Quarta parte
di Don Curzio Nitoglia
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
Quarta parte
Timore, forza e fortezza
Introduzione
Oggi si ritiene comunemente che il Cristianesimo svirilizzi l’uomo, lo indebolisca o lo droghi (come dicevano nell’antichità Proclo, Porfirio e Giamblico, nella modernità Machiavelli e poi nella post-modernità Nietzsche, Freud e Marx).
Il neopaganesimo e il naturalismo post-moderni (Scuola di Francoforte e Strutturalismo francese sessantottino) riprendono tale accusa dell’antichità pagana e della modernità immanentistica e vedono nell’umiltà cristiana una degradazione di sé e un atteggiamento senza coraggio né forza.
Alla fonte di queste polemiche vi sono le due concezioni diametralmente opposte della vita: 1°) quelle dell’antico paganesimo (come religiosità popolare degenerata, orgiastico/politeistica, ben distinta dalla filosofia classica pre-cristiana), dell’immanentismo naturalista moderno e del nichilismo postmoderno o contemporaneo e 2°) quella della metafisica perenne e del Cristianesimo.
La prima (paganesimo/immanentismo/nichilismo) concepisce l’uomo come un assoluto, completamente autonomo e senza alcuna relazione con un Dio personale e trascendente: egli è sottomesso a un destino cieco che lo determina e che deve affrontare impassibilmente.
Il Cristianesimo, invece, crede in un Dio personale, trascendente, creatore e provvido, di cui l’uomo è una creatura limitata e finita, ma intelligente e libera, in rapporto con Dio che ha un piano provvidenziale su di lui: pertanto l’uomo deve accettare con fortezza le circostanze più dure della vita, nella fede che Dio si serve di esse per affinare la sua anima, e nello stesso tempo deve essere fortissimamente risoluto ad essere fedele a qualsiasi costo alla legge naturale e divina, che è inscritta nell’animo di ogni uomo, anche del pagano, e quindi è nota a tutti (anche all’uomo di oggi) tranne a chi non vuole ammetterla perché non gli fa comodo.
Come si vede queste due filosofie sono inconciliabili, quindi era inevitabile che si accusassero vicendevolmente di essere una storpiatura della fortezza.
Il paganesimo come religiosità popolare (poiché come filosofia ha toccato i più alti vertici della speculazione teoretica e morale: vedi Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone e Seneca), il neopaganesimo moderno immanentista e il nichilismo contemporaneo apostatico fanno consistere la fortezza soprattutto nella forza fisica, nel coraggio spietato, nella volontà di potenza, nella durezza crudele e nell’impassibilità di fronte alle difficoltà e nel far mostra della propria superiorità sino ad umiliare e a distruggere il concorrente.
Il Cristianesimo, invece, ci presenta la forza umana come partecipazione dell’onnipotenza divina, che si degna di comunicare o partecipare all’uomo una porzione della sua forza. Quindi è in Dio che l’uomo acquista una sicurezza invincibile, conscio dei suoi limiti, l’uomo sa, tuttavia, che “può tutto in Colui che gli dà forza” (S. Paolo).
Natura della vera fortezza
S. Tommaso d’Aquino formula nella maniera più alta la teologia della fortezza soprannaturale e cristiana (S. Th., II-II, q. 123 in 10 articoli; In III Ethic., 1.14; In VI Ethic., 1.7, n. 1196; GIOVANNI DA SAN TOMMASO, In I-II, dist. 18, art. 6) e mette bene a fuoco i limiti di quella naturalista (1).
La fortezza rimuove gli ostacoli che derivano dalle difficoltà e che impediscono all’uomo di vivere bene, ossia conformemente alla retta ragione e alla libera volontà (S. Th., II-II, q. 123, a. 2). Perciò, ogni volta che gli ostacoli, le difficoltà, le cose ardue c’impediscono di applicare la retta ragione alla conoscenza della verità o alla soluzione di un problema e c’impediscono, perciò, di praticare liberamente ciò che la ragione ha conosciuto, vi è un difetto di fortezza.
Un cardinale morto recentemente, che è stato imprigionato per 20 anni in Cina, scriveva: “Sono cristiano a metà quando le mie scelte sono indecise, quando sono vile e mi faccio vincere dalla paura di impegnarmi e di schierarmi, quando mi faccio vincere dalla paura delle complicazioni e delle sconfitte umane, quando son pronto a scendere a patti con l’errore e il male, quando non oso dire chiaramente la verità!”.
Aristotele, il genio della metafisica classica e pagano/filosofica (2), nell’Etica Nicomachea, (1115a, 6) (3) riduceva la fortezza, virtù umana e puramente acquisita o naturale, entro l’ambito della vita civile e terrena (la guerra per difendere la Patria), mentre il Cristianesimo la ordina a un fine ultimo soprannaturale (il martirio per difendere le virtù cristiane) (4), a una felicità eterna, cui si può giungere attraverso il martirio, atto supremo di fortezza, il quale sorpassa infinitamente i valori umani e naturali del paganesimo ad esempio il martirio, sopportato per difendere e per ottenere il bene sommo che è Dio è molto superiore alla morte naturalmente eroica del soldato in guerra per difendere la Patria. Tuttavia, san Tommaso, che non disprezza la natura ma la concepisce come presupposta dalla grazia ed elevata da essa (S. Th., I, q. 91, a. 8, ad 2), insegna anche che la fortezza naturale si mostra in battaglia poiché essa sostiene la volontà del soldato nel voler difendere il bene comune durante la guerra lecita (S. Th., II-II, q. 123, a. 5).
