Nella nostra traduzione da OnePeterFive una meditazione, tratta dalla Domenica appena trascorsa da noi ricordata qui, che ci aiuta a vivere e offrire la nostra vita e la nostra storia in ogni momento, figli nel Figlio ben incarnati nelle nostre situazioni, per ricevere la grazia di redimere questi tempi malvagi in cui siamo stati chiamati a vivere. Molti i pertinenti riferimenti alla cattività babilonese di chi ama la Tradizione e il Rito dei secoli.
Ventesima domenica di Pentecoste:
una sobria ebbrezza
di Padre John Zuhlsdorf
di Padre John Zuhlsdorf
Il contesto è sempre importante. Innanzitutto, a che punto dell’anno liturgico siamo in questa ventesima domenica dopo la Pentecoste? Storicamente, questa è la quinta domenica dopo la festa di San Cipriano. Ovviamente mi riferisco a un conteggio delle domeniche che era in vigore prima che esse fossero numerate a partire dalla Pentecoste. Il grande liturgista, Beato Ildefonso Schuster, ci informa che
Il computo del numero delle settimane tra Pentecoste e Avvento non è sempre stato lo stesso, poiché a Roma si calcolavano le domeniche più vicine alle feste degli apostoli e di San Lorenzo; seguivano poi quelle successive a San Cipriano e infine, in alcune versioni, una serie conclusiva di domeniche successive alla dedicazione di San Michele, post Sanctum Angelum. Ciò spiega perché, come abbiamo già osservato, gli Introiti di queste ultime domeniche formano come un gruppo a sé stante, non essendo tratti dai Salmi, come era regola generale, ma dai libri profetici.
La nostra lettura dell’Epistola è tratta dalla Lettera di San Paolo agli Efesini 5, 15-21, un capitolo che alcuni membri del Sinodo sulla sinodalità che fanno sempre molto rumore (“Camminare insieme verso la camminare insiemezza”) non amano leggere, a causa della sua condanna della “sporcizia” (aischrotēs), ossia dei rapporti omosessuali.
Paolo ha trascorso molto tempo a Efeso, una città dell’Asia Minore in cui il paganesimo era fortemente radicato: circa tre anni. Sembra che la maggior parte della sua comunità cristiana convertita fosse di origine gentile. Egli ha scritto questa lettera ai suoi figli spirituali mentre era in carcere a Roma, a circa 10 minuti a piedi da dove attualmente sto digitando sulla tastiera. Paolo ha scritto per rafforzare l’unità di quella comunità — impressionando i Gentili, che non avrebbero più dovuto vivere secondo le loro vecchie usanze pagane —, e per aiutare i suoi membri a raggiungere una nuova identità in Cristo, piuttosto che considerarsi Gentile o Ebreo.
C’è un’atmosfera autunnale in questa pericope (ossia, brano della Scrittura per la liturgia). Ci sono immagini del tempo e la menzione del vino e del canto, come si addice all’epoca della vendemmia. Dopo questa lettura, sentiamo nel Graduale come i servi di Dio sperano nel “cibo opportuno” (Sal 145/144).
[Fratelli,] vigilate dunque attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò inconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio. E non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
Sempre nel Graduale dopo questa lettura, nel “versetto” del Salmo che cantiamo, inneggiamo a Dio (Sal 108/107).
Questo brano degli Efesini è un avvertimento di buon senso riguardo al mondo in cui si vive, un avvertimento che vale anche per noi oggi, se non ancora di più di quanto valesse per gli ascoltatori antichi (le lettere venivano lette ad alta voce). Il cristiano deve stare molto attento quando interagisce col mondo materiale. Un modo per esprimere questo fatto è l’utilizzo dell’immagine dell’“ebbrezza”.
Paolo esorta ad essere ricolmi dello Spirito. Essere pieni di vino terroso produrrà vari comportamenti, incluso il canto, e le canzoni non sempre saranno buone. Saranno sbruffone e chiassose. L’essere pieni di Spirito Santo produce anche “salmi, inni, canti spirituali” che sono “melodia nei vostri cuori”. Se il vino mondano può produrre una misura di vanto autoreferenziale, l’ebbrezza dello Spirito sfocia nel rendimento di grazie al Signore.
Un altro effetto dell’ebbrezza del vino mondano e spirituale potrebbe essere la malinconia. La formula della Messa ha un tono malinconico a causa dei riferimenti all’esilio babilonese. L'Offertorio della domenica è il breve: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” [ve parlavamp così], che continua, come gli ascoltatori colti possono ricordare — così:
Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: "Cantateci i canti di Sion!".
La Messa di oggi ha correnti profonde. Mentre scrivo mi viene in mente cosa vuol dire far parte del popolo in esilio, di coloro che vogliono il Rito Romano Tradizionale. In un recente intervento al Sinodo (“camminare insieme”) è stata offerta al card. Tobin l’immagine di quanti sono banditi dalla Chiesa: egli, che aveva appena sottolineato in modo eloquente quanto sia bella la Chiesa grazie all’inclusione degli omosessuali attivi, ha poi negato che i cattolici tradizionali siano stati banditi. È per il tuo bene, ha lasciato intendere. Ti abituerai a non essere felice. È come un babilonese che dice: “Cantaci una delle tue canzoni”.
Il cristiano, assediato, bandito, perseguitato, reagisce con gioia. Se abbiamo momenti passeggeri di angoscia o di malinconia, la conoscenza del nostro carattere battesimale dovrebbe rinfrancarci subito. Penso alle benedizioni della nostra stessa esistenza, nel tempo e nel luogo in cui Dio ci vuole, alla disponibilità delle grazie effettive di cui abbiamo bisogno per vivere la nostra vocazione, che ci elevano molto di più di tante moine. Quel senso della presenza dello Spirito Santo in noi come in un tempio, ci riempie di una gioia che vuole scoppiare. Quando Pietro e gli Apostoli lasciarono il Sinedrio dopo il loro esame, si rallegrarono (Atti 5, 41). Paolo e Sila cantarono in prigione:
Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli. D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti (At 16, 25-26).
Non dovremmo forse fare la stessa cosa? È possibile che noi “trad” mettiamo da parte alcune delle nostre differenze, deponiamo il sacco di malinconia che ci trasciniamo dietro, mettiamo in fuga le piccole nuvole nere che aleggiano e sintonizziamo insieme la nostra canzone? Mi sembra che quando la gente vede la nostra gioia nei benefici dei riti tradizionali, anch’essa ne sia attratta. Certo, ci sarà sempre chi cercherà di abbatterci. Lasciate che ci provino: quando le guardie di Paolo e Sila videro l’accaduto, si convertirono.
C’è un tema antico esplorato da tanti saggi della Chiesa: la sobria ebbrezza che scaturisce proprio da questi versetti della nostra lettura odierna. In primo luogo, la vostra mente tornerà a Atti 2, 1-13 e alla discesa dello Spirito Santo a Pentecoste, quando alcuni pensavano che chi era pieno di Spirito fosse ubriaco, anche se era mattina presto: “pieni di vino nuovo”. Lo hanno fatto molti Padri della Chiesa, come Origene, San Cirillo di Gerusalemme e Sant’Ambrogio di Milano. L’inno di Ambrogio Splendor paternae gloriae per le Lodi nell’Ufficio tradizionale — il quale credo sia sopravvissuto nel Novus Ordo — ha come tema la sobria ebrietas. Dopo aver cantato raccontando come controlliamo le nostre anime mantenendo una purezza incontaminata, intoniamo:
Christusque nobis sit cibus, potusque noster sit fides; laeti bibamus sobriam ebrietatem Spiritus.Che Cristo sia il nostro cibo, e che la fede sia la nostra bevanda. Gioiosi, beviamo la sobria ebbrezza dello Spirito.
Nella sua Introduzione allo Spirito della liturgia, scrivendo sulla musica sacra della Chiesa, Joseph Ratzinger ha utilizzato il tema della sobria ebbrezza per approfondire la differenza tra la musica adatta alla liturgia e quella che non lo è. Scrive dello Spirito Santo che accende in noi il desiderio di cantare per amore con parole che superano i significati terreni perché radicate nel logos, nella razionalità spirituale, piuttosto che nello spirito mondano che ci trascina in un’ebbrezza che schiaccia la razionalità e ci rende schiavi dei sensi fisici. Come scriveva sant’Agostino, “cantare amantis est… Il canto appartiene a chi ama” (s. 336, 1 – PL 38, 1472).
Per concludere, torniamo alla nostra lettura di questa domenica, in cui Paolo ci dice di essere cauti stando nel mondo, perché viviamo in tempi malvagi. Quest’epoca potrebbe essere difficile, ma a tempo debito tutto si realizzerà. Abbiamo tutte le ragioni per alzarci sempre e cantare in segno di ringraziamento e gioia per le cose meravigliose che abbiamo ricevuto nella nostra giusta stagione, già adempiuta e tuttavia ancora in corso.
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[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
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