Maria Guarini. Il post-concilio e l'«actuosa participatio»

Ѐ uscita la Seconda Edizione ampliata ed aggiornata alle variazioni del nuovo pontificato: «La questione liturgica. Il rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae dal Vaticano II all'epoca dei ‘due papi’», pag.168, Euro 13. Per procedere all'acquisto [qui]
Da cui è tratto testo qui ripreso, completato a seguire, con la confutazione di alcuni luoghi comuni sul Rito antico specificamente proprio sulla partecipazione attiva.

Il post-concilio e l’“actuosa participatio”

La partecipazione attiva non consiste solo in un ‘fare’ materiale, o in un ‘ruolo’ da ricoprire oppure in un ‘protagonismo’ da scoprire, perché il vero Protagonista è il Signore e quella Liturgica è una vera Actio, Opera Sua e non dell’Assemblea. Partecipare è qualcosa di più complesso che corrisponde più a stati d'animo, predisposizioni e atteggiamenti interiori, apertura di cuore e consapevolezza di ciò che accade, attenzione desta e Adorazione, con l’alternarsi di momenti dialogati e di momenti in cui si partecipa in unione col Sacerdote… senza dimenticare i Sacri silenzi. Il tutto in un clima di solenne sacralità, di profonda compenetrazione e immersione nel Mistero. La partecipazione non è meno attiva se avviene con le facoltà dell’anima ed una presenza raccolta e coinvolta, rispetto ad un bla bla bla o a funzioni da svolgere, perché essa è un atto sacro di culto autentico; mentre invece la si è trasformata in qualcosa che assomiglia più ad una ‘sacra rappresentazione’, narrativa piuttosto che attuativa, actio dell’Assemblea invece che del Signore. L’agire, quello autentico delle scelte illuminate dalla Fede ed intessute di grazia, viene dopo, nella vita, e non è che conseguenza.

La “partecipazione attiva” o “actuosa participatio” alla Liturgia, non nasce dal Concilio, ma già ne troviamo accenni nella bolla Divini Cultus di Pio XI e nella Mediator Dei di Pio XII mentre, ancor prima, fu lo stesso Pio X ad assumere la terminologia “partecipazione attiva” nel linguaggio ufficiale, lasciando intendere che uno degli scopi che desiderava intraprendere nella sua riforma liturgica e pastorale era quello di far rinascere l’autentico spirito cristiano (compito che spetta ad ogni generazione di credenti) attraverso un’attiva partecipazione ai misteri da parte dei fedeli. Per questo indirizzò egli stesso il Movimento Liturgico a sviluppare e studiare bene il tema e i modi di attuazione. Il Motu proprio Tra le sollecitudini, del 22 novembre 1903, precisa infatti che “prima e indispensabile fonte è la partecipazione attiva”. Naturalmente, al di là di queste indicazioni Magisteriali pre-conciliari, che dimostrano ancora una volta come il Concilio doveva rinnovare e non “rifondare” la Chiesa, non possiamo pensare che la “actuosa participatio” non si realizzasse anche prima del concilio, per ogni anima credente che viveva con Fede i Sacri Misteri celebrati nella Santa e Divina Liturgia, rendendosi ad essa presente, così come ogni volta lo fa il Suo Signore.

Si dice che la Nuova Messa è più partecipata, confondendo il ‘partecipare’ col ‘fare’ qualcosa: andare a leggere, cantare, le preghiere dei fedeli, quasi che l’ascolto e l’immersione profonda in quanto sai che ‘accade’ non sia ‘partecipazione’… tenendo anche conto che il dialogo tra sacerdote e fedeli c'è anche nel Rito Antico e il Sacerdote – che non dà le spalle ai fedeli ma insieme sono rivolti al Signore – agisce in persona Christi, dimentica se stesso e nell’attenzione ai gesti e alle formule che hanno significati sublimi intraducibili, riesce davvero ad immedesimarsi in quanto accade. Chi muore e offre il Sacrificio è Cristo, ma noi, membra del suo Corpo mistico siamo in Lui.

Partecipare non significa capire tutto (è un mistero talmente grande ed inesauribile che ci si svela sempre ulteriormente), ma offrire la  vita unendola all’unico Sacrificio di Cristo, che rinnova qui adesso per me quell’unica morte redentrice in Croce. E il sacrificio ha compimento col pasto sacro, che ci dona il “pane disceso dal cielo” con i beni escatologici, quelli dei tempi ultimi inaugurati dal Signore: è il tempo che viviamo fino alla sua seconda venuta.

L’actuosa participatio è molto più di una mera “disposizione interiore dell’assemblea” o della persona singola. La disposizione interiore (porta di accesso) è unita alla consapevolezza, cui si affiancano fondamenti e novità, vetera et nova: mozioni e intuizioni, preghiere e sentimenti suscitati dallo Spirito che denotano la partecipazione con tutto il proprio essere a ciò che ‘accade’... occorre avere ben presente questo importante dato della ‘consapevolezza’ di ciò che si sta vivendo e che ‘accade’. Grande è la responsabilità dei Pastori per diffondere gli aspetti essenziali della Rivelazione sulla Redenzione: l’opera mirabile del Signore, la cui bellezza accende il cuore dei credenti disposti ad accoglierla e che diventa nel Santo e Divino Sacrificio il culto autentico da rendere a Dio, che poi si prolunga nella vita.
Parlare di consapevolezza, vuol dire presenza sia della dimensione intellettiva che di quella spirituale (nonché corporea, s’intende), in equilibrato connubio. Davvero ‘fare’ è soltanto quello che si compie materialmente? In realtà è più presente la dimensione del Mistero, quella del silenzio, dell’Adorazione. Non si vorrà sostenere che nel vivere consapevolmente e profondamente queste dimensioni, rapportate al momento e all’atto liturgico che si compie, c’è solo ‘passività’!

Forse nel nostro intimo accadono molte più cose di quante non possiamo né immaginare né aspettarci né intuire e che poi si traducono in scelte e in atti di vita quotidiana. Non è assolutamente un discorso intimista o spiritualista, ma una realtà sperimentabile, perché ci sono momenti così intensamente vissuti alla Presenza del Signore che quello che siamo e portiamo con noi: difficoltà, problemi, resistenze, doni e altro sono espressioni, scoperte, accadimenti di persone in relazione, che si svelano e non possono rimanere gli stessi se li esponiamo all’azione dello Spirito, che coinvolge la singola persona e contemporaneamente l’Assemblea di cui essa fa parte, che oltretutto non ha confini, perché si estende alla Chiesa di ieri di oggi e di domani, alla Comunione dei Santi, illustre sconosciuta per le nuove generazioni...

La richiesta di una actuosa participatio dei fedeli al culto, più volte espressa nei documenti conciliari – e nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che sottolinea che l’espressione riguarda il servizio comune, riferito a tutto il popolo santo di Dio (cfr. CCC 1069) – viene di solito interpretata nel senso di soluzione alla condanna ad un preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli.

Possiamo davvero dire che non c’è nulla di « attivo » nell’ascoltare e far proprie, nel rispondere alle preghiere del sacerdote, nel proclamare il Gloria e il Credo, il Sanctus, nel recitare il Confiteor, nell’adorare, nell’attendere, nell’ascoltare, nell’intuire, nell'accogliere, nel commuoversi?
Leggiamo in Joseph Ratzinger: “Introduzione allo spirito della liturgia”, p. 167:
«In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola « partecipazione » rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte».
Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, quest’azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? Come accenna l’allora card Ratzinger che nel testo citato così continua:
«Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» – è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta».
Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle banalizzazioni antropocentriche che vorrebbero imporci. E infatti, sono di nuovo parole del Papa, dallo stesso testo citato:
« La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato  dell’essenziale.
Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia ».
Il passaggio della liturgia come forma stabile di dramma sacro alla liturgia come dramma poetico nascente dall’arte inventiva dei singoli è una delle innovazioni più visibili della riforma. L’elemento più evidente è che il principio di creatività elide del tutto il valore delle rubriche per effetto di un malinteso spirito di indipendenza (dal mistero che in aeternum stat) e del rifiuto delle essenze. Così il sacro trascendente viene trasformato nel poetico immanenziale dell’uomo.
Il principio della creatività, per una liturgia «più viva e partecipata», produce due effetti. Primo, muta l’azione sacra in dramma teatrico. Secondo, trasforma in privata l’azione del celebrante che ha invece sempre carattere pubblico e sociale, anche quando è solitaria; così impedisce il consenso e il concento dei partecipanti al culto, che dovrebbe farsi uno sensu ideoque una voce1.

Discorsi come questo forse non si fanno abbastanza, tanto siamo proiettati unicamente nel ‘fare’ materiale – che non va sottovaluto ma neppure assolutizzato – e in un nefasto orizzontalismo che ha accantonato la Trascendenza ed è sconcertante che essi possano sembrare complicati anche per dei sacerdoti; cosa che si deve constatare con doloroso rammarico.
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1. Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX, ed. Lindau, Torino 2009, pag. 563
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Confutazione di alcuni luoghi comuni
sul Rito Romano usus antiquior

Mi sono soffermata su un articolo di Matias Augé che propone una riflessione: “Quale partecipazione alla Liturgia?”, partendo dalla definizione della Sacrosanctum concilium, 26 e formulando una serie di considerazioni sugli ostacoli alla cosiddetta “actuosa participatio”, trattata con maggiori dettagli nel documento di cui al link.
Ciò che oggi ostacola la realizzazione di una siffatta partecipazione alla liturgia è, tra l’altro, il riemergere insistente dell’individualismo(1), da una parte, e/o di un nuovo clericalismo dall’altra parte. Dal versante della comunità cristiana l’individualismo assume i lineamenti di un’assemblea ridotta a massa amorfa, che riduce a stereotipi i comportamenti simbolici e linguistici, incapace di comprendere la dinamica della pluralità dei ministeri e dei compiti nel contesto celebrativo. L’individualismo può portare a considerare la liturgia della Chiesa come la cornice sacrale all’interno della quale esprimere le proprie devozioni. L’individualismo, poi, non è altro che il rovescio della medaglia rappresentato dal clericalismo. Si potrebbe ben dire che una lettura condotta in modo esclusivo nella direzione della sacralità legata alle persone, ai luoghi e agli oggetti, fino a ritenere essi stessi più in funzione del sacro e meno in funzione della santificazione del popolo di Dio, rende, da un lato, i ministri della Chiesa simili allo “stregone del villaggio” e, dall’altro, riduce l’assemblea dei fedeli a spettatrice anonima e passiva.”
Questa analisi mostra dati che potrebbero essere presi in considerazione, ma solo come fenomeni degenerativi e non possono essere genericamente considerati e quindi attribuiti a tutta la realtà considerata:

1. si abbina la perdita di qualità della “partecipazione” a due estremi: “individualismo” e “assemblea ridotta a massa amorfa”.
Innanzitutto cominciamo a considerare l'attuale prevalenza, per contro, del collettivismo e dell’identità di gruppo. Lo dimostra l'enfasi sempre centrata sull'Assemblea, che certamente non è un 'collettivo' usuale, ma che non va dimenticato esser composta da persone, e invece risulta preminente soprattutto nei nuovi movimenti ecclesiali (ciò accade in particolare nelle comunità neocatecumenali), mentre la persona risulta ridotta ad un ingranaggio di qualcosa di più grande dal quale deriverebbe la sua identità, ma che non completa in realtà un sano “processo di individuazione”, che implica anche maturazione psicologica e spirituale.
Se partiamo dall’Evangelico “ Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori ad una ad una… e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce” (Gv 10, 3-4), riconosciamo che un vero cristiano realizza in Cristo e nella vita sacramentale e di Fede – e quindi vive nella quotidianità – la sua creaturalità Redenta, perché preziosa e irripetibile agli occhi del Signore.
Proprio nella sua creaturalità Redenta e orientata al Signore la persona è destinataria della dignità che fonda qualunque riconoscimento dei diritti umani - che riguardano l’individuo-persona e non l’individuo-parte-della-comunità qualunque essa sia - e realizza una ‘individualità’ sana, portatrice di umanità in pienezza e non di ‘individualismo’, che è la degenerazione operata dal centrarsi egoistico dell’individuo su se stesso, frutto del materialismo, dell’edonismo e di tutti gli –ismi di questo nostro tempo confuso e disorientato, compreso il relativismo che è entrato purtroppo a pieno titolo nel linguaggio e quindi anche nella realtà ecclesiale.
Tuttavia, poiché l’uomo è un essere-in-relazione, è ovvio che esiste anche la dimensione comunitaria della sua spiritualità e della sua vita di fede, che nella nostra Fede si dispiega nell’Ecclesìa: Corpo Mistico di Cristo (altro che Assemblea anonima!) e porta i suoi frutti in tutti gli altri ambiti relazionali a livello familiare, sociale, ecc. 

2. si riconduce l’attenzione e lo sguardo alla ‘sacralità’ di persone, luoghi, oggetti ad un ‘assoluto’ che distoglierebbe l’attenzione dalla “santificazione del popolo di Dio”.
È un argomento pretestuoso che non ha alcun fondamento; tant’è che si tratta di una semplice affermazione apodittica che non porta alcun argomento dimostrativo; ergo, non è altro che uno slogan ideologico, così com'è di conio tipicamente conciliare la definizione di sapore veterotestamentario del ‘Popolo di Dio’, più generica, meno identitaria e meno centrata rispetto al ‘Corpo Mistico di Cristo'- Sposo, che è anche la Sua Chiesa-Sposa.

La desacralizzazione, la banalizzazione, l'orizzontalità di gesti parole e atteggiamenti riscontrabile nelle celebrazioni odierne non è meno nemica della santificazione di quanto non lo si attribuisca, assolutizzando, al rispetto e alla cura di 'luoghi', oggetti cultuali o alla venerazione di figure di santi (peraltro venerazione, appunto, ben distinta dalla adorazione dovuta a Dio), ad esempio, dato che si parla anche della sacralità di persone...

3. si riafferma lo ‘stereotipo’ dell’antica liturgia ridotta a “cornice sacrale per esprimere le proprie devozioni”. È il cavallo di battaglia dei novatori quando tirano in ballo, oltre alle vecchiette, la “gente che pregava con propri libri di preghiera”. A prescindere dal fatto che si tratta di dati impropri ed anche improbabili, non sarebbe neppure realistico pensare che l’Assemblea fosse composta unicamente da quelle vecchiette, da gente che pregava per conto suo – persone che comunque si facevano presenti al rito sapendo che vi incontravano il Signore e che cosa vi accade – o soltanto da fedeli analfabeti in sacris, se generazioni di Santi si sono formate vivendo la Liturgia di sempre. Il problema è di tutti i credenti e di tutte le generazioni: è missione altissima del Sacerdote guidare e formare i fedeli alla piena consapevolezza ed attiva partecipazione interiore ed esteriore come fedele dispensatore dei misteri divini.

4. si riduce la partecipazione ad un ‘fare’. L’actuosa participatio promossa e raccomandata anche dal concilio - e prima ancora - non è determinata dal protagonismo dell’Assemblea, ma dal vivere e seguire lo svolgersi del Rito con consapevolezza e con le giuste disposizioni d’animo (apertura di cuore, atteggiamento di accoglienza e gratitudine, stato di grazia conservato o riacquistato…).

Il valore pedagogico e catechetico dell’Eucaristia non è solo in quello che si ascolta e a cui si partecipa, ma anche e soprattutto in quello che accade ad Opera del Signore e che si accoglie nella Fede… Stare, esserci, accogliere: la povertà che si lascia raggiungere ed esprime la sua gratitudine. Necessità dell'essere visitata. Anche lasciarsi attraversare dall'irruzione del Soprannaturale è partecipazione consapevole, attiva, fruttuosa, actuosa participatio.

Innanzitutto, la Liturgia è primaria funzione della Chiesa nell'esercizio dello ius divinum del culto da rendere a Dio. La Liturgia infatti non è il luogo della catechesi, cui sono destinati altri momenti specifici, è ‘luogo’ che parla e opera già da sé: celebrando il sacro rito le persone sono portate ad un atto di preghiera e non ad un atto umano; invece nel Novus Ordo si crea un cerchio orizzontale di persone che si parlano addosso e si è persa la verticalità, la soprannaturalità, ignorando che nella liturgia c’è un linguaggio che introduce al mistero e ci sono anche i “sacri silenzi”… come pure i “bisbigli”. Il sacerdote sussurra per dire l’indicibile.

Parlare di consapevolezza, vuol dire presenza sia della dimensione intellettiva che di quella spirituale, entrambe caratterizzanti l'essere umano discretamente evoluto. Ma davvero ‘fare’ è soltanto quello che si compie materialmente? In realtà è più presente la dimensione del Mistero, quella del silenzio,  dell’Adorazione… 

Non si vorrà sostenere che nel vivere consapevolmente e profondamente queste dimensioni, rapportate al momento e all’atto liturgico che si compie, c’è solo ‘passività’! Forse nel mio intimo accadono molte più cose - e non sto parlando in termini spiritualisti o intimistici, ma dico quello che davvero succede - che poi si traducono in vita… perché ci sono momenti così intensamente vissuti alla Presenza del  Signore che quello che sei: difficoltà, problemi, resistenze, doni e altro… di una persona-in-relazione, ti si svelano e non possono rimanere gli stessi se ti esponi all’azione dello Spirito, che coinvolge te e nello stesso tempo l’Assemblea di cui fai parte, che oltretutto non ha confini, perché si estende alla Chiesa di ieri di oggi e di domani, terrestre e celeste, contemporaneamente…

Se solo si rendessero i fedeli consapevoli di questa realtà, non esisterebbero più Assemblee anonime o tentazioni devozionistiche.

Consideriamo poi anche queste affermazioni successive:
“D’altra parte, il sospetto freudiano, secondo cui le religioni non sarebbero altro che nevrosi collettive coercitive, dovrebbe essere preso in considerazione. La religiosità decaduta ha il carattere di un’azione forzata che si estrinseca nel compimento “religioso” come un “rito”. Questo, però, nell’economia psichica di un essere umano, ha un senso ambiguo, simile a quello della routine nel fenomeno del quotidiano. La ritualizzazione, se si pone in modo assoluto, è un segno di religiosità decaduta.”
Può parlare così solo qualcuno che della nostra Santa e Divina Liturgia di sempre 'vede' solo il "guscio esteriore" e forse neppure quello.

Non dimentichiamoci che Freud e la psicoanalisi sono dei validi sussidi come scienze umane; ma proprio nell'essere scienze umane hanno il loro limite intrinseco; mentre la Fede, pur incarnata nell'umano, ha le Sorgenti nel Soprannaturale. Non si tratta di contrapporre Fede a Ragione: in questo caso a scienze come psicologia e psicoanalisi; ma si afferma la necessità di un giusto equilibrio per non cadere né nel fideismo disincarnato né nello scientismo sterile, ricordando tuttavia come per S. Tommaso, purtroppo defenestrato dai seminari cattolici, la filosofia, salvo quando è ancilla theologiae, “ancella della teologia”, rimane la regina delle scienze. Tutte le altre scienze le sono subordinate.

E la nostra Fede – che è in Una Persona, la Persona del Risorto – ci dona una loghikè latrèia, un culto logico, perfettamente comprensibile e spiegabile anche con la Ragione... anche se la Fede ci porta oltre... ma Fede e Ragione non vanno mai separate, altro che "nevrosi collettive coercitive"!

Resta inspiegabile come qualcosa che provocherebbe “nevrosi collettive coercitive“, abbia invece l'effetto di trasformare, eliminandole, vere e proprie 'coazioni a ripetere' come i peccati più radicati. Se ad orecchie moderniste può dar fastidio la parola 'peccato' - che invece va ritrovata soprattutto nella sua connotazione di offesa a Dio - chiamiamoli vistose 'distorsioni della personalità', che inducono a commettere errori che dispiegano conseguenze sia sulla persona che sulla realtà che la circonda e che un credente sa quanto lo allontanino dal Signore da se stesso e dagli altri, se non adeguatamente 'vinte' con il Suo aiuto.

Ebbene, se può accadere concretamente tutto questo e si tratta di una realtà intrinseca al rito, com’è possibile cavarsela col ridurre tutto a “nevrosi” di qualunque genere? Ricordiamo che in più occasioni Benedetto XVI, forse la più illustre vittima di tale tipo di nevrosi, ha chiamato “trasformazione“ uno degli effetti del Rito, consolidato dalla preghiera e dalla vita di fede personale e comunitaria. 

Si tratta, lo ribadisco con vigore, della Paolina 'Configurazione' a Cristo, che è ciò che caratterizza ontologicamente l'essere e l'“esserci“ su questo mondo di ogni cristiano e che il cattolicesimo custodisce come proprio fondamento identitario.

Come potrebbe questa realtà – che rientra nelle serie dei 'fenomeni' misurabili, almeno per quanto può essere nel tempo verificato in ragione del mutato comportamento delle persone che ne portano l'effetto – venire attribuita a « ministri della Chiesa simili allo “stregone del villaggio”, che riduce l’assemblea dei fedeli a spettatrice anonima e passiva », dal momento che non è al Sacerdote che si fa riferimento, ma al Signore e l’Assemblea non è solo una realtà collettiva ma è composta da individui: 'pietre vive', li chiama Pietro? E non dimentichiamoci che essi, sia personalmente che comunitariamente unum con il sacerdote, partecipano e vivono un culto autentico che implica un rapporto intimo e profondo col vero Celebrante, Cristo Gesù Signore, che era è e viene sempre ad ogni celebrazione. È alla Sua Persona - che appartiene all'Ordine Soprannaturale perché è il Verbo Incarnato-Dio, proprio in virtù dell'Incarnazione strettamente e indissolubilmente intrecciata alla nostra umanità - che essi aderiscono. Ed è l'effetto del Suo Sacrificio, purtroppo da molti ridotto ad un 'mito', al pari della Sua Risurrezione, a riversare su sacerdote e fedeli presenti (nonché sulla Chiesa intera: militante, trionfante e purgante, di ogni luogo e di ogni tempo, presente e non) i beni escatologici che il Signore ci ha promesso nel Suo 'rimanere con noi' fino alla fine dei tempi. Questa è la nostra fede, che diventa vita quotidiana e rende veramente umane e vitali le esperienze le relazioni e le situazioni che la Provvidenza mette sulla nostra strada. 

Viceversa è ormai normale rimanere luteranamente inesorabilmente peccatori, tanto il Signore salva tutti a prescindere dalla risposta alla Sua Grazia Santificante, che non si sa neppure più cos’è…
Nel contempo mi chiedo come possa ritenersi ‘passiva’ un’Assemblea che sia individualmente che comunitariamente si fa presente a ciò che accade nel rito con cuore ed intelletto aperti, desti, consapevoli e, in Cristo, cioè nel Figlio Diletto, accoglie, esprime gratitudine commozione gioia, adora, loda e benedice, supplica, intercede, offre la sua vita con tutta la ricchezza dei suoi orizzonti interiori ed esteriori, con le sue valli (imperfezioni) da colmare e colline (presunzione, superbia) da abbattere, con i suoi limiti accettati e eventualmente superati se e quando è volontà di Dio, con i suoi talenti al servizio di tutti, con le sue gioie dolori attese speranze che non riguardano solo la singola persona, ma il ricco fecondo intreccio di relazioni a tutti i livelli, che vedo a cerchi concentrici allargarsi oltre i confini dell'evento puntuale, fino all’infinito e sconosciuto orizzonte dello spazio e del tempo e oltre, nella ‘vita eterna’ che già e non ancora comincia qui! E tutto questo acquista senso e valore solo ed esclusivamente nel Sacrificio di Cristo, ché questo è la Messa.

Chi non sa di cosa sta parlando sarebbe più conveniente che tacesse, non tanto per il vuoto insito nella evidente superficiale arrogante e mistificatoria ignoranza dei fondamenti della Fede cattolica, quanto perché sta calpestando in maniera brutale e grossolana "cose Sacre".

Perché nella Tradizione, che noi amiamo e custodiamo, non si dà affatto il caso, posto come più che un’ipotesi, secondo l’affermazione che «la ritualizzazione, se si pone in modo assoluto, è un segno di religiosità decaduta». Infatti niente, neppure il Rito, è un ‘assoluto’: esso è un dono prezioso – il cui nucleo risiede nell’Ultima Cena e la cui attuale ‘forma’ che racchiude una ‘sostanza’ impareggiabile, è frutto della Rivelazione Apostolica trasmessa nei secoli e arricchita dalle esperienze di fede di  generazioni di credenti – e, proprio in quanto tale va vissuto, custodito, difeso e trasmesso; semmai vedrei «religiosità decaduta» nell’ostinata pertinace orizzontalità che pone l’uomo e l’Assemblea al centro di tutto e diviene pensiero ritualità e azione antropocentrica anziché Cristocentrica. Ed è per questo che possiamo constatare che essa è ben lontana dal santificare qualcuno. 

Infine, altro segno di ideologia malsana è vedere l'individualismo come rovescio della medaglia del ‘clericalismo’. Circa l'individualismo ho espresso ampie considerazioni nel precedente punto 1).

Quanto all'asserito clericalismo, si sta invece assistendo purtroppo alla svalutazione del sacerdozio ordinato - le cui coordinate anche misteriche sono così ben indicate e ripetute da Benedetto XVI in seguito alla non casuale indizione dell’Anno Sacerdotale - che nulla toglie al sacerdozio battesimale dei fedeli, che differisce da quello ordinato non solo di grado ma anche di essenza e deve essere vissuto per quello che è, dal Popolo di Dio che è innanzitutto Corpo di Cristo, cerchiamo di non dimenticarlo, altrimenti ricadiamo nelle categorie e suggestioni veterotestamentarie che il Signore - e noi con lui - ha portato e porta a compimento. Del resto, basta richiamarsi al Concilio Vaticano II. 
«I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni hanno poi anche un fine pedagogico... Conferiscono certamente la grazia, ma la loro stessa celebrazione dispone molto bene i fedeli a riceverla con frutto, ad onorare Dio in modo debito e ad esercitare la carità» (Sacrosanctum Concilium, 59).
Giova ripetere che è missione altissima del Sacerdote guidare e formare i fedeli alla piena   consapevolezza ed attiva partecipazione interiore ed esteriore come fedele dispensatore dei misteri divini, esercitando in pienezza il ‘Triplice Munus’: Docendi, Regendi e Sanctificandi.

Sarà bene ricordare cosa pensava Giovanni Paolo II del Sacerdozio. La citazione è tratta dal Discorso ai sacerdoti delle Comunità neocatecumenali, Lunedì 9 dicembre 1985:
«La prima esigenza che vi s’impone è di sapere mantener fede, all’interno delle Comunità, alla vostra identità sacerdotale.
In virtù della sacra Ordinazione voi siete stati segnati con uno speciale carattere che vi configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in suo nome (cf. Presbyterorum ordinis, 2). Il ministro sacro quindi dovrà essere accolto non solo come fratello che condivide il cammino della Comunità stessa, ma soprattutto come colui che, agendo “in persona Christi”, porta in sé la responsabilità insostituibile di Maestro, Santificatore e Guida delle anime, responsabilità a cui non può in nessun modo rinunciare. I laici devono poter cogliere queste realtà dal comportamento responsabile che voi mantenete. Sarebbe un’illusione credere di servire il Vangelo, diluendo il vostro carisma in un falso senso di umiltà o in una malintesa manifestazione di fraternità. Ripeterò quanto già ebbi occasione di dire agli assistenti ecclesiastici delle associazioni internazionali cattoliche: “Non lasciatevi ingannare! La Chiesa vi vuole sacerdoti, e i laici che incontrate vi vogliono sacerdoti e niente altro che sacerdoti. La confusione dei carismi impoverisce la Chiesa, non la arricchisce”».
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1. Ciò è in sintonia, in particolare, con gli sviluppi della teologia di Odo Casel e del movimento liturgico dell'epoca che vede nell'"Ecclesia come convocazione di una Assemblea viva" il superamento dell'individualismo liberale ottocentesco e la riscoperta del mistero della Chiesa. Molto rivelatrice la seguente affermazione di Casel : "Così l'intera Chiesa e tutti i suoi ordini hanno collaborato all'adornamento liturgico del mistero, ciascuno a proprio modo, secondo il proprio carisma, tutti basati sul fondamento della propria interiore partecipazione alla liturgia misterica [...] da ciò deriva che la Chiesa tutta quanta, e non soltanto il clero, deve partecipare attivamente alla liturgia. Ciascuno conformemente al sacro ordinamento, nel grado e nella misura per lui stabiliti, al posto a lui assegnato. Tutte le membra sono collegate in modo fisico-sacramentale con il capo che è Cristo. Ogni credente, a motivo del carattere sacramentale ricevuto con il Battesimo e con la Cresima, prende parte al sacerdozio di Cristo". Ma ciò, che è cosa buona e giusta, nelle applicazioni concrete ha portato ad enfatizzare il sacerdozio battesimale del credente - ben distinto sia per grado che per essenza da quello ordinato (Lumen Gentium 10) - e la focalizzazione dell'attenzione sulla comunità e dunque sull'Assemblea. Il che è avvenuto anche per superare la devozione individuale (vedendone solo l'aspetto individualista e non anche la dimensione comunitaria) di cui si dà arbitrariamente per scontata la degenerazione in devozionismo. Ciò, nelle conseguenze applicate, è avvenuto a discapito della Comunione dei Santi e della dimensione metafisica, come se il fedele che non abbia accesso ad una dimensione comunitaria concreta - nel senso attuale di comunità di base o in un movimento - non possa vivere una vera esperienza di fede. Per recuperare la fede viva (e non intellettuale) e la devozione autentica nonché il valore del sacerdozio battesimale, non c'era bisogno di sovvertire la liturgia; sarebbe bastata un'efficace catechesi. Il problema è che è cambiata l'ecclesiologia e la teologia che la sottende, per effetto dell'orizzontalismo antropocentrico, che ha spostato il "centro" dell'azione cultuale da Dio all'uomo ed alla fine il senso del mistero lo ha perso.

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