analisi della Redemptor hominis, che lo fa proprio.
“La “verità sull’uomo” [oggetto della Redemptor hominis], ovvero “la piena dignità della sua natura”, è “l’essere in Cristo”, elargito a tutta l’umanità senza condizione alcuna e in modo inalienabile, actu uno con la creazione, concesso a ciascun singolo uomo dal primo istante della sua esistenza per il fatto che il Figlio di Dio, mediante la sua incarnazione, si è unito formalmente a ogni uomo. Questa “rivelazione a priori”, nella più profonda umanità dell’uomo, è l’assioma della redenzione universale [della redenzione già attuatasi per tutti]. A questa “verità sull’uomo” il papa ha dedicato la sua enciclica Redemptor hominis. La tesi della redenzione universale è quindi la premessa logica dell’enciclica Dives in misericordia.
La “verità sull’uomo” viene comunicata all’uomo in Cristo e tramite Cristo e precisamente per mezzo della “rivelazione del Padre e del suo (misericordioso) amore”. Su questa “rivelazione a posteriori” storica è incentrata l’enciclica Dives in misericordia. Essa comunica all’uomo universalmente redento [dall’Incarnazione] “la piena dignità della sua natura”.
Ne consegue che la rivelazione sdoppiata, come già sottolineato dal cardinal Wojtyla, ha di per sé un “carattere antropocentrico”(9).
Mi rendo conto che diversi lettori si scandalizzeranno nel leggere queste righe. Dove mai ha Giovanni Paolo II affermato che ciascun uomo, dal primo istante della sua esistenza è unito non simbolicamente ma formalmente, a Cristo Nostro Signore, già per il fatto in sé di esser nato? Affermazioni del genere violano la fondamentale verità di fede, ben spiegata da san Paolo, secondo la quale noi, convertendoci, diventiamo Figli di Dio “per adozione” (Rm 8, 13-17). “Figli di Dio”, dunque, solo se convertiti in fede e opere, non certo per nascita, come se ogni uomo potesse esser cristiano senza saperlo, anonimamente e quindi ex essentia, ontologicamente.
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[Il par. 13 di ‘Redemptor hominis’ testo chiave della nuova dottrina] Ma andiamo a vedere cosa ha scritto Giovanni Paolo II nel par. 13 della Redemptor hominis. Nella traduzione italiana il paragrafo è intitolato: “Cristo si è unito ad ogni uomo”.
“ Qui dunque si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell’uomo “astratto” ma reale, dell’uomo “concreto”, “storico”. Si tratta di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero [et huius mysterii gratia in omne tempus cum eo Christus se coniunxerit]. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L’oggetto di questa premura è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta [integra permanet] l’immagine e la somiglianza con Dio stesso [Gn 1, 27]. Il Concilio indica proprio questo, quando parlando di tale somiglianza, ricorda che “l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” [GS 24]. L’uomo così com’è “voluto” da Dio, così come è stato da Lui eternamente “scelto”, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più reale”; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre”.(10)
Questo testo, secondo Dörmann, “formula in modo sufficientemente chiaro l’assioma della redenzione universale”(!1). Il che è come dire, nella lingua dei semplici, che professa una spaventosa eresia.
Consideriamo attentamente: il papa ci tiene a precisare che non si sta occupando dell’uomo in astratto, alla maniera dei filosofi, ma dell’uomo concreto: quello che lui sta insegnando vale quindi per ogni uomo e senza distinzione di credenti e non credenti. Egli parla come chi è convinto di svelare a tutti gli uomini per la prima volta la verità sull’uomo. La verità è la seguente: ognuno di noi “è stato compreso nel mistero della Redenzione” grazie al fatto che “con ognuno Cristo si è unito per sempre attraverso questo mistero”. La verità dell’uomo si rivela dunque attraverso un’unione perpetua di Cristo con ogni uomo, con ogni individuo concreto di questo mondo. Ma un’unione, in che modo? Diventando cristiani, convertendosi a Cristo in fede e opere, come si suol dire? No. Il “mistero della Redenzione”, come inteso qui dal papa, prescinde (incredibile dictu) dalla conversione a Cristo. E perché vi prescinde? Perché l’uomo, “nella sua unica e irripetibile realtà umana” ha mantenuto “intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso [Gn 1, 27]”.
Ma il dogma della fede, osservo, codificato in ultimo dal Tridentino, non ha sempre affermato che a causa del peccato originale i nostri progenitori hanno perduto la grazia santificante attirandosi la collera divina, cadendo sotto il dominio della morte e dell’azione del demonio (D 788)? Essi hanno quindi perduto i doni sovrannaturali (immunità dalla concupiscenza, dall’ignoranza, dal dolore e dalla morte) e sono rimasti danneggiati in quelli naturali: “Homo per peccatum [Adae] spoliatus est gratuitis [= supernaturalibus], vulneratus in naturalibus” (S. Agostino), ossia vulnerato nell’integrità conferita originariamente alle loro disposizioni da parte del Creatore (naturalia integra). Questo peccato consiste essenzialmente nella “privazione della giustizia originale” che rendeva Adamo ed Eva immagine e somiglianza di Dio che li aveva creati dal nulla.
Come può allora Giovanni Paolo II affermare che ogni uomo, in quanto semplice uomo, conserva “intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”, come se appunto non ci fosse stato il peccato originale, la disobbedienza di Adamo ed Eva, la conseguente Caduta? Questo modo di concepire l’uomo prescinde evidentemente dal dogma del peccato originale, che, come ha sempre insegnato la Chiesa, si trasmette di uomo in uomo non per imitazione ma per interiore propagazione (propagatione, non imitatione transfusum omnibus – D 790); mistero insondabile, questo, della nostra fede, tuttavia dimostrato dall’inclinazione al male pur presente inspiegabilmente in tutti noi, in lotta continua con quella al bene, che pur ci è rimasta. Ma ora un papa in carica ci viene a dire che sia l’immagine che la somiglianza con Dio sono rimaste intatte nei discendenti d’Adamo, senza nominare mai né peccato originale né battesimo, che rimette questo peccato, conferendo la grazia santificante, quella sacramentale e il carattere di cristiano – e senza il battesimo “o il voto di quello” non è possibile la giustificazione ossia l’eterna salvezza (D. B. 796)(12).
Non è questa di papa Wojtyla una dottrina nuova, contraria a quanto sempre insegnato?
Lascio qui la parola al prof. Dörmann.
[La rottura aperta con il dogma cattolico] Il testo di Wojtyla che ho citato, scrive, “potrebbe essere inteso e interpretato nel senso del dogma cattolico, fino alla frase ove si dice che l’immagine (imago) e la somiglianza (similitudo) dell’uomo con Dio rimangono intatte”(13). Tutte le affermazioni sull’uomo “concreto” incluso nel mistero della Redenzione e quindi affidato alle cure della Chiesa e unito a Gesù “per sempre”, potrebbero accordarsi con la dottrina tradizionale della Chiesa, perché si potrebbero ancora intendere in senso tradizionale – ovvero, aggiungo, in senso puramente simbolico, spirituale, morale, come se rinviassero all’idea corretta della missione quale indefessa opera per la conversione a Cristo. Si ha invece una evidente rottura con il dogma cattolico là ove il papa afferma che l’uomo “intero”, unico e irripetibile nella sua realtà individuale, è quello nel quale “permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”.
Infatti, prosegue Dörmann, “non si può sostenere che nella “realtà unica e impossibile a ripetere” di ogni “uomo reale, concreto, storico permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”, dal momento che il dogma del peccato originale insegna la ferita inferta all’imago e la perdita della similitudo Dei nella realtà concreta di ogni uomo. La redenzione presuppone la condizione di peccato nella quale ogni uomo si trova dopo la colpa originale, condizione che viene cancellata attraverso la giustificazione del peccatore. Il Concilio di Trento definisce la giustificazione “come il passaggio dallo stato in cui si trova l’uomo, nato figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio, ad opera del secondo Adamo Gesù Cristo nostro Salvatore” (D 796). È evidente che la frase decisiva dell’enciclica – la quale afferma che nella realtà unica ed impossibile a ripetere, di ogni uomo concreto ‘permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso’ – è inconciliabile con il dogma della Chiesa. Quest’affermazione è in diretta contraddizione con l’insegnamento del Concilio di Trento sulla giustificazione. Sec-ondo tale Concilio, giova ripeterlo, essa consiste nel fatto che l’uomo passa dallo stato in cui si trovava come ‘figlio del primo Adamo allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio per mezzo del secondo Adamo’” (14).
Secondo Wojtyla il Concilio afferma lo “integro permanere della immagine e somiglianza con Dio allorché, in Gaudium et spes 24, dichiara che “l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”. Avrebbero vo-tato questo testo, i Padri Conciliari, per sottolineare che Dio ha scelto l’uomo, ogni uomo, ogni abitante della terra, per destinarlo “alla grazia e alla gloria”. Dal testo woytiliano si evince, pertanto, che ogni uomo sarebbe stato “scelto” per esser destinato alla “grazia e alla gloria”, concetto che appare in netto contrasto con il dogma della predestinazione, sempre professato dalla Chiesa cattolica. Mi limito qui a ricordare le proposizioni fondamentali di questo grande e tremendo mistero, secondo le parole di san Prospero d’Aquitania, fatte proprie dal Concilio di Quierzy, nel IX secolo: contro i pelagiani e semipelagiani “che alcuni siano salvati, ciò è dono di Colui che salva”. Contro i predestinazionisti, secondo i quali esisterebbe una predestinazione alla dannazione: “Che alcuni periscano, ciò è per colpa di coloro che periscono”. Nell’Antico Testamento il medesimo concetto “è espresso dal profeta Osea in questi termini: “La perdizione è opera tua, Israele; solo in Me è il tuo aiuto”(15).
Con la nuova dottrina inaugurata da Giovanni Paolo II il mistero della predestinazione scompare completamente: tutti siamo destinati “alla grazia e alla gloria”. E non potrebbe essere diversamente, visto che si afferma essersi Cristo con l’Incarnazione unito soprannaturalmente e per sempre ad ogni uomo. Se nella nostra sostanza di uomini, se in tutti gli uomini e donne si ha ontologicamente un’unione con il Cristo, diventa impossibile che tra di loro vi sia chi va all’eterna dannazione. Verrebbe dannata anche la supposta “unione” perpetua con loro ad opera del Cristo preesistente, il che non si può ammettere. Si capisce, quindi, come mai non si parli più dei Novissimi, a cominciare dall’Inferno. Allo stesso modo del peccato originale, della salvezza per gli “eletti”, della divisione finale del genere umano in Eletti e Reprobi alla fine dei tempi.
La Redemptor hominis elabora dunque sul concetto affermato in Gaudium et spes 22, secondo il quale con l’Incarnazione Cristo si è unito in un certo modo ad ogni uomo. In quel sciagurato articolo la dottrina del peccato originale è ricordata in modo riduttivo e fuorviante. Vi si dice, infatti, che Cristo è venuto a restituire ai figli di Adamo “la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato”. Ora, a più riprese, Dörmann ha fatto notare che, secondo il dogma sempre insegnato, la nostra somiglianza con Dio è andata perduta con il peccato di ribellione, non semplicemente “resa deforme”. Ma la Redemptor hominis secondo Dörmann va addirittura oltre il testo conciliare, con la sua tesi dell’integra permanet, ben più forte della similitudo deformata del Concilio. Anzi, “l’affermazione che in ogni uomo dall’istante del suo concepimento integra permanet imago et similitudo Dei ipsius, fa pensare al Dogma dell’Immacolata Concezione!”. Vale a dire: Woytila dà addirittura l’impressione di applicare ad ogni essere umano, in quanto tale, un concetto di identità soprannaturale dell’umano con il divino che può invece applicarsi solo al caso assolutamente eccezionale della Immacolata Concezione.
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[Mutamento di significato in basilari concetti tradizionali] Prima di chiudere questa Domanda sulle verità fondamentali avvilite e negate dagli errori dilaganti dall’alto della stessa gerarchia, mi sembra utile accennare al mutamento di significato di termini tradizionali della dottrina e pastorale cattoliche, provocato dalle nuove (e cattive) dottrine in esse diffuse. Anche questo è merito non piccolo del prof. Dörmann.
Il concetto singolarissimo dell’unione di Cristo con ogni uomo grazie all’Incarnazione, Wojtyla lo ha sostenuto già da cardinale. Per lui, sotto-linea Dörmann, proprio in questo consiste la Rivelazione. Si deve quindi aver ben presente la differenza con il Prologo del Vangelo di Giovanni, contro l’opinione di chi ritiene che Wojtyla non abbia fatto altro che riproporlo: “E il Verbo si è fatto carne e abitò tra noi. E noi abbiamo visto la sua gloria, gloria dell’unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14). In cosa consiste la differenza?
“Il cardinal Woytila invece dice tutt’altra cosa. La sua definizione non è: la rivelazione consiste nel fatto che il Figlio di Dio è divenuto uomo incarnandosi nella Vergine Maria e ha rivelato la gloria dell’unico Figlio del Padre, in una parola la Gloria di Dio. Al contrario, egli sostiene che la rivelazione si concretizza nel fatto che il Figlio di Dio mediante la sua Incarnazione “si è unito ad ogni uomo, è diventato, come Uomo, uno di noi”. La differenza con la formulazione del Vangelo di san Giovanni balza subito all’occhio: nel concetto della rivelazione secondo il cardinal Wojtyla il fatto interiore dell’unione nascosta del Figlio di Dio con ogni uomo corrisponde al fatto esteriore dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che diventa uno di noi e ci espone o ci “svela”, in quanto uomo, la nostra propria umanità.
Questo cambiamento di accento segnala in maniera sottile la svolta antropocentrica: l’unione del Cristo con ogni uomo attraverso l’Incarnazione costituisce l’oggetto primario, fondamentale, della nozione di rivelazione ed è anche la chiave per la comprensione del “carattere antropocentrico della Rivelazione” affermato dal Cardinale.
L’oggetto primario della rivelazione può a tal punto venire chiaramente focalizzato. Per il cardinal Wojtyla, lo abbiamo visto, l’unione del Figlio di Dio con ogni uomo in ragione dell’Incarnazione è un “matrimonio formale”, reale e soprannaturale, e una comunicazione “dell’esistenza in Cristo”. Questa unione, per conseguenza, si pone come una realtà interna “soprannaturale”, presente in ogni uomo, poiché in lui, dal primo istante della sua esistenza, “permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”. Fatto questo che il cardinale chiama Rivelazione. Ed è per questa ragione che egli intende la redenzione universale come il fatto fondamentale della Rivelazione”(16).
[Mutazione del concetto stesso della Chiesa] Un altro punto importante è messo in rilievo da Dörmann. “Il vocabolario teologico tradizionale adottato per questa teoria della redenzione universale subisce un cambiamento di senso difficile da afferrare ma tuttavia molto profondo. Basti un solo esempio, tratto dal sopra citato testo dell’enciclica: vi è detto che “ogni uomo…a causa del mistero della Redenzione è affidato alla sollecitudine della Chiesa”. Così, infatti, la Chiesa ha considerato la cosa dall’epoca del Nuovo Testamento. Perché il Redentore del genere umano ha versato il suo sangue per tutti gli uomini. Da questa universalità oggettiva della Redenzione consegue per la Chiesa la missione di “fare di tutti i popoli dei discepoli” e di condurli all’obbedienza della fede ed al battesimo (Mt 28, 18-20). La sua missione era, e rimane in realtà, quella di applicare non soltanto a ciascuno in particolare, ma anche alle nazioni, i frutti della redenzione universale oggettivamente completa.
Ma se “ciascun” uomo, “concreto”, storico, dal primo istante della sua esistenza, è legato al Cristo da un’unione soprannaturale per sempre ed in maniera indissolubile, che lo sappia o no e che lo accetti o no, è allora in un senso del tutto differente da quello sin qui inteso che egli è “affidato alla sollecitudine della Chiesa”. La stessa nozione di Chiesa ha subito un’evoluzione nei suoi fondamenti: se il Figlio di Dio con la sua Incarnazione si è unito per sempre ed in maniera indissolubile ad ogni uomo, se “l’esistenza in Cristo” è divenuta la “dimensione” religiosa di ciascun uomo, tutta l’umanità forma allora, nel e con il Cristo, una unità organica, un organismo natural-soprannaturale. La Chiesa viene allora a coincidere con l’umanità “nel mistero della Redenzione” e “dell’uomo”, mentre il “dualismo” di natura e grazia, Chiesa e umanità, viene superato nel suo stesso principio. La Chiesa Corpus Christi Mysticum e l’umanità Corpus Christi Mysticum non si differenziano più nel loro essere profondo che è “l’esistenza nel Cristo”, ma soltanto secondo “l’espressione” graduale della forma nella quale si presentano. Il cardinal Wojtyla di conseguenza fa propria la teoria nota come teoria dei “cristiani anonimi” e del “cristianesimo anonimo”(17).
E quesa falsissima teoria (osservo) il cardinale l’ha mantenuta anche da papa, come si è visto – una teoria nella quale si riassumono i deliri visionari sul Cristo cosiddetto “cosmico”, che avrebbe già salvato tutti dall’eternità e con l’Incarnazione; una teoria (un monismo panteistico) che sistematicamente confonde natura e soprannaturale, scesa per li rami dal filosofo francese di fine Ottocento, Maurice Blondel, a de Lubac a Teilhard de Chardin a Karl Rahner ed epigoni vari. Il fatto è che Giovanni Paolo II era intriso di Nouvelle Théologie, come del resto gli altri papi “conciliari”.
Il profondo studio del prof. Dörmann fa emergere con assoluta certezza l’errore che possiamo chiamare dell’ “integra permanet”, non meno grave, a ben vedere, dell’errore del “subsistit in” sulla natura della Chiesa, i cui testi di riferimento restano sempre la costituzione conciliare Lumen Gentium 8 e il decreto conciliare Unitatis redintegratio 3. Errori intrinsecamente diversi ma connessi e coniugati.
Teofilo
27 ottobre 2023
1. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo Spirito di Assisi, I., tr. it. di Paolo Taufer, Edizioni Ichthys, Albano Laziale, s.d., p. 17 ss.
2. Op. cit., p. 51.
3. Op. cit., pp. 42-52; 58-59.
4. Op. cit., p. 67 ss.
2. Op. cit., p. 51.
3. Op. cit., pp. 42-52; 58-59.
4. Op. cit., p. 67 ss.
5. Le notizie su Dörmann le ho ricavate dall’edizione tedesca in un solo volume dei suoi studi su Giovanni Paolo II : Prof. Dr. Johannes Dörmann, Johannes Paul II. Sein theologischer Weg zum Weltgebetstag der Religionen in Assisi, Sarto Verlag, Stuttgart, 2011, pp. 858. Traduzione del titolo: GP II. Il suo cammino teologico verso la Giornata mondiale di preghiera delle Religioni ad Assisi. L’opera racchiude in uno solo i tre volumi della ricerca dell’Autore.
6. Il primo volume della già citata traduzione italiana titola, alla lettera: La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, I. Dal Concilio Vaticano II all’elezione papale, editrice Ichthys, Albano Laziale, 1994, tr. dalla traduzione francese a cura di Paolo Taufer (testo francese: L’étrange théologie de Jean-Paul II et l’Esprit d’Assise, ed. Fideliter, Eguelshardt, 1992). I successivi tre volumi in italiano sono stati tradotti dal testo originale tedesco a cura di Alfons Benedikter e Paolo Taufer.
7. L’étrange théologie de Jean-Paul II. L’encyclique ‘Dives in misericordia’ (III) par Johannes Dörmann, ‘Sel de la terre’, 51, hiver 2004-2005, pp. 44-51; p. 45. Traduzione dell’Autore del presente articolo, Teofilo.
8. Johannes Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, III. La ‘Trilogia Trinitaria’. Parte seconda. Dives in Misericordia, tr. it. cit., p. 15.
9. Dörmann, op. cit., p. 15.10. Giovanni Paolo II, Tutte le Encicliche, a cura di Rino Fisichella ed Emmanuele Vimercati, con Saggio introduttivo e prefazione alle singole encicliche di Rino Fisichella, testo latino a fronte, Bompiani, Milano, 2010, p. 143.
11. Johannes Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi. II. La ‘Trilogia Trinitaria’. Parte prima. ‘Redemptor hominis’, editrice Ichthys, Albano Laziale, s.d., p. 152.
12. Sul peccato originale e il battesimo ho tenuto presenti: Louis Ott, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. dell’abbé Marcel Grandclaudon, Salvator, Mulhouse/Casterman, Tournai, Paris, 1954, pp. 152-168; Giuseppe Casali, Somma di teologia dogmatica, Ed. Regnum Christi, Lucca, 19643, p. 383 ss.; p. 563-570.
13. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo Spirito di Assisi. I. Dal Concilio Vaticano II all’elezione papale, tr. it. cit., p. 73. In questo primo volume, Dörmann analizza per la prima volta alcuni punti essenziali della Redemptor hominis.
14. Dörmann, op. cit., pp. 73-74.
15. Ho tratto questi riferimenti alla predestinazione da Fr. Reginald Garrigou-Lagrange, O.P., Predestination. The Meaning of Predestination in Scripture and the Church, tr. ingl. di Dom Bede Rose, O.S.B., D.D., Tan Books, Rockford, USA, 1998, cap. I, pp. 3-23.
16. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo Spirito di Assisi, I, cit., pp. 78-79. Grassetto mio.
17. Dörmann, op. cit., pp. 74-75. Grassetto mio.
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