lunedì 10 marzo 2025

La falsa dignità. Riflessioni su un volume che demolisce l’equivoca ideologia della “dignità dell’uomo”.

Paolo Pasqualucci si era accinto a recensire il libro La dignité humaine. Heurs et malheurs d’un concept maltraité. Sous la direction de Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Ed. Pierre-Guillaume de Roux, 2020. L'impresa, strada facendo, si è rivelata più impegnativa del previsto e il risultato è un lavoro di circa 300 pagine. Ne pubblico l'inizio e la fine, per agevolarne la presa d'atto: le parti qui riprese danno già un'idea chiara e netta della tematica. Dunque di seguito trovate: Titolo e Sommario, molto denso + Introduzione (con un importante brano di Kant incluso e relativo commento critico) + Conclusione e relative note.
Per chi vuole approfondire aggiungo il testo integrale in pdf consultabile e/o scaricabile qui.

Paolo Pasqualucci
La falsa dignità. Riflessioni su un volume che demolisce l’equivoca ideologia della “dignità dell’uomo”.

S o m m a r i o : 1. Introduzione: i cinque temi oggetto del presente saggio. 2. La dignità della persona: qualità da intendersi sempre in rapporto alla nostra natura razionale. 2.1 La dignità dell’uomo fondata sulla libera scelta razionale per “aspirare alle cose celesti”: Pico della Mirandola e Giannozzo Manetti. 3. La dignità umana secondo la teologia cattolica ortodossa. 4. La “mutazione” della nozione cattolica di “dignità dell’uomo” provocata dal cattolicesimo liberale e dall’americanismo --- Maritain e Murray SI: 4.1 La percezione della decadenza della Nazione, nella Francia del Primo Dopoguerra. 4.2 La sagra degli umanesimi fabbricati a tavolino, da quello “integrale” di Maritain a quello “marxista”, costruito sui manoscritti giovanili di Marx, scoperti negli anni Trenta. 4.3 L’indebita esaltazione della “antropologia” marxiana. 4.4 Il mito dell’ideologia marxista capace di costituire il rimedio per “l’alienazione” dello homo oeconomicus della società citalista. 5. John C. Murray SI innesta sull’ errore “americanista” l’umanesimo integrale ovvero la democrazia “personalista” di tipo americano. 6. Il “clericalismo” emerso dal Concilio Vaticano II ha propugnato l’idea non cattolica di uno Stato neutrale rispetto ai valori fondamentali, in nome della “dignità dell’uomo”: 6.1 Lo Stato fascista più cattolico della laica Repubblica democratica, largamente condivisa dalle forze cattoliche: l’educazione di massa della gioventù dal “culto della Patria” al “culto della Persona” al tracollo del Sessantotto; 6.2 L’ambiguo compromesso del Concilio con il principio laico della coscienza unica fonte della moralità: 6.2.1 La contraddizione dell’art. 16 di ‘Gaudium et spes’, che fa affiorare un concetto evolutivo della verità, la cui ricerca è condizionata dal rispetto della “dignità umana” intesa come valore assoluto. 6.2.2 Applicazioni nei testi stessi del Concilio del concetto della verità come ricerca della verità. 7. Come l’idea della “dignità dell’uomo”, diventata il valore supremo nei sistemi giuridici occidentale, sia stata applicata in modo anomalo e si sia rivelata inane nella difesa dei princìpi etici fondamentali, venendo anzi usata per distruggerli. 8. Conclusione: la dignità non appartiene all’essenza, all’essere dell’uomo ma al suo m o d o di essere --- è una qualità del nostro comportamento, che ci merita rispetto quando è d e g n o della nostra natura razionale, rimproveri e disprezzo quando i n d e g n o .
1. Introduzione: i cinque temi oggetto del presente saggio.
Che la “dignità dell’uomo” sia ridotta oggi ad uno pseudo-concetto buono a tutti gli usi, si ricava senza ombra di dubbio dalle precise e sottili analisi contenute in questo recentissimo, denso volume collettaneo apparso recentemente in francese: La dignità dell’ uomo. Fatti e misfatti di un concetto bistrattato.[1] Il volume contiene sette saggi, preceduti da una Presentazione e seguiti da una Conclusione generale, entrambe ad opera dei tre curatori.

Nella Presentazione, dopo aver ricordato che “la dignità dell’ uomo o della persona umana” è diventata concetto che gode, dalla fine della II g.m., di un consenso addirittura “debordante”, essi rilevano in primo luogo che tale concetto si è originato sia “dalla filosofia d’ ispirazione greco-latina che dalla teologia cristiana”. Tuttavia, nel senso nel quale è laicamente inteso oggi “non designa la medesima realtà del suo antesignano”. Si deve anzi dire che il rapporto tra “dignità in senso moderno” e “dignità in senso cristiano” è diventato “equivoco” perché inteso come se esprimesse per entrambi un identico giudizio di valore. Infatti, dopo il Concilio Vaticano II è sembrato che la Chiesa e il mondo laico parlassero lo stesso linguaggio, proprio a causa dell’ uso in comune di termini quali “dignità dell’ uomo”. Ciò ha realizzato gli auspici e gli sforzi di intellettuali cattolici dal taglio fortemente liberale come Jacques Maritain e il gesuita americano John Courtney Murray, per citare i più rappresentativi. Ci troviamo in realtà di fronte ad un equivoco che occorre dissipare, anche perché l’evoluzione stessa della modernità (in realtà – postillo – la sua discesa nel nichilismo radicale) è stata tale da “render caduchi i tentativi di conciliazione” tra il Sacro e il Profano. Per “uscire dalla confusione” occorre quindi per prima cosa “tornare alle fonti originarie”.[2]

Ciò permetterà di ristabilire la differenza tra il concetto classico e cristiano della dignità umana e quello moderno, primo indispensabile passo per poter ricostruire il concetto stesso su fondamenti sicuri e veritieri. Il volume è diviso in tre parti. Nella prima, intitolata Stato della questione, si espone la nozione classica della dignità, “anteriore alla ‘rivoluzione copernicana’ attuata dalla filosofia moderna, in particolare nella sua formulazione kantiana, tuttora prevalente, anche se la maggioranza non se ne serve per accettare la rivoluzione stessa” (cap. 1, prof. Sylvain Luquet). Si completa poi il quadro ponendosi dal punto di vista della teologia cattolica, “vera chiave di lettura della nozione, sia nella sua accezione classica che in quella moderna” (cap. 2, prof. R.P. Serafino Lanzetta). Un terzo capitolo riflette sinteticamente sulla storia moderna della nozione (cap. 3, prof. Guilhem Golfin).[3]

La seconda parte si intitola Il moltiplicatore cattolico ed è dedicata alla “mutazione” fatta fare alla nozione cattolica di dignità della persona dalle correnti di pensiero personaliste e “americaniste”, rappresentate in particolare da Maritain e J. C. Murray SI: Mutazione della nozione di dignità nel cattolicesimo del XX secolo: il ruolo particolare di Jacques Maritain (cap. 4, prof. Jon Kirwan); Mutazione nella nozione di dignità nel cattolicesimo del XX secolo: l’influenza di John Courtney Murray (cap. 5, prof. Julio Alvear Télles).[4]

La terza parte infine si intitola Aporie di un concetto incerto. Consta anch’ essa di due saggi che mettono efficacemente in rilievo le “contraddizioni e le variazioni” nelle quali si è impantanata oggi l’ invocazione della dignità umana, sia nel discorso ecclesiale che nella normativa giuridica statuale: Modernità e ‘ clericalismo’ : metodologia di una disfatta (cap. 6, prof. Danilo Castellano); La dignità nel diritto positivo: una nozione strumentalizzata (cap. 7, prof. Nicolas Huten).[5]   Segue la “conclusione generale”, nella quale si tirano le somme, proponendo i criteri per una “giusta comprensione della dignità umana”, nozione che deve essere ricostruita, non gettata alle ortiche, come pretenderebbe qualcuno, o perché stanco della confusione che attualmente la circonda o perché, all’opposto, insofferente della pur minima tutela dei più deboli che a volte tale principio riesce ad esercitare (vedi infra, § 8). La “giusta comprensione”, concludono gli autori, è comunque quella che sia capace di ricondurre il principio della “dignità dell’uomo” nell’alveo della autentica nozione cristiana dello stesso.

Approfondirò tre aspetti del tema principale, seguiti da due excursus sul contributo del Concilio alla deriva personalista e sul rapporto tra fascismo e cattolicesimo: 
  1. la differenza, al momento smarrita, tra la concezione autenticamente cattolica della “dignità dell’uomo” e quella laico-democratica attualmente dominante;
  2. La “mutazione” della nozione cattolica di “dignità dell’uomo” causata dal cattolicesimo liberale e dall’americanismo, ovvero il ruolo negativo svolto da Maritain e P. Murray SI. Si tratta di prospettive che credo poco note al pubblico più vasto, particolarmente in Italia.
  3. La “strumentalizzazione” del concetto nel diritto positivo ovvero il suo mancato o improprio uso, in ossequio al “politicamente corretto” dominante, in relazione appunto al principio della “dignità dell’uomo”.
  4. Il compromesso della dottrina della Chiesa con il mondo, la sua secolarizzazione all’insegna di un concetto evolutivo della verità, funzionale alla “dignità dell’uomo” laico-democratica e tipico del pensiero moderno, penetrato nei testi del Vaticano II (§ 6).
  5. Il fatto singolare che lo Stato fascista sia stato formalmente più cattolico della laica Repubblica italiana e abbia tentato di integrare il cattolicesimo nel suo bellicoso culto della Nazione, in particolare mediante l’educazione “totalitaria” della gioventù, alla quale è seguita, dopo la II g.m., l’educazione di massa nell’Azione cattolica, ma all’insegna di un universalismo inquinato dal personalismo di Maritain, con il suo visionario e astratto culto della dignità della persona, naufragata infine l’educazione cattolica (al pari di quella laica) nella rivoluzione studentesca del Sessantotto, data di inizio del tracollo della scuola in Occidente e della stessa gioventù (§ 6.1). 
 * * 
La concezione kantiana della dignità dell’uomo, risultato di una visione etica costruita sul razionalistico imperativo categorico, viene giustamente anche se sinteticamente criticata più volte nel volume. La libertà, per Kant, si realizza soprattutto quando si obbedisce alla legge che ci si è prescritta, quale è appunto la legge della ragione che ci impone di obbedire all’imperativo categorico, il cui comando ci ordina di compiere una determinata azione unicamente perché buona in sé. L’idea che l’uomo, in quanto essere razionale, debba obbedire solamente alla legge che si è prescritta lui stesso, viene tuttavia a Kant da Jean-Jacques Rousseau, che la applica nella sfera politica, nel costruire il modello di uno Stato fondato sul Patto di tutti con tutti, in posizione di assoluta uguaglianza (il Contratto Sociale), e in quella etica, grazie alla coscienza che saprebbe individualmente tradurre nell’osservanza del dovere e della legge morale naturale i sentimenti buoni che l’Essere Supremo avrebbe allocato in ciascuno di noi, immune (si ritiene) dal peccato originale. Non viene dato particolare rilievo in questo volume al ruolo svolto da Rousseau nell’edificazione di un’idea di dignità dell’uomo fondata sulla libera e razionale volontà del soggetto, ragion per cui la vera sua dignità risulterebbe dall’obbedire liberamente alla legge che egli stesso si è prescritta. 

Sia Rousseau che Kant esaltarono l’uomo come libera volontà e cercarono di fondare l’etica in modo da poter prescindere dalla Rivelazione, ossia dal Cristianesimo e, in verità, da ogni prospettiva trascendente, autenticamente religiosa. Ma entrambi, uno di formazione calvinista l’altro luterana, finirono per far dipendere la legge morale dall’intuizione della coscienza individuale, eletta a “giudice infallibile” del vero e del giusto emananti dall’ineffabile Essere Supremo (Rousseau) o dal comando di una ragione, la cui imperatività in campo etico presuppone l’esistenza di Dio quale garante o fondamento di validità di quest’etica: un Dio-idea della ragione, sulla cui effettiva esistenza la ragione però nulla è in grado di dire (agnosticismo kantiano, che inficia la sua costruzione etica).

In un testo dell’ultimo e incompiuto lavoro di Kant il suo agnosticismo emerge con estrema chiarezza. “Un essere che ha potere illimitato su natura e libertà sotto leggi razionali è Dio. Dio, dunque, per il suo concetto è un essere non semplicemente naturale, ma anche morale. Considerato soltanto sotto la prima delle due qualità è creatore del mondo (demiurgus), e onnipotente; sotto la seconda, santo (adorabilis); e tutti i doveri umani sono, al tempo stesso, suoi comandi. Egli è ens summum, summa intelligentia, summum bonum.

Frattanto se quest’idea, prodotto della nostra propria ragione, abbia realtà o sia semplicemente un ente di ragione (ens rationis), par essere ancora un problema; e a noi non rimane che il rapporto morale con codesto soggetto, che è semplicemente problematico, e che lascia sussistere soltanto la formula della conoscenza di tutti i doveri umani come (tanquam) comandi divini, quando l’imperativo categorico del dovere fa risuonare la sua ferrea voce tra tutti gli allettamenti di sirena degli stimoli sensibili, o anche tra i timori che ci minacciano.[6]”

La ragione deve dunque ammettere la legittimità dell’idea di Dio come “ente di ragione”. Non potendo secondo Kant dimostrarne l’esistenza, deve ammettere tuttavia che il “rapporto morale”, l’obbedienza ai comandi dell’imperativo categorico, che ci ordina un’azione perché buona in sé, si giustifica in ultima analisi solo sulla base dell’idea di Dio come garante e in sostanza come se fosse l’ autore di questo rapporto. Ma, osservo, l’idea di questo Dio come garante della morale deve ammettere l’esistenza di Dio e non limitarsi alla pensabilità della sua legittimità in quanto idea, dato che non si comprende come possa essere il fondamento dell’imperativo categorico un Dio che esiste solo come idea della nostra mente ossia unicamente nella nostra mente e quindi come realtà spirituale che è solo umana, allo stesso modo di una qualsiasi rappresentazione della nostra mente. Se siamo costretti ad ammettere che l’idea di Dio come garante della morale implica l’esistenza effettiva di questo Dio, altrimenti non si avrebbe nessuna garanzia concreta in atto, non si vede allora perché questo Dio che esiste effettivamente per garantire la nostra dimensione morale non possa esistere anche come Dio creatore, di noi stessi, del mondo, dell’universo. Se siamo costretti ad ammettere che Dio esiste come autore della nostra dimensione etica, del tutto spirituale, non possiamo separare questo suo predicato da quello dell’onnipotenza, qualità che implica l’ammissione dell’esistenza di un Dio creatore del mondo e dell’uomo, in tutte le sue caratteristiche. La garanzia divina del nostro comportamento morale, esercitandosi in un’azione ineffabile e invisibile, può esser solo il risultato di un operare sovrannaturale di Dio, rinviabile quindi alla sua onnipotenza, caratteristica della sola natura divina e non della natura in senso stretto, tantomeno umana. Ma l’onnipotenza che agisca effettivamente nella nostra mente può esser solo quella di un ente che ha effettiva realtà (sovrannaturale) fuori di noi.

Né Rousseau né Kant individuano la dignità dell’uomo nell’ uomo in quanto tale, alla maniera della Dichiarazione universale dei diritti umani, avutasi nell’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948, a San Francisco --- “art. 1 tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali in dignità e diritti” ---, cioè a prescindere dalla qualità della sua humanitas, come se si potesse togliere al concetto della nostra dignità la caratteristica di essere un valore confermato o negato dalle nostre azioni; come se si potesse ridurla a una nozione solo descrittiva, da attribuirsi a ciascuno di noi per il solo fatto di essere uomini, a prescindere da come ci comportiamo. Anch’essi, come i loro predecessori umanisti, vedono nella libera volontà razionale del soggetto, nella quale si riflette il divino, il modo di essere nel quale si manifesta autenticamente l’umano : tuttavia, il deismo dell’uno e l’agnosticismo dell’altro fanno naufragare la dignità dell’uomo nel sentimentalismo della coscienza narcisisticamente ripiegata su se stessa o nel volontarismo di una ragion pratica priva di un vero ubi consistam trascendente. 

Ma l’approfondimento che questo tema, a mio avviso, meriterebbe, proprio come esempio emblematico sia del fascino che del fallimento del tentativo, tra i più rigorosi, di fondare la morale unicamente sulla presa di coscienza e sulla autocoscienza razionale dell’ individuo scioltosi dal trascendente rappresentato dalla Rivelazione, ci porterebbe troppo lontano. Mi dedicherò, quindi, soprattutto all’analisi dei temi sopra indicati, di per se stessi già piuttosto corposi, come si suol dire. [7]

In relazione alla presente, infinita e sempre grave crisi della Chiesa cattolica, mi sembra necessario e doveroso cercare di render in primo luogo coscienti i fedeli, ignari e frastornati, della differenza tra il concetto classico-cristiano della dignità e quello contemporaneo, antropocentrico, sostanzialmente contraddittorio nelle sue applicazioni, che sfortunatamente sembra di frequente (anche se non sempre) condiviso dalla Gerarchia cattolica attuale, a partire dal Vaticano II. Infatti, vediamo la Gerarchia propugnare in nome della dignità dell’uomo una “libertà religiosa” del tutto simile a quella adottata dal Secolo, fondata sull’indifferenza quanto al contenuto di verità delle singole religioni perché ostile per principio al concetto stesso di Verità Rivelata, di origine divina, e organica ad una concezione sincretistica delle religioni, intese come strumenti per realizzare l’utopia insensata dell’unità del genere umano. Inoltre, ci accorgiamo che in nome della “ dignità della persona” si invocano oggi cose tra loro radicalmente opposte come la luce alle tenebre, quali la tutela della vita dell’ embrione (nel quale è già contenuto tutto l’essere umano come realtà vivente dotata di una sua forma specifica), da parte della Chiesa, di contro al preteso “diritto” della madre di abortire liberamente ossia di agire in totale spregio di quella tutela, sostenuto a spada tratta dal fronte femminista, omosessualista, laicista in generale e avallato, in Occidente, dal diritto positivo delle torbide democrazie di massa attuali. La “libertà” della madre invocata, in nome della sua “dignità” di essere umano contro quella del nascituro, per autorizzarla a farlo abortire, cioè a sopprimerlo! Di fronte a queste allucinanti antitesi, cosa dobbiamo pensare? Che abbiamo a che fare con un concetto valido di “dignità dell’ uomo” in quanto persona o non piuttosto con uno pseudo-concetto perché nozione incapace di ridurre ad unità gli elementi contrapposti ed inconciliabili che vuol ricomprendere? I modi contraddittori, incoerenti, parziali e persino aberranti nei quali è utilizzato oggi il principio della “dignità dell’ uomo” nei vari ordinamenti giuridici occidentali, sono messi analiticamente in luce in particolare nel saggio costituente il cap. 7 dell’ opera, del prof. Nicolas Huter (vedi infra). Ma vediamo come gli Autori ci rispiegano il vero concetto della “dignità dell’ uomo”, muovendo innanzitutto dalla sua origine nel pensiero classico. 
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1. La dignité humaine. Heurs et malheurs d’un concept maltraité. Sous la direction de Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Ed. Pierre-Guillaume de Roux, 2020, 41, rue de Richelieu – 75001 Paris, www.pgderoux.fr, pp. 203, 24 €. Bernard Dumont è il direttore di Catholica, prestigioso trimestrale francese di analisi politica, religiosa, letteraria, estetica, non allineato al “politicamente corretto” dominante; M. Ayuso è professore di diritto costituzionale all’ università pontificia Comillas di Madrid; D. Castellano è professore emerito di filosofia del diritto all’ Università di Udine.
2. La dignitè humaine, pp. 7-8. Una breve recensione di questo volume è apparsa sul numero 147 di Catholica, Printemps 2020, alle pp. 80-90, intitolata: Sur la dignité humaine, ad opera di Cyrille Dounot, professore di storia del diritto e delle istituzioni all’Università di Clermont, in Alvernia, Francia. 
3. Op. cit., p. 9. Sylvain Luquet, La dignité humaine dans la philosophie classique; R.P. Serafino Maria Lanzetta, Mérite et dignité dans la théologie catholique, dans sa continuité et son approfondissement; prof. Guilhelm Golfin, Narcisse sans visage. Le concept de dignité chez les auteurs philosophiques modernes, et son évolutionde Locke, Kant et Hegel jusqu’à nous. 4. Op. cit., p. 10. Jon Kirwan, Mutation de la notion de dignité au sein du catholicisme du XXe siècle: le rôle particulier de Jacques Maritain; Julio Alvear Télles, Mutation de la notion de dignité au sein du catholicisme du XXe siècle: l’influence de John Courtney Murray.
5. Op. cit., ivi. Danilo Castellano, Modernité et “cléricalisme” : méthodologie d’ une défaite; Nicolas Huten, La dignité en droit positif : une notion instrumentalisée.
6. Immanuel Kant, Opus postumum, tr. it. e Introduzione di Vittorio Mathieu, Laterza, Bari, 20042, p. 310. L’opera, inizialmente pubblicata da Zanichelli nel 1963, raccoglie una scelta di diverse redazioni dell’ultima e incompiuta opera di Kant, intitolata: Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica. Nell’edizione delle opere complete di Kant dell’Accademia Prussiana delle Scienze, queste molteplici redazioni occupano due volumi per un totale di 1470 pagine (op. cit., Introduzione, p. 3). 
7. Recentemente è stato autorevolmente riproposto il tentativo di conciliare la kantiana “religione entro i limiti della ragione” con il cristianesimo: Marcello Pera, “Critica della ragion secolare”. La modernità e il cristianesimo di Kant, Le Lettere, Firenze, 2020, pp. 200 (www.lelettere.it). Leggo dalla pubblicità al libro sul trimestrale ‘Nuova Storia Contemporanea’ – Seconda Serie, 3, sett.-dic. 2019, p. 268: “Filosofo cristiano e di profonda fede cristiana”, Kant “tramite la sua interpretazione morale del cristianesimo, si impegnò a provare che fra la ragione e la Scrittura non vi è solamente compatibilità ma unione”. Non ho potuto leggere quest’opera, la segnalo quale recentissima manifestazione di una tendenza colta, quella di un cristianesimo “razionale” accentuante il momento etico, da preservare nonostante la barbarie che sale da ogni lato ormai, che mi sembra meritevole di attenzione, pur non potendone condividere il razionalismo. Secondo me, già usare il termine “cristiano”, venuto di moda dopo il Vaticano II al posto di “cattolico”, dà luogo ad equivoci. Non esistono più da secoli i cristiani tout court: essi sono o cattolici, o luterani, o calvinisti, “ortodossi”, etc. E tra di essi, dal punto di vista dottrinale, non v’è uguaglianza per un vero cattolico, essendo tutti gli altri settatori di scismi ed eresie, nonostante gli elementi in comune conservatisi. 

[...]
8. Conclusione : la dignità non appartiene all’essenza, all’essere dell’uomo ma al suo m o d o di essere --- è una qualità del nostro comportamento, che ci merita rispetto quando è d e g n o della nostra natura razionale, disprezzo e rimprovero quando i n d e g n o . 
Dalla precisa analisi del prof. Huten emerge dunque questo dato sconcertante: 
non solo il principio della dignità si è rivelato incapace di difendere gli autentici valori imponendone il rispetto nella protezione dei deboli ed innocenti; esso ha contribuito alla loro distruzione, avendolo legislatori e Corti usato per legittimare, dal “diritto” ad abortire liberamente in poi, praticamente tutte le deviazioni che stanno dissolvendo il vero matrimonio e ogni etica degna di questo nome.

Che dire di fronte a questa catastrofe?

Nella Conclusion générale del volume, i tre co-autori riprendono, come d’uso, alcuni tra gli spunti offerti dai saggi ivi raccolti, arricchendoli di puntuali sottolineature. Essi invitano a tener ben fermo, innanzitutto, il paradosso che affligge il concetto odierno della dignità dell’uomo:

“Dopo la II g.m. il termine ha invaso il discorso politico, sociale, religioso: ma esso perde ogni significato universale nella misura in cui si cerca di precisarlo.” Tant’è vero che alcuni pensatori propongono di abolirlo, se non lo si “rivisita dai fondamenti”.[246] Di questa situazione apparentemente paradossale, essi ribadiscono giustamente che la responsabilità ricade interamente sul pensiero moderno, sulla sua svolta antropologica, grazie alla quale “l’essere umano non è più definito come immagine del suo Creatore e come essere in possesso della ragione – guida, a sua volta, d’una volontà che lo conduce liberamente di bene in bene verso il Bene ultimo – ma grazie ad una “libertà” fondata sulla dissociazione [déliaison] tra ragione e volontà, sulla ripulsa di ogni soggezione imposta a quest’ultima, sulla sua non-determinazione più assoluta [all’obbedienza].”[247] Non c’è quindi da stupirsi se la definizione della dignità umana di tipo universalista delle Dichiarazioni del 1948, non priva peraltro di ambiguità, come si è visto, e del tutto insufficiente dal punto di vista filosofico, si sia alla fine dissolta in una prassi legislativa e giurisprudenziale “radicalmente soggettivistica”, che di fatto soddisfa i gruppi di potere e gli interessi meglio organizzati e più aggressivi.[248]

Il soggettivismo è la cattiva impostazione filosofica che fa da sfondo a questo regresso nelle leggi e nella giurisprudenza delle Alte Corti. La Conclusione generale ne riassume il principio di base: “nella modernità tardiva, si ritiene buono ciò che io decido esser buono, non si saprebbe che farsene di un giudizio mirante alla verità”.[249] Aggiungo: si tratta appunto di quel concetto della verità come verità dipendente dalla vita sempre in evoluzione, tipico della filosofia dell’azione e dell’esistenzialismo, ma affermatosi di fatto anche nelle concezioni del diritto del primo Novecento con le teorie di taglio sociologico sul “diritto vivente” da contrapporsi al rigido diritto creato dal legislatore; sul diritto che è in primis “esperienza giuridica” plasmata soprattutto dal giudice, come sostenevano i paladini, in gran parte austro-tedeschi, del “movimento del diritto libero” (Freirechtsbewegung). Questa concezione della verità, basata soprattutto sull’esperienza e sulla ricerca, lo si è visto, e in definitiva sull’esperienza della ricerca, da attuarsi anche in comunione con l’intero genere umano, è penetrata anche nell’insegnamento della Chiesa “riformata” dal Concilio (vedi supra § 6.2.1). Tale impostazione finisce col far dipendere ogni verità dall’opinione del soggetto pensante, dall’ Io, venendo per forza di cose ad essere la coscienza del soggetto (il pensiero nella forma della coscienza di sé) l’unico organo capace di cogliere la supposta, continua evoluzione della realtà intesa come fluente ed indeterminata v i t a .

In questo senso il soggettivismo contemporaneo è stato anticipato da Nietzsche, se rileggiamo un suo noto aforisma, nel quale il concetto della legge si dissolve in quello della “mia natura” individuale, l’unica che può stabilire il giusto e l’ingiusto : “nessuna legge può essere sacra per me, se non quella della mia natura; giusto è solo ciò che è in armonia con la mia natura, ingiusto ciò che è contro di essa.”[251] E possiamo dire che l’attuale ideologia della dignità umana si muova nel solco tracciato da Nietzsche, dal momento che, come ha sottolineato il prof. Giovanni Turco, filosofo del diritto, finisce col ridursi ad una pura “autodeterminazione della personalità” che equivale ad una sua “autodistruzione”, in quanto vissuta solo “nell’istante particolare”, quello del momento in cui la nostra volontà si determina ad agire facendo leva unicamente su di sé; occasionalisticamente, vorrei aggiungere, ovvero secondo l’istanza del caso concreto via via mutevole e vario.[252]

La Conclusione generale si interroga, in particolare, sui motivi che possono aver indotto la Chiesa ad adeguarsi “ad una costruzione del pensiero moderno così povera e pericolosa [per la fede]”. Le approfondite analisi cui sono stati sottoposti Maritain, Murray SI, il “clericalismo”(vedi supra) offrono ricco e abbondante materiale dal quale si ricava, in conclusione, che la caduta nella trappola del moderno non si può spiegare solo con l’influenza dell’ambiente, che pur spingeva a soluzioni di compromesso con la filosofia profana. Quest’influenza c’è stata ma il fattore determinante l’ha rappresentato l’azione individuale eversiva di pensatori come Maritain o come Murray, che hanno entrambi creato un modello “ambiguo” di cristianità, adatto appunto al compromesso con i valori del Secolo. Un modello basato sull’equivoco dell’esistenza di “valori comuni”, quali la dignità dell’uomo, tra il cattolicesimo e il Secolo, quando siffatti valori, come è stato dimostrato, non erano e non potevano affatto essere “comuni”.[253]

Maritain, lo si è visto, credeva di poter proporre una “nuova cristianità”, capace di dar vita in forma “profana” ad una versione “analogica” della cristianità “sacrale”. Ma, ribadisce con nettezza la Conclusione, la cristianità “nuova” di Maritain “non è analogica, è equivoca, perché senza un nesso obiettivo con la realtà, trattandosi di una cristianità senza Cristo”. È, osservo, la “cristianità senza Cristo”[254], perché del dialogo con tutte le altre religioni, che sta devastando la Chiesa dal Concilio in poi. L’americanismo, ripreso dal P. Murray e introdotto nell’insegnamento della Chiesa, ha creato l’altro grave fraintendimento di far alla fine ritenere valori cristiani i valori americani di libertà, tolleranza, democrazia, travestendoli da cattolici mediante il principio della dignità umana. Per cui l’insegnamento odierno della Chiesa si ritrova fuori centro (non è cattolico), proponendo, come fa, una “libertà religiosa connessa non all’affermazione della verità del cristianesimo ma come la più alta manifestazione della dignità dell’uomo.”[255]

Certamente, esisteva una “crisi morale latente nei cattolici occidentali, compresi quelli canadesi”: la c.d. “rivoluzione tranquilla” (che avrebbe in pratica scristianizzato il Canada francofono) era già iniziata quando cominciò il Concilio.[356] Bisognerebbe allora insistere, a mio avviso, sull’azione nefasta svolta dal Concilio. Aveva il dovere di esorcizzare gli elementi portanti della crisi sul piano teologico ossia la penetrazione della Nouvelle théologie nella Chiesa, attraverso i suoi molteplici rivoli, e procedere ad una chiara e articolata condanna del marxismo-leninismo, gramscismo incluso, e di altre importanti correnti del pensiero moderno, tutte anticristiane. Le omissioni sono state clamorose. Ma nella Conclusione generale di quest’aspetto non si parla. Infatti, l’azione dei singoli, le tesi eterodosse dei Maritain e dei Murray, echeggiate da tutta la fitta schiera dei teologi in odor di eresia immessi proditoriamente da Giovanni XXIII tra i consultori delle Commissioni conciliari, tutto questo bailamme filosofico-teologico non avrebbe potuto avere gli effetti devastanti che ha avuto, se non ci fosse stata l’azione eversiva svolta dal pastorale Vaticano II: con il peso dell’autorità di un Concilio ecumenico anche se solo pastorale, ha fatto da volano alle correnti ereticali invece di condannarle e disperderle con i dovuti anatemi. E ha fatto da volano soprattutto perché i pontefici allora regnanti, Giovanni XXIII e Paolo VI, si sono resi complici dell’eversione, cosa che si evita sempre di rimarcare.

In definitiva, l’idea della dignità dell’uomo è usata oggi contro l’uomo. Infatti, ribadisce la Conclusione generale, essa è allo stato nient’altro che “uno strumento verbale al servizio delle grandi cause ideologiche della modernità tardiva. Non bisogna dimenticare che, grazie ad uno spettacolare rovesciamento di significato, la “dignità” serve a legittimare e addirittura ad impedire di criticare pubblicamente gli attentati più flagranti all’integrità fisica e morale di innumerevoli esseri umani.” Stiamo assistendo al trionfo del materialismo più radicale, una concezione completamente errata della natura umana, considerata soprattutto ormai come materiale manipolabile, da esperimento, sociale e da laboratorio. Una simile concezione non sa che farsene del principio della “dignità dell’uomo” e qualche voce, particolarmente arrogante, già da tempo si è levata per chiedere di liberarci da un concetto così “stupido”. Infatti, in nome della dignità dell’uomo da salvaguardare, si riesce qualche volta ad impedire le sperimentazioni più estreme e più folli. “Dall’uomo-macchina di La Mettrie, 1748, all’uomo neuronico di Jean-Pierre Changeux, 1983, ed infine al sogno transumanista, abbiamo una grande continuità. Negando l’esistenza stessa della specie, siamo giunti a fabbricare cloni e ibridi: che posto può ancora occupare il concetto della dignità umana?”. Nessuno, a ben vedere. E difatti è stato un professore di Harvard, lo psicologo americano-canadese Steven Pinker a denunciare pubblicamente la supposta “stupidità della dignità”, principio che ostacolerebbe ancora (in qualche sia pur tenue modo) la ricerca scientifica sull’essere umano (cioè la sua indiscriminata manipolazione). 
 * * 
In questa terribile situazione, qual è tuttavia il nostro compito, non solo di cattolici ma di esseri razionali, che si rifiutano di portare il loro cervello all’ammasso del politicamente corretto dominante? Per quanto riguarda questo concetto della dignità dell’uomo, diventato così importante e nello stesso tempo così ambiguo e falso nella sua applicazione, si tratterebbe di rimetterlo sui suoi giusti fondamenti. A questo fine, i saggi qui riportati offrono ampio, validissimo ed organico nutrimento. Ispirandomi alle loro analisi, mi sia permesso di abbozzare una definizione, ancorché provvisoria, del concetto della dignità, con l’auspicio che possa esser utile alla sua ricostruzione.

L’impostazione più aderente al vero sembra essere quella dei Classici: la dignità dell’uomo non può essere intesa in senso ontologico ovvero come l’equivalente dell’essenza dell’uomo, della sua humanitas in quanto tale. Essa appare piuttosto una qualità della nostra personalità, come risulta dal nostro comportamento, che infatti può essere dignitoso o privo di dignità, o addirittura indegno. Nel modo di esprimersi comune, il comportamento dignitoso caratterizza una persona dignitosa. Ma perché è dignitosa, per il solo fatto di esser questa persona un essere umano? Evidentemente no, visto che il giudizio sulla dignità o meno del suo comportamento non è dato a apriori (la cosa non avrebbe senso) ma proviene esplicitamente a posteriori, dal suo stesso comportamento concreto, come risulta al nostro individuale giudizio. Diciamo allora che mostra di avere dignità colui che si comporta in modo dignitoso; che cioè mostra, a seconda delle circostanze, quelle virtù di fierezza, giusto orgoglio, senso dell’onore, uniti a equilibrio, controllo di sé, che concorrono a costituire quella qualità di una persona che chiamiamo dignità. 

Ma qual è il metro, il sistema di riferimento di questo giudizio? Il metro, l’unità di misura, sarà offerto sempre dalla definizione boeziana della persona: “sostanza individuale di natura razionale – individua substantia rationalis naturae.” Dignitoso sarà allora ogni comportamento del soggetto, uomo o donna, che si dimostri conforme alla natura razionale dell’essere umano, natura che lo distingue dall’animale, nei cui confronti il concetto della dignità è ovviamente inapplicabile, allo stesso modo della titolarità di diritti o del dovere di assumere obblighi. Il comportamento dignitoso imporrà il rispetto altrui e possiamo dire, allora, che l’aver dignità è quel nostro modo di essere che ci merita l’altrui rispetto e stima. E ce li fa perdere, quando si rivela indegno perché non conforme a ragione: bizzarro o scorretto, cattivo o addirittura peccaminoso. 

La dignità di acquista o si perde a seconda di come ci si comporta. È una qualità che ci merita rispetto o ce lo fa venir meno, quando manca. Nella concezione classica, di origine aristotelica, l’ ente - l’esistente còlto nella sua individualità di realtà finita – va concepito come rapporto di sostanza e accidenti: tra ciò che fa essere l’ente ciò che è (uomo, animale, piante, pietra…) senza che possa esser altro da sé, e le sue qualità particolari, gli “accidenti”, come dicevano gli Scolastici, che possono variare senza peraltro poter alterare la sostanza, il permanere dell’ente nella sua natura originaria. Pertanto, perdere la propria dignità a causa di un nostro comportamento che si riveli poco dignitoso o indegno, ci toglie il rispetto altrui, perché è venuta meno per colpa nostra quella qualità che ce lo merita, ma non ci può togliere la nostra sostanza, la nostra humanitas. Restiamo sempre individui creati da Dio e quindi dotati di ragione e volontà, capaci di emendarci, di riguadagnare la dignità che avevamo perduto, di godere del rispetto che essa merita. 

Affermare, pertanto, che tutti gli esseri umani, uomini e donne, meritano sempre rispetto a causa di una loro dignità che si suppone ontologica, innata, e quindi in maniera sempre indipendente dal loro comportamento, appare del tutto illogico. Merita sempre rispetto la loro umanità, che possiede sempre le risorse (razionali, morali) per perfezionarsi, se le sa usare, ma non può meritarlo il loro comportamento deviante, quando c’è, che va invece condannato secondo i ben noti canoni della morale naturale e rivelata. L’ evangelico “non giudicate, per non esser giudicati” non è un invito alla neutralità in campo etico, non significa affatto: “rispettate tutti, senza giudicare se fanno il bene o il male”. All’opposto, è sempre stato inteso nel senso di condannare il peccato ma non il peccatore, che va invece ammonito per la sua edificazione, affinché se ne renda conto, si penta e cambi vita. Nel peccatore va sempre rispettata l’umanità, che è la nostra stessa, creata da Dio, ferita ma non distrutta dal peccato originale. Ma non si può rispettare il peccato, in quanto tale. Il peccato, quale esso sia, è sempre una violazione consapevole dell’ordine morale del mondo stabilito da Dio, pertanto non merita rispetto e non può averlo: il regno del peccato è il regno della indignitas.

Per tal motivo, quei chierici, vescovi inclusi, che oggi, pur nel criticare progetti di legge inaccettabili come l’ormai famoso ddl Zan che vuole punire con pesanti pene detentive la c.d. “omotransfobia”[sic] e la “misoginia”[sic] (una legge liberticida, superflua perché le leggi esistenti già proteggono a sufficienza il mondo lgbt da offese e aggressioni; una legge tra i cui intenti dichiarati c’è anche quello di promuovere l’omosessualità nella società con l’aiuto dello Stato, di imporre il rispetto della supposta dignità delle persone omosessuali, in quanto tali); in via preliminare sono soliti affermare, quei chierici, di “provare il massimo rispetto per gli omosessuali”, errano grandemente se, in nome di un concetto per l’appunto ontologico della dignità dell’uomo, ritengono che l’omosessuale vada rispettato in quanto tale. Errano perché, in tal modo, il rispetto dovuto alla persona viene invece inteso come rispetto per il peccato, che la persona in oggetto commette. Non si può provare rispetto per un comportamento peccaminoso, nella fattispecie quello degli omosessuali, che viola gravemente il Sesto Comandamento, e quindi non si potrà rispettare, in nome di una supposta innata dignità dell’uomo inattaccabile dai suoi peccati, l’omosessualità di cui lui/lei faccia mostra. Si dovrà invece condannare questo comportamento come intrinsecamente indegno della natura razionale dell’uomo, che continuiamo d’altro canto a rispettare nell’omosessuale, esortandolo a rinnegare la sua vita di peccato e quindi a riacquistare in tal modo la sua dignità di uomo. 
____________________________________
[246] Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Conclusion générale, in: La dignité humaine, cit., pp. 189-202; p. 189.
[247] Op. cit., p. 190.
[248] Op. cit., p. 191.
[249] Op. cit., ivi.
[250] Più di un secolo fa, il filosofo del diritto Widar Cesarini Sforza, in un breve articolo, faceva acuti paralleli tra il movimento modernista e il “movimento del diritto libero”: ID., Il modernismo giuridico, nella rivista Il Filangieri, 1912, fasc. 5-6. Ora in: Widar Cesarini Sforza, Vecchie e nuove pagine di Filosofia, Storia e dirittoI Filosofia e teoria generale, Giuffré, Milano, 1967, pp. 9-17.
[251] Friedrich Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. Von G. Colli und M. Montinari, Berlin-NewYork 1973, II, p. 567. Nella “natura “ individuale Nietzsche vede, come è noto, solo la totalità degli istinti, una potenza materiale che esprime nella parte la totalità della forza che costituisce il Tutto cosmico. Il naturalismo di Nietzsche è pre-einsteiniano nel senso che fa già vedere quella dissoluzione dell’oggetto (e quindi del soggetto) in un fascio di forze, che Einstein cercherà di legittimare dal punto di vista dell’immagine fisica del mondo, con l’idea che l’oggetto non sia altro che una variazione di densità nell’energia costituente le forze di campo (idea che, per Einstein, poteva rappresentare la base di una nuova visione filosofica della realtà.)
[252] Conclusion générale, cit., pp. 193-194.
[253] Op. cit., pp. 195-199.
[254] Op. cit., p. 196.
[255] Op. cit., p. 198.
[256] Op. cit., p. 197.
[257] Op. cit., p. 200.

domenica 9 marzo 2025

Cosa spinge Papa Francesco a cercare di normalizzare certe relazioni?

Nella nostra traduzione da Lifesitenews una forte e dettagliata denuncia del Dr. Gerard van den Aardweg — autorevole psicoterapeuta olandese di fama internazionale [vedi nel blog] — sulla pervicacia, quasi ossessiva, nel voler “normalizzare” l’omosessualità da parte del Papa, spiegata in termini psichiatrici, sottolineando anche la denigrazione dei valori familiari tradizionali. Qui l'indice degli articoli sulle ambiguità di Bergoglio su questo tema. 

Cosa spinge Papa Francesco a cercare di normalizzare le relazioni omosessuali?
Dr. Gerard J.M. van den Aardweg

L'autorevole psicologo Dr. Gerard van den Aardweg sostiene che la fervida promozione da parte di Papa Francesco dell’idea secondo cui l’omosessualità sarebbe innata e moralmente accettabile denigra i valori familiari tradizionali e suggerisce un intimo allineamento con l’ideologia pro-gay
Nota dell'editore: Il Dr. Gerard J.M. van den Aardweg è un veterano cattolico della pratica psicoterapeutica dal 1962. Ha conseguito un master in psicologia presso l’Università di Leiden, Olanda, e un dottorato di ricerca in scienze sociali presso l’Università di Amsterdam, dove si è specializzato in omosessualità e pedofilia omosessuale come nevrosi sessuali. Il Dr. Aardweg ha svolto ricerche e scritto ampiamente sull’omosessualità, con tre dei suoi libri tradotti in inglese: Homosessuality and Hope [Omosessualità e speranza] (1985); On the Origins and Treatment of Homosexuality [Sulle origini dell’omosessualità e sulle sue cure] (1986); e The Battle for Normality [La battaglia per la normalità] (1997).
Cosa spinge Papa Francesco a cercare di normalizzare le relazioni omosessuali?
Questa domanda ronza nella mente di molte persone confuse e perplesse, cattoliche e non cattoliche. Deve essere dibattuta apertamente, perché la gente ha il diritto di sapere chi siano i loro leader e cosa ci si possa aspettare da loro. La risposta è importante anche in vista del prossimo conclave, perché potrebbe influenzare la scelta del successore di questo papa.

sabato 8 marzo 2025

Adoro Te devote

«Adoro te devote»
san Tommaso d'Aquino

Uno dei cinque inni eucaristici scritti in occasione dell'introduzione della solennità del Corpus Domini nel 1264 su commissione di papa Urbano IV. Fu inserito nel Messale Romano del 1570, da papa Pio V. Viene utilizzato durante le adorazioni eucaristiche e nelle preghiere di ringraziamento al termine della S. Messa.


Adoro te devote, latens Deitas,
Quæ sub his figuris vere latitas;
Tibi se cor meum totum subjicit,
Quia te contemplans totum deficit.
Visus, tactus, gustus in te fallitur,
Sed auditu solo tuto creditur.
Credo quidquid dixit Dei Filius;
Nil hoc verbo veritátis verius.
In cruce latebat sola Deitas,
At hic latet simul et Humanitas,
Ambo tamen credens atque confitens,
Peto quod petivit latro pœnitens.
Plagas, sicut Thomas, non intueor:
Deum tamen meum te confiteor.
Fac me tibi semper magis credere,
In te spem habere, te diligere.
O memoriale mortis Domini!
Panis vivus, vitam præstans homini!
Præsta meæ menti de te vívere,
Et te illi semper dulce sapere.
Pie Pelicane, Jesu Domine,
Me immundum munda tuo sanguine:
Cujus una stilla salvum facere
Totum mundum quit ab omni scelere.
Jesu, quem velatum nunc aspicio,
Oro, fiat illud quod tam sitio:
Ut te revelata cernens facie,
Visu sim beátus tuæ gloriæ. Amen

Adoro Te devotamente, Dio che Ti nascondi,
Che sotto queste apparenze davvero Ti celi:
A te tutto il mio cuore si abbandona,
Perché, contemplandoTi, tutto vien meno.
La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano
Ma solo con l'udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,
Nulla è più vero di questa parola di verità.
Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l'umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente.
Le piaghe, come Tommaso, non vedo,
Tuttavia confesso Te mio Dio.
Fammi credere sempre più in Te,
Che in Te io abbia speranza, che io Ti ami.
 Oh memoriale della morte del Signore,
Pane vivo, che dai vita all'uomo,
Concedi al mio spirito di vivere di Te,
E di gustarTi così sempre dolcemente.
Oh pio Pellicano*, Signore Gesù,
Purifica me, immondo, col tuo sangue,
Del quale una sola goccia può salvare
Il mondo intero da ogni peccato.
 Oh Gesù, che velato ora ammiro,
Prego che avvenga ciò che tanto bramo,
Che, contemplandoTi nel volto rivelato,
A tal visione io sia beato della tua gloria. Così sia.
* Simbolismo eucaristico del pellicano 

Secondo una leggenda che risale al Medioevo il pellicano (dotato di un largo becco nel quale custodisce i pesci per i suoi piccoli), in tempi di magra, alimentava i suoi figlioletti col sangue tratto dal suo stesso petto. Un tale ammirevole comportamento ha portato a mettere in relazione quest’uccello con Nostro Signore Gesù Cristo, il quale offre il suo stesso Corpo nell’Eucaristia per alimentarci.  Già agli albori del V secolo, San Girolamo si avvalse di questo significato simbolico commentando il versetto 7 del Salmo 101: “Assomiglio al pellicano del deserto, sono come il gufo tra le rovine”. Secoli dopo, esso ha ispirato una delle più belle strofe dell’inno Adoro te devote, nel quale San Tommaso d’Aquino esclama: “Pie pellicane, Iesu Domine, me immundum munda tuo sanguine. Cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere – Signore Gesù, tenero pellicano, lavami, me immondo, col tuo Sangue del quale una sola goccia già può salvare il mondo da tutti i peccati”. Il simbolismo eucaristico di quest’uccello si trova anche in numerose opere d’arte: sculture, pitture e persino in testi letterari, come quello della Divina Commedia (Paradiso canto XXV, 112-114)): il “nostro Pellicano” come lo chiama Dante quando si riferisce all’apostolo Giovanni: «Questi è colui che giacque sopra ’l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto».

Giovanni XXIII e i prodromi delle deviazioni operate dal Vaticano II.

Giovanni XXIII e i prodromi
delle deviazioni operate dal Vaticano II.


Il documento che segue conferma l'affermazione vaga di un lettore. Lo dobbiamo al diligente oltre che sapiente impegno di Paolo Pasqualucci; il che segna uno degli esempi più significativi della continuità e contiguità del nostro percorso di condivisione e di approfondimento sulla realtà ecclesiale che siamo chiamati a vivere. Dopo la lettera di Roncalli, preceduta dalla comunicazione che l'accompagna, pubblico quanto evidenziato dallo stesso Pasqualucci nella sua Sinossi degli errori imputati al Concilio Vaticano II, Editrice Ichthys, 2012 (pagg. 7-12) sulla Gaudet Mater Ecclesia, la famosa Allocuzione di apertura del concilio, che contiene i prodromi di quanto era già penetrato nella Chiesa attraverso il modernismo che diversi elementi confermano appartenere alle corde di colui che, forse non a caso, scelse il nome dell'ultimo papa conciliarista1... 
Cara Maria,
 Nell'intervento successivo al mio [il quart'ultimo nella discussione in questo articolo] sulla questione dell'attesa per il 2017, di questa mattina, "Cattolico" menziona in modo vago il rifiuto di Roncalli nei confronti di un bulgaro che voleva convertirsi. La lettera che documenta l'episodio fu pubblicata anni fa da Repubblica, cui l'aveva data mons. Loris Capovilla. Essa dimostra che il rifiuto di convertire viene da lontano e che c'è continuità fra gli errori del recente passato e del presente. Siccome me l'ero a suo tempo ricopiata, ho pensato questo. Invece di inserirla io in una risposta integrativa a "Cattolico", perché non la pubblichi con il dovuto rilievo nel blog, richiamandoti alla sua attualità? Purtroppo, è attualissima. Fanno spavento soprattutto le parole finali, da me messe in corsivo, il cui concetto ritroviamo in tutta l'azione di Roncalli e nella celebre Allocuzione di apertura del Concilio. Te la invio qui in allegato.
Lettera di A. Roncalli, 1926
Mio caro amico,
La sua lettera del 24 corrente mi rivela i suoi buoni sentimenti ed i desideri di mettere la sua vita a servizio del Signore.  Di ciò mi compiaccio.  Ella però è male informato circa gli scopi della mia visita in Bulgaria.  Il Santo Padre mi ha mandato qui per cooperare alla ristorazione della povera Chiesa cattolica di rito orientale in questo paese, costituita per lo più da poveri rifugiati della Tracia e della Macedonia, e per aiutare in generale i cattolici di rito orientale e di rito latino in Bulgaria.
Una volta mi accadde di raccomandare per un istituto di carità di Torino un giovane orfano alunno del Seminario di Sofia.  Ma non mi sono mai interessato di altro.  Sono in verità molti i giovani, specialmente allievi dei Seminari ortodossi in Bulgaria, in Romania, in Jugoslavia, in Russi, che domandano di essere accolti dal Santo Padre nei Seminari di Roma.  Ma finora non fu presa alcuna decisione:  e credo che nessuna decisione si prenderà se non previe intelligenze col Santo Sinodo delle Chiese ortodosse nei vari paesi e coi Governi rispettivi. 
Io non mi trovo quindi in condizione di corrispondere ai suoi desideri, mio caro amico. Poiché però ella me ne dà l’occasione lasci che io la inviti, come ho sempre fatto con tutti i giovani ortodossi che ebbi il bene di incontrare in Bulgaria, ad approfittare degli studi e della educazione che ella riceve nel Seminario di Sofia.  I cattolici e gli ortodossi non sono dei nemici, ma dei fratelli.  Abbiamo la stessa fede, partecipiamo agli stessi sacramenti, soprattutto alla medesima Eucaristia.  Ci separano alcuni malintesi intorno alla costituzione divina della Chiesa di Gesù Cristo.  Coloro che furono causa di questi malintesi sono morti da secoli.  Lasciamo le antiche contese, e, ciascuno nel suo campo, lavoriamo a rendere buoni i nostri fratelli, offrendo loro i nostri buoni esempi.  Ella apprenderà al Seminario molte cose, soprattutto l’amor di Gesù, lo spirito di apostolato e di sacrificio.  Più tardi, benché partiti da vie diverse ci si incontrerà nella unione delle Chiese per formare tutte insieme la vera ed unica chiesa di N.S. Gesù Cristo.
Questo è ciò che posso dirle:  che ho detto a parecchi altri bravi giovani bulgari.  Mi dispiace di non poterle aggiungere altro, in conformità ai suoi desideri.  Teniamoci uniti colla preghiera, nel Signore.  Io le auguro di cuore ogni bene ed ogni letizia.
Devotissimo suo
Angelo Gius. Roncalli
[La lettera fu passata da mons. Loris Capovilla al giornale quotidiano di sinistra “La Repubblica”, che la pubblicò in esclusiva il giorno  27 ottobre 1996.  Corsivi del relatore non dell’autore.]
* * * *

Errori nell'Allocuzione di apertura e nel Messaggio al mondo
Paolo Pasqualucci, Sinossi degli errori imputati al Concilio Vaticano II, Editrice Ichthys, 2012 (pagg. 7-12)

Non pretendiamo che la nostra sinossi degli errori imputati al Vaticano II sia completa, tuttavia ci sembra di aver individuato un numero sufficiente di errori im­portanti, cominciando in via preliminare da quelli con­tenuti nell'allocuzione di apertura e nel messaggio del concilio al mondo del 20 ottobre 1962, testi che, pur non appartenendo formalmente al Concilio, l'hanno tuttavia indirizzato nel senso voluto dall'ala progressi­sta, cioè dai Novatori neo-modernisti.

Allocuzione di apertura
Il celebre discorso di apertura di Giovanni XXIII, ol­tre a diverse profezie clamorosamente smentite dai fatti ("la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani che... si svolgono verso il compimen­to di disegni superiori e inattesi"), contiene tre veri e propri errori di dottrina.

1° errore: una concezione mutila del Magistero.
È contenuta nell'incredibile affermazione, riecheggia­ta da Paolo VI nel discorso di apertura della 2a sessione del Concilio il 29 settembre 1963, secondo la quale la Santa Chiesa rinuncia a condannare gli errori: "Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori [le false opinioni degli uomini - ndr]: spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora, tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne".
Con questa rinuncia ad usare la propria autorità (che viene da Dio) per difendere il deposito della fede ed aiutare le anime con la condanna dell'errore che ne insidia l'eterna salute, Papa Roncalli veniva meno ai suoi doveri di Vicario di Cristo. La condanna dell'erro­re, infatti, è essenziale al mantenimento del deposito della fede (che è il primo dovere del Pontefice), dal mo­mento che essa conferma a fortiori la sana dottrina, di­mostrandone l'efficacia con una puntuale applicazione. Inoltre, la condanna dell'errore è necessaria dal punto di vista pastorale perché sorregge i fedeli, sia i colti che i meno colti, con l'autorità ineguagliabile del Magistero, della quale essi possono rivestirsi per difendersi dal­l'errore, la cui "logica" è sempre più astuta e più sottile della loro. Non solo: la condanna dell'errore può indur­re l'errante al ripensamento, mettendolo di fronte alla vera sostanza del suo pensiero: come è stato detto, la condanna dell'errore è ex sese opera di misericordia.
Sostenere che questa condanna non debba più aver luogo, significa propugnare da un lato una concezione mutila del Magistero della Chiesa; dall'altro, sostituire al dialogo con l'errante, sempre perseguito dalla Santa Chiesa, il dialogo con l'errore. Tutto ciò configura un errore dottrinale, che nel testo di Giovanni XXIII sopra citato si manifesta nell'improprio accostamento fina­le, ove sembra alitare il pensiero che la dimostrazione della "validità della dottrina" sia incompatibile con la "rinnovazione delle condanne", come se quella validi­tà dovesse imporsi unicamente grazie alla forza della propria intrinseca logica. Ma in tal modo la fede non sarebbe più un dono di Dio, non avrebbe più bisogno né della Grazia per venire in essere e fortificarsi, né del­l'esercizio del principio di autorità, impersonato dalla Chiesa cattolica, per essere sostenuta. E questo è l'er­rore in senso proprio, nascosto nella frase di Giovanni XXIII: una forma di pelagianesimo, tipico di ogni con­cezione razionalistica della fede, pluricondannata dal Magistero.
La dimostrazione della validità della dottrina e la condanna degli errori si sono sempre e necessariamen­te implicate a vicenda nella storia della Chiesa. E le condanne hanno riguardato non solo le eresie e gli er­rori teologici in senso stretto, ma implacabilmente ogni concezione del mondo che non fosse cristiana; non solo quelle avverse alla fede, ma anche quelle solo diverse, religiose e non, poiché "chi non raccoglie con Me, di­sperde", ha detto Nostro Signore (Mt. 12, 30).
L'eterodossa presa di posizione di Giovanni XXIII, mantenuta dal Concilio e dal post-concilio sino ad oggi, ha fatto crollare - lo si nota già nei testi del Concilio - la tipica, ferrea armatura concettuale della Chiesa, ben presente un tempo anche ai suoi nemici e da alcuni di loro persino apprezzata: "L'impronta intellettuale della Chiesa è essenzialmente l'inflessibile rigore con cui i concetti e i giudizi di valore vengono trattati come sta­biliti, come aeterni" (Nietzsche).

2° errore: la contaminazione della dottrina cat­tolica con il "pensiero moderno", intrinsecamente anticattolico.
Alla proclamata rinuncia a trafiggere l'errore, a que­sta inaudita abdicazione, è connessa l'altra notissima e gravissima affermazione di Giovanni XXIII, da lui riba­dita nell'allocuzione natalizia ai Cardinali del 13 gen­naio 1963, secondo la quale la "penetrazione dottrinale" doveva aver luogo "in corrispondenza più perfetta di fedeltà all'autentica dottrina", la quale, tuttavia, doveva esser "studiata ed esposta attraverso le forme dell'inda­gine e della formulazione letteraria del pensiero mo­derno"2, poiché "altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi - con pazienza se occorre - tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proposizioni di un magistero a carattere preva­lentemente pastorale".
Questi concetti furono ripetuti espressamente dal concilio nel decreto Unitatis redintegratio sull'ecumeni­smo, art. 6 (v. infra).
Il principio, già dei liberali e dei modernisti, che l'an­tica dottrina dovesse esser rivestita di una forma nuova, desunta dal "pensiero moderno", era già stato espres­samente condannato da S. Pio X (Pascendi 1907, § II, c; decr. Lamentabili, nn. 63 e 64 - Denz. 2064-5/3464­5) e da Pio XII (Humani Generis AAS 1950, 565-566). Papa Roncalli proponeva, perciò, una dottrina già for­malmente condannata come eretica (in quanto tipica dell'eresia modernista) dai suoi predecessori.
Non è possibile, infatti, applicare alla dottrina cat­tolica le categorie del "pensiero moderno" il quale, in tutte le sue forme, nega a priori l'esistenza di una verità assoluta e per il quale tutto è relativo all'Uomo, unico suo valore assoluto, divinizzato in tutte le sue mani­festazioni (dall'istinto alla "coscienza di sé"). Un pen­siero, quindi, intrinsecamente avverso a tutte le verità fondamentali del Cristianesimo, a cominciare dall'idea di un Dio creatore, di un Dio vivente, che si è rivela­to ed incarnato, per finire al modo di intendere l'etica e la politica. Nel proporre una simile contaminazione, Giovanni XXIII si mostrava discepolo del "metodo" della neo-modernistica Nouvelle Théologie già condannato dal Magistero. Per esser veramente aderente ai biso­gni dei tempi, rapportati alla missione di salvezza della Chiesa cattolica, il Concilio avrebbe dovuto approfondi­re ulteriormente le condanne rivolte in passato dai Papi al pensiero moderno (da Pio IX a Pio XII) invece di dare in pasto a quest'ultimo "lo studio e l'espressione" della "autentica" e "antica" dottrina.

3° errore: il fine della Chiesa è "l'unità del genere umano".
Il terzo errore è nell'enunciazione dell'unità del ge­nere umano quale fine proprio della Chiesa: "Questo si propone il Concilio Ecumenico Vaticano II, il quale... quasi prepara e consolida la via verso quell'unità del genere umano, che si richiede quale necessario fonda­mento, perché la Città terrestre si componga a somi­glianza di quella celeste «in cui regna la verità, è legge la carità, l'estensione è l'eternità»" (cfr. S. Augustinus, Epist. 138, 3)».
Qui "l'unità del genere umano" è considerata il fon­damento necessario (si noti il necessario) affinché la "città terrestre" assomigli sempre più a quella "celeste". Ma che l'espansione della Chiesa in questo mondo ne­cessitasse di quel fondamento non era mai stato in­segnato in passato, tanto più che il fine dell'unità del genere umano - unità affermata dal Papa simpliciter - è un'idea-guida della filosofia della storia elaborata, a partire del secolo XVIII, dal pensiero laico, una compo­nente essenziale della religione dell'Umanità, non della religione cattolica.
L'errore consiste qui nel mescolare alla visione cat­tolica un'idea ad essa estranea, desunta dal pensiero laico, che ex sese la nega e la contraddice, poiché quel pensiero non mira certo ad estendere il Regno di Dio, per la parte che si attua in terra nella Chiesa visibile, ma a sostituire la Chiesa stessa con l'Umanità, convinto come è della dignità dell'uomo in quanto uomo (perché non crede al dogma del peccato originale) e dei suoi pretesi "diritti".
Gli effetti negativi della mancata condanna degli er­rori del Secolo si fanno, dunque, sentire, quasi per una sorta di nemesi, anche nell'allocuzione che la propone, dal momento che essa degli errori del Secolo ne contie­ne almeno uno con certezza, accanto ai due più pro­priamente teologici.
___________________
Note di Chiesa e post concilio.
1. Fu Baldassarre Cossa, papa negli anni (1410-1415) con una legittimità sospetta, che lo fece inserire tra gli antipapi (Giovanni XXIII), noto come esponente del cosiddetto movimento conciliare, una corrente che considerava il papa inferiore alla Chiesa universale ed anche all'autorità di un concilio.
2. Sulla Gaudet Mater Ecclesia, vedi anche Il conflitto irrisolto di un altro valente studioso, il prof. Bernard Dumont, Direttore di Catholica. Stralcio il brano riguardante l'allocuzione di apertura del Concilio, con una mia notazione:
[...] La missione attribuita al concilio era offrire risposte adeguate alle angosce nate da questa situazione, ma anche discernere le aspirazioni positive e dar loro una risposta in una formulazione appropriata. Tale era la ragion d'essere del carattere essenzialmente pratico di questo concilio, indicato con l'aggettivo « pastorale » ufficialmente attribuitogli. Giovanni XXIII era stato chiarissimo a questo riguardo : non si trattava di «discutere di alcuni capitoli fondamentali della dottrina della Chiesa, e dunque di ripetere con maggiore ampiezza ciò che Padri e teologi antichi e moderni hanno già detto», bensì di operare un aggiornamento (è uno dei significati della parola aggiornamento ripetuta così di frequente), un adattamento pedagogico : « È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che dev'esser fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo da rispondere alle esigenze del nostro tempo. (Discorso d'apertura). La traduzione letterale della versione italiana comporta una variante : « [...] sia studiata ed esposta seguendo la ricerca e la presentazione usate dal pensiero moderno », formulazione ambigua, che può intendersi nel senso di una attenzione rivolta alla capacità di comprensione degli uditori oppure di un allineamento alla forme culturali dominanti dell'Occidente.*
Ma un'ambiguità simile circonda la parola « exigence » nella versione francese. L’operazione era tanto più importante in quanto ci si trovava in presenza di un generale sconvolgimento del mondo di fronte al quale conveniva riflettere con tanta più forza quanto gli atteggiamenti adottati dopo il XIX secolo nei confronti della modernità si erano conclusi con successivi fallimenti sempre più evidenti, anche perché il discorso della Chiesa non era mai giunto ad esser formulato in termini immediatamente accessibili ai suoi destinatari.
Perché questa intenzione pastorale non ha mai dato frutti? Perché tanti sforzi dispiegati non hanno permesso di trovare i mezzi per elaborare un modello rinnovato di comprensione della modernità, e dare un impulso decisivo ad una rinascita della cultura cristiana tale da imporre rispetto ? Ci si contenterà qui di considerare due punti : l’opzione iniziale che ha dato la sua tonalità ai lavori conciliari, e la difficoltà di comprendere l'ostinazione con cui la linea posta all'inizio non è stata modificata a dispetto della sua inefficacia.[...]
___________________
*[N.d.T.: Questa citazione si riferisce ad un'altra versione del testo, rispetto a quella pubblicata sul sito Vatican.va, sul quale appare la versione corrispondente a quella francese, vedi link sopra, peraltro confermata dal testo latino presente sul sito Vaticano. Non volendo, ci troviamo di fronte ad un dilemma: dello stesso discorso circolano due versioni diverse: questa** riporta la versione citata dal Prof Dumont. Non faccio commenti, ma se si confrontano le due versioni, la cosa è piuttosto intrigante].
**Il documento in pdf di cui al link sopra (testo originale dell'Allocuzione di Giovanni XXIII ripreso dal sito papagiovanni.com), consente di confermare la discrepanza; cito: «... studiata ed esposta attraverso le forme dell'indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno »]. E la cosa non finisce qui, perché il testo spagnolo presente sul sito Vatican.va conserva la formulazione riscontrata dall'originale italiano: «...estudiando ésta y exponiéndola través de las formas de investigación y de las fórmulas literarias del pensamiento moderno».

venerdì 7 marzo 2025

Indice articoli su “Il Vescovo di Roma. Primato e Sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica Ut unum sint”

Indice articoli su : “Il Vescovo di Roma. Primato e Sinodalità
nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica Ut unum sint
Alcuni precedenti significativi:

Festa della Santissima Trinità. Simbolo Atanasiano

Oggi, nell'Ottava di Pentecoste, alla quale è unita da un misterioso legame, celebriamo la solennità che ha lo scopo di onorare il Dio unico in tre persone. Essa è venuta a prender posto nell'Anno liturgico, che si va completando nel corso del tempo.

Il simbolo atanasiano (Quicumque vultè un simbolo della fede che prende questo nome perché attribuito dalla tradizione cristiana a sant'Atanasio (295-373), arcivescovo di Alessandria d'Egitto. È significativo soprattutto per la dottrina trinitaria, che esso esprime in maniera forte per combattere l'arianesimo.

Nella liturgia della Chiesa occidentale, prima della sostituzione del breviario, era recitato nell'ufficio domenicale di prima. Nel Rito Ambrosiano invece, viene usato come inno dell'Ufficio delle Letture, al posto del Te Deum, la Domenica della Santissima Trinità; mentre la Chiesa orientale non l'ha mai usato.

È stato tramandato in greco e in latino. La maggioranza dei critici ritiene che sia stato scritto originariamente in latino e non in greco; e non nel IV secolo, ma almeno un secolo più tardi. La teologia che ne traspare è molto vicina a quella di sant'Ambrogio da Milano.

Quicúmque vult salvus esse,  * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:
Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, *
absque dúbio in aetérnum períbit.

Fides autem cathólica haec est: *
ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.
Neque confundéntes persónas, *
neque substántiam separántes.
Alia est enim persóna Patris, alia Fílii, *
alia Spíritus Sancti:

Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, *
aequális glória, coaetérna maiéstas.
Qualis Pater, talis Fílius, *
talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, *
increátus Spíritus Sanctus.
Immènsus Pater, imménsus Fílius, *
imménsus Spíritus Sanctus.
Aetérnus Pater, aetérnus Fílius, *
aetérnus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres aetérni, *
sed unus aetérnus.

Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, *
sed unus increátus, et unus imménsus.

Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, *
omnípotens Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres omnipoténtes, *
sed unus omnípotens.
Ita Deus Pater, Deus Fílius, *
Deus Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres dii, *
sed unus est Deus.

Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, *
Dóminus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres Dómini, *
sed unus est Dóminus.
Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: *
ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.
Pater a nullo est factus: *
nec creátus, nec génitus.
Fílius a Patre solo est:*
non factus, nec creátus, sed génitus.
Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: *
non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.

Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: *
unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.
Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil maius aut minus: *
sed totae tres persónae coaetèrnae sibi sunt et coaequáles.
Ita ut per ómnia, sicut iam supra dictum est, *
et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.
Qui vult ergo salvus esse, *
ita de Trinitáte séntiat.
Sed necessárium est ad aetérnam salútem, *
ut incarnatiónem quoque Dómini nostri Iesu Christi fidéliter credat.
Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, *
quia Dóminus noster Iesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.

Deus est ex substántia Patris ante saécula génitus: *
et homo est ex substántia matris in saéculo natus.


Perféctus Deus, perféctus homo: *
ex ánima rationáli et humána carne subsístens.
Aequális Patri secúndum divinitátem: *
minor Patre secúndum humanitátem.
Qui, licet Deus sit et homo, *
non duo tamen, sed unus est Christus.

Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, *
sed assumptióne humanitátis in Deum.

Unus omníno, non confusióne substántiae, *
sed unitáte persónae.
Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo:
ita Deus et homo unus est Christus.

Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: *
tértia die resurréxit a mórtuis.
Ascéndit ad coélos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: *
inde ventúrus est iudicáre vivos et mórtuos.
Ad cuius advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis: *
et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.
Et qui bona egérunt, ibunt in vitam aetérnam: *
qui vero mala, in ígnem aetérnum.


Haec est fides cathólica, *
quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.
Amen.
Chiunque voglia salvarsi, * deve anzitutto possedere la fede cattolica:
Colui che non la conserva integra ed inviolata *
perirà senza dubbio in eterno.

La fede cattolica è questa: *
che veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità.
Senza confondere le persone, *
e senza separare la sostanza.
Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio, *
ed altra quella dello Spirito Santo.

Ma Padre, Figlio e Spirito Santo sono una sola divinità, *
con uguale gloria e coeterna maestà.
Quale è il Padre, tale è il Figlio, *
tale lo Spirito Santo.
Increato il Padre, increato il Figlio, *
increato lo Spirito Santo.
Immenso il Padre, immenso il Figlio, *
immenso lo Spirito Santo.
Eterno il Padre, eterno il Figlio, *
eterno lo Spirito Santo
E tuttavia non vi sono tre eterni, *
ma un solo eterno.

Come pure non vi sono tre increati, né tre immensi, *
ma un solo increato e un solo immenso.
Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, *
onnipotente lo Spirito Santo.

E tuttavia non vi sono tre onnipotenti, *
ma un solo onnipotente.

Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, *
lo Spirito Santo è Dio.

E tuttavia non vi sono tre dei, *
ma un solo Dio.
Signore è il Padre, Signore è il Figlio, *
Signore è lo Spirito Santo.
E tuttavia non vi sono tre Signori, *
ma un solo Signore.
Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore: *
così la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori.
Il Padre non è stato fatto da alcuno: *
né creato, né generato.

Il Figlio è dal solo Padre: *
non fatto, né creato, ma generato.
Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: *
non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.

Vi è dunque un solo Padre, non tre Padri: un solo Figlio, non tre Figli: *
un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.
E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o dopo, nulla di maggiore o minore: *
ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali.
Cosicché in tutto, come già detto prima, *
va venerata l'unità nella Trinità e la Trinità nell'unità.

Chi dunque vuole salvarsi, *
pensi in tal modo della Trinità.
Ma per l'eterna salvezza è necessario, *
credere fedelmente anche all'Incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo.
La retta fede vuole, infatti, che crediamo e confessiamo, *
che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo.

È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità: *
è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre.
Perfetto Dio, perfetto uomo: *
sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana.
Uguale al Padre secondo la divinità:*
inferiore al Padre secondo l'umanità.
E tuttavia, benché sia Dio e uomo, *
non è duplice ma è un solo Cristo.

Uno solo, non per conversione della divinità in carne, *
ma per assunzione dell'umanità in Dio.
Totalmente uno, non per confusione di sostanze, * ma per l'unità della persona.
Come infatti anima razionale e carne sono un solo uomo, *
così Dio e uomo sono un solo Cristo.

Che patì per la nostra salvezza: discese agli inferi: *
il terzo giorno è risuscitato dai morti.
È salito al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: *
e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti.
Alla sua venuta tutti gli uomini dovranno risorgere con i loro corpi: *
e dovranno rendere conto delle proprie azioni.
Coloro che avranno fatto il bene andranno alla vita eterna: *
coloro, invece, che avranno fatto il male, nel fuoco eterno.

Questa è la fede cattolica, *
e non potrà essere salvo se non colui che l'abbraccerà fedelmente e fermamente.
Amen.

giovedì 6 marzo 2025

Buona Festa di Cristo Re, universorum Rex e non solo Re dell'universo... Te sæculórum Principem

Che sta avvenendo della Tradizione, ma soprattutto della Regalità di Nostro Signore, universorum Rex = Re di tutti e di tutte le cose? E non soltanto genericamente Re dell'universo, come l'ha declassato la Festa di Cristo Re del nuovo Ordinamento liturgico, che indebolisce la dimensione storica, immanente del Regno... Nell'Anno Liturgico dell'Ordo Antico, e a coronamento di esso, la Festa cade oggi, ultima Domenica prima della Festa di Tutti i Santi, che tali sono in virtù di Lui. Inserisco, in fondo, l'Inno Te sæculórum Príncipem, indicando le strofe inopinatamente soppresse e quindi non più né pregate né meditate sui nuovi breviari... Poi dicono che non è cambiato nulla? [vedi anche]

O ter beata civitas
Cui rite Christus imperat,
Quae iussa pergit exsequi
Edicta mundo caelitus!”
(“O tre volte beata la società, cui Cristo legittimamente comanda, che esegue gli ordini che il cielo ha impartito al mondo!”).

La festa di Cristo Re fu istituita da Pio XI l'11 dicembre 1925 mediante l'enciclica Quas primas. Se la festa è di nuova istituzione non è per nulla nuova l'idea della regalità attribuita alla figura di Cristo, che non soltanto la Scrittura, i Padri e i teologi, ma anche l'arte sacra e il senso comune dei fedeli concordemente affermano. L'istituzione di una ricorrenza specifica dedicata a questo mistero, risulta chiara dal testo dell'enciclica:
[...] "Se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l'umana società". Papa Pio IX si riferisce al laicismo (non alla laicità): "La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste [...]
Te sæculórum Príncipem,
Te, Christe, Regem Géntium,
Te méntium te córdium
Unum fatémur árbitrum.

Scelésta turba clámitat :
Regnáre Christum nólumus :
Te nos ovántes ómnium
Regem suprémum dícimus.(soppressa!)

O Christe, Princeps Pácifer,
Mentes rebélles súbjice:
Tuóque amóre dévios,
Ovíle in unum cóngrega. (soppressa!)

Ad hoc cruénta ab árbore
Pendes apértis bráchiis,
Diráque fossum cúspide
Cor igne flagrans éxhibes.

Ad hoc in aris ábderis
Vini dapísque imágine,
Fundens salútem fíliis
Transverberáto péctore.

Te natiónum Præsides
Honóre tollant público,
Colant magístri, júdices,
Leges et artes éxprimant. (soppressa!)

Submíssa regum fúlgeant
ibi dicáta insígnia:
Mitíque sceptro pátriam
Domósque subde cívium.(soppressa!)

Jesu tibi sit glória,
Qui sceptra mundi témperas,
Cum Patre, et almo Spíritu,
In sempitérna sæcula. Amen.
Te, Principe dei secoli
Te, Cristo, Re delle genti
Te, delle menti, Te dei cuori,
confessiamo unico Sovrano.

La turba scellerata urla:
«Non vogliamo che Cristo regni»
Ma noi, acclamando, di ogni cosa
Ti dichiariamo Re supremo. (1)

Cristo, Principe Portatore di pace,
assoggetta le anime ribelli;
e, con il tuo amore, gli erranti
raduna in un solo ovile.

Per questo dall'albero sanguinante
pendi con le braccia stese,
e, dalla crudele punta perforato,
il cuore, di fuoco flagrante, manifesti.

Per questo sugli altari ti tieni nascosto
di vino e di cibo nell'immagine
effondendo la salvezza sui figli
dal petto transverberato.

Te delle nazioni i principi
manifestino [Re] con pubblico onore
[Te] adorino i maestri, i giudici
[Te] le leggi e le arti esprimano.

Le sottomesse insegne dei re
[a Te] dedicate vi rifulgano:
e con mite scettro la Patria
e le case dei cittadini assoggetta.

Gesù, a Te sia gloria,
che reggi gli scettri del mondo,
con il Padre, e l'almo Spirito
per i secoli sempiterni. Amen.
___________________________
1. Nella Liturgia delle Ore, l'inno dei Vespri è lo stesso (Te saeculorum Principem), ma da esso sono state soppresse proprio quelle strofe che parlano esplicitamente della regalità sociale ("Te nationum praesides..." e "Submissa regum fulgeant..."). Nella seconda strofa, inoltre, il riferimento al laicismo ("Scelesta turba clamitat: / Regnare Christum nolumus" = "La folla empia grida: Non vogliamo che Cristo regni") è stato rimpiazzato da una frase generica e indefinita ("Quem prona adorant agmina / hymnisque laudant cælitum" = "Ti adorano prone le schiere celesti e ti lodano con inni").
Completamente diverso l'inno dell'Ufficio delle Letture (il vecchio Mattutino), privo anch'esso di qualunque riferimento alla dimensione sociale e temporale del Regno di Cristo. Le letture tratte dall'enciclica Quas primas, che il Breviario antico assegnava al secondo Notturno, sono state rimpiazzate da un brano di Origene, di carattere marcatamente spirituale.
Così pure si cercherebbe invano un'allusione o un accenno alla necessità che Cristo regni sulla società civile nel nuovo inno delle Lodi mattutine.
La nuova orazione ricalca lo schema della vecchia, modificandone però completamente il senso.