L’Angelico bada bene a non disprezzare la virtù naturale o pagana (diversamente da Baio secondo il quale ogni atto del pagano è peccaminoso), poiché “la grazia presuppone la natura, non la distrugge ma l’innalza” (S. Th., I, q. 91, a. 8, ad 2). Quindi, egli riconosce i valori umani e buoni - anche se limitati o finiti - della filosofia morale pagana (cfr.S. Th., I-II, qq. 123-140) e nello stesso tempo mostra che la virtù soprannaturale o cristiana sorpassa quella naturale o pagana come il cielo sorpassa la terra; ciò non significa che ogni cristiano sia per se stesso più virtuoso dei più grandi eroi pagani, vuol dire soltanto che la virtù infusa da Dio (o soprannaturale) sorpassa quella acquisita dall’uomo (o naturale). Se il Cristianesimo rinuncia a qualcosa, lo fa sempre per conseguire un bene superiore. L’Angelico condanna solo i vizi della malsana religiosità della paganità (spavalderia, audacia, presunzione, ambizione, vanagloria, pusillanimità, mollezza e cocciutaggine) e non la sana filosofia del paganesimo alla quale si è formato studiando Platone e specialmente Aristotele.
La vera fortezza evita la paura eccessiva, che ci ritrae dalle cose difficili, e anche l’eccessiva audacia, spavalderia o temerarietà (S. Th., II-II, q. 123, a. 3). Essa, inoltre, modera l’ira sregolata (ivi, a. 10). In breve, “ogni eccesso è un difetto”, la spericolatezza non è fortezza, ma un eccesso e, quindi, un difetto di fortezza. Questa consiste nell’agire secondo ragione e nel non retrocedere di fronte alle difficoltà e nel sormontare gli ostacoli che vorrebbero impedirci di evitare il male e di fare il bene, mentre la temerarietà o la paura eccessiva non sono regolate dalla ragione, anzi sono irrazionali e sono prodotte dall’istinto e dalle passioni (ivi, q. 127, a. 1).
La mollezza o arrendevolezza, essendo un troppo facile recesso dal bene per futili motivi e piccole difficoltà, è un difetto di fortezza (ivi, q. 138, a. 1).
Il cristiano può, e certe volte deve, agire fortemente aiutandosi con la santa collera (che non toglie l’uso della ragione come l’ira sregolata, ma essendo una “proto-passione” serve a intensificare l’atto virtuoso della fortezza)la quale è un atto della ragione che deve seguire la libera scelta della volontà e non precederla. Ad esempio, Mosè (Es., XXXII) quando vide il vitello d’oro, per vendicare l’offesa fatta a Dio, fece uccidere circa ventitremila persone; oppure Mattatia (1 Macc., II), vedendo un giudeo che stava sacrificando agli idoli, si volle accendere di santa ira e lo uccise sull’altare; per non parlare di Gesù, che cacciò a frustate decine e decine di mercanti dal Tempio e rovesciò con forza sovrumana tutti i loro banchi di compra-vendita. Il Cristianesimo non è perciò debolezza, arrendevolezza, pacifismo, ma quando è d’uopo sa usare la forza e la collera ordinata per riparare un torto o riportare l’ordine: “Non pensate che Io sia venuto o portare la pace sulla terra, ma la spada” (Mt., X, 34) insegna Gesù. Sopportare, scrive S. Tommaso, “con troppa pazienza le ingiurie fatte a Dio è una cosa empia” (S. Th., I-II, q. 136, a. 4, ad 3um).
La legittima difesa e la guerra difensiva sono patrimonio del pensiero cristiano che da duemila anni fornisce eroi e martiri sovrumani, i quali sorpassano l’eroismo pagano come l’ordine “soprannaturale” sorpassa (come dice la parola) quello naturale.
La paura, la viltà o timore disordinato (S. TOMMASO, S. Th., I-II, q. 125, a. 1) è un peccato, è un vizio (ben distinto dalla malattia o fobia, che non è imputabile moralmente), essa è peccaminosa quando fa abbandonare alla volontà libera un bene che deve essere ottenuto o fa abbracciare un male da evitarsi. Per aiutarci a vincere la viltà Gesù Cristo - insegna l’Aquinate - volle affrontare la morte di croce, con tutti i supplizi annessi, dandoci un esempio eroico di perfetta virtù (5). Anche la pusillanimità o il perdersi d’animo, la falsa umiltà che non vuole agire per un bene sotto pretesto di non voler peccare di presunzione è un peccato. Essa porta alla meschinità, a sottovalutare le proprie qualità o i talenti che Dio ci ha dato, ci porta dunque a procrastinare (“domani, domani / cras, cras”, come dice “la seconda classe d’uomini” (6), della quale parlano gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio da Loyola, n. 154) ogni decisione, c’immerge in un’agonia d’indecisione che non si districa mai dalle paure immaginarie, mentre il Cristianesimo c’insegna che l’animo umano è creato per cose grandi, anzi infinite: Dio e l’eterna beatitudine.
Nella Passione di Gesù si vedono, come in un film, le differenze tra l’audacia irrazionale e la fortezza virtuosa e ragionevole.
Gesù volle cominciare “ad avere noia, paura e tristezza”, ma disse: “Padre, se è possibile passi da Me questo calice, tuttavia sