(Ora è nelle librerie la III Edizione rivista e ampliata, Solfanelli 2017, pag.165, Euro 13 - Ordini)
Il cattolicesimo nacque aramaico, fu lungamente
greco, poi latino ed è il latino che gli si connaturò
modellandosi perfettamente sui caratteri della
Chiesa e sulla sua universalità non certo geografica,
ma derivante dalla vocazione di portare a
tutto il genere umano Cristo Signore, secondo il
suo mandato.
Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali.
In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.[1]
Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali.
In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.[1]
Oltre alla sacralità del culto, anche questa cultura è a rischio, oggi che persino i sacerdoti non sono messi in grado di accostare i Padri della Chiesa e i classici nei loro testi originali. Se la Chiesa avesse utilizzato esclusivamente lingue correnti e locali, molta confusione sarebbe stata generata dalla grande estensione dei periodi di tempo e dei territori geografici che essa, unica tra tutte le istituzioni umane, aveva e ha il compito di raggiungere. E questa confusione rischia di sommergerci oggi. Recentemente, da alcuni segnali sembra si stia correndo ai ripari. Penso al recente Motu proprio Latina Lingua che istituisce la Pontificia Academia Latinitatis. Speriamo che ciò risulti efficace sul campo, perché non basta promuovere, occorre anche gestire e rendere obbligatoria l’applicazione dei provvedimenti.
Il riferimento più importante in ordine alle prime forme della liturgia latina è Sant'Ambrogio. Nel suo De sacramentis (390) scopriamo che la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano contiene le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. In altri punti della stessa opera Ambrogio sottolinea il suo intento di seguire in tutto l'uso della Chiesa romana; dunque è evidente che questa preghiera eucaristica è di origine romana. La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone promulgato da Gregorio Magno (fine del VI secolo), giunto fino a noi con poche e irrilevanti modifiche rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano (metà dell'VIII secolo), ritenuto eco di usi liturgici più antichi. Importante notare che le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze; tanto più se si considera che i circa trecento anni intercorsi hanno segnato momenti di intenso sviluppo liturgico.
Il riferimento più importante in ordine alle prime forme della liturgia latina è Sant'Ambrogio. Nel suo De sacramentis (390) scopriamo che la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano contiene le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. In altri punti della stessa opera Ambrogio sottolinea il suo intento di seguire in tutto l'uso della Chiesa romana; dunque è evidente che questa preghiera eucaristica è di origine romana. La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone promulgato da Gregorio Magno (fine del VI secolo), giunto fino a noi con poche e irrilevanti modifiche rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano (metà dell'VIII secolo), ritenuto eco di usi liturgici più antichi. Importante notare che le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze; tanto più se si considera che i circa trecento anni intercorsi hanno segnato momenti di intenso sviluppo liturgico.
Nel Rito Romano, oggi, l'iconoclastia non ha riguardato solo la lingua e la cesura col passato operata dalla riforma bugniniana che ha portato al relativismo sia i sacerdoti che le persone: l'Assemblea celebrante e il suo Presidente rivolti l'uno verso l'altra. Se invece lo sguardo è rivolto al crocifisso, centro della Liturgia, si ripristina la giusta interiorizzazione e conseguente esteriorizzazione e la liturgia diventa vita. Nell'Antico Rito il dialogo tra sacerdote e fedeli non manca nello scandire delle formule, ma resta essenziale sobrio profondo proprio per il linguaggio che non è quello che usiamo tutti i giorni per andare al supermercato. È questa la messa che ha forgiato santi per millenni, che è arrivata a noi pressoché intatta, sicuramente nel canone, fin dal IV secolo. La vetus latina data dal II secolo e il suo è già un linguaggio ieratico, codificato, reso sacro anche dallo scandire delle generazioni ed immutabile, come è necessario che sia per sottrarre i significati profondi alla mutevolezza delle traduzioni nel linguaggio vernacolare che si evolve con i tempi e le culture. Una 'forma' che papa Damaso, nel IV secolo non ardì cambiare se non nelle “letture”, introducendo i testi della Vulgata di S. Girolamo, che Papa Gregorio si adoperò perché fosse diffusa in tutta l’Europa e San Pio V codificò. Oggi, invece, abbiamo assistito e assistiamo a traduzioni - e persino ad arbitrarie manipolazioni - che spesso diluiscono quando non oltrepassano il senso profondo di espressioni intraducibili da custodire e preservare così come sono perché tutte le generazioni possano riceverne la fecondità.
Anche secondo le intenzioni del Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium 36,2) alla lingua volgare si sarebbe dovuto dare spazio, – soprattutto nell’ambito della liturgia della Parola – ma, nel testo conciliare, la norma generale immediatamente precedente recita: «L’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini» (Sacrosanctum Concilium 36,1).
Ci siamo dimenticati che il volgare non è una conquista. La lingua sacra, strutturata, in ogni espressione gesto e significato conserva il dogma, la fede degli Apostoli arrivata fino a noi attraverso i secoli, conserva il senso dell'indicibile e anche dell'intraducibile: ci sono parole che, è bene ribadirlo, hanno uno spessore di significato che qualunque traduzione tradirebbe e successive traduzioni rese necessarie dall’evolversi del linguaggio non farebbero che allontanare sempre di più dal loro senso originario. Si partecipa non solo col cervello: bisogna guardare, ascoltare, adorare... in più la lingua universale fa sentire tutti a casa ed ha la stabilità, la pregnanza che la traduzione appunto banalizza, senza contare i sacri silenzi. Il volgare bastava introdurlo, come già si fa nelle celebrazioni Summorum Pontificum, solo nelle letture.
Infine il latino non è un ostacolo, perché la traduzione presente nei messali consente a tutti la giusta comprensione. E poi è un latino semplice: prendiamo il Confiteor … mea culpa … basta un po’ di frequentazione e anche le persone che non lo conoscono possono acquistarvi dimestichezza con la frequenza dell’uso. Basta vincere i pregiudizi e la damnatio memoriae che purtroppo accenna ancora solo timidamente a rettificarsi, per effetto della quale la Chiesa Universale non è più riconoscibile in una comune celebrazione che ognuno possa ritrovare in ogni parte del mondo, che era ed è la sua ricchezza.
Occorre che chi si accosta al rito usus antiquior o lo ritrova vi « assista con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica ».[2]
Nella Veterum Sapientia di Giovanni XXIII (1962) non si manca di rammentare che il latino resta un lingua immutabile - e dunque fissata in registri ben definiti e sottratti alle evoluzioni nel tempo delle lingue nazionali - citando Pio XI[3]:
«Infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli... richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare».
Indispensabile per esprimere i concetti con chiarezza e solidità di pensiero. Ecco perché resta perennemente valido per comunicare il pensiero con certezza, forza, precisione, e ricchezza di sfumature. Per questo è tuttora insostituibile nell'esercizio del magistero, soprattutto nelle definizioni dogmatiche, per le quali non si ammettono ambiguità ed inoltre nelle parti principali della liturgia, nelle quali le res humanae, transeunti, sono immerse nel mistero ma anche nella fecondità delle res divinae, eterne ed immutabili.
Papa Ratzinger ha espresso l'intento di far crescere la conoscenza della lingua di Cicerone, Cesare, Tacito, Seneca, di Agostino e di Erasmo da Rotterdam, nell’ambito della Chiesa ma anche della società civile e della scuola. Per questo, l'11 novembre 2012, ha emanato il Motu proprio Latina Lingua che istituisce la nuova «Pontificia Academia Latinitatis». Ne è presidente il rettore dell'Alma Mater di Bologna, Ivano Dionigi, che nel suo indirizzo in occasione dell'insediamento ha ricordato che la giovinezza perenne dei classici[4] è un tesoro prezioso per ogni epoca, ma dev'essere riscoperta, coltivata e protetta.
Molte cose possono essere fatte per raggiungere questo scopo, ad latinam linguam fovendam: il verbo foveo significa appunto tenere al caldo, proteggere, coltivare, custodire. Nessuna generazione deve sottrarsi a questo compito perché, secondo sant'Agostino, solo il presente “esiste” davvero, mentre «ciò che hai ereditato dai padri conquistalo per possederlo», diceva Goethe secoli più tardi.
E tuttavia, vista la temperie attuale, cito uno scrittore profetico come Giovannino Guareschi:
1. Uwe Michel Lang, Intervento al primo Convegno su il Motu Proprio Summorum Pontificum - Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Roma 16-18- settembre 2008
2. Il Latino nella liturgia. Spunti di riflessione di Daniele di Sorco.
3. Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452
4. Vien da osservare che prima e insieme ai classici, a noi interessano piuttosto i Padri Latini, consultare il testo originale dei quali, fa cogliere ricchezze sorprendenti. La stessa cosa vale per i Padri greci, ovviamente.
Cito le parole del Beato Gabriele Maria Allegra (1907-1976), missionario francescano in Cina, traduttore delle Sacre Scritture in cinese: "Quando penso che il latino non si studia più, che anche in questo abbiamo seguito l'andazzo dei protestanti, o più esattamente di alcune sette protestanti, quando penso che l'immensa letteratura patristica latina, i più insigni documenti della storia della Chiesa di Dio in Cina, che sono scritti in latino, sono ormai libri sigillati per i futuri sacerdoti, e aggiungo, quando penso che per noi francescani tutte le nostre antiche fonti e tutte le grandi opere sono scritte in latino, mi vengono le lacrime agli occhi"
Molte cose possono essere fatte per raggiungere questo scopo, ad latinam linguam fovendam: il verbo foveo significa appunto tenere al caldo, proteggere, coltivare, custodire. Nessuna generazione deve sottrarsi a questo compito perché, secondo sant'Agostino, solo il presente “esiste” davvero, mentre «ciò che hai ereditato dai padri conquistalo per possederlo», diceva Goethe secoli più tardi.
E tuttavia, vista la temperie attuale, cito uno scrittore profetico come Giovannino Guareschi:
« Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l'era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi maleducato potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto "sonoro" potrà parlare per ore e ore senza dire niente. Cosa impossibile col latino ».__________________________
1. Uwe Michel Lang, Intervento al primo Convegno su il Motu Proprio Summorum Pontificum - Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Roma 16-18- settembre 2008
2. Il Latino nella liturgia. Spunti di riflessione di Daniele di Sorco.
3. Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452
4. Vien da osservare che prima e insieme ai classici, a noi interessano piuttosto i Padri Latini, consultare il testo originale dei quali, fa cogliere ricchezze sorprendenti. La stessa cosa vale per i Padri greci, ovviamente.
Cito le parole del Beato Gabriele Maria Allegra (1907-1976), missionario francescano in Cina, traduttore delle Sacre Scritture in cinese: "Quando penso che il latino non si studia più, che anche in questo abbiamo seguito l'andazzo dei protestanti, o più esattamente di alcune sette protestanti, quando penso che l'immensa letteratura patristica latina, i più insigni documenti della storia della Chiesa di Dio in Cina, che sono scritti in latino, sono ormai libri sigillati per i futuri sacerdoti, e aggiungo, quando penso che per noi francescani tutte le nostre antiche fonti e tutte le grandi opere sono scritte in latino, mi vengono le lacrime agli occhi"
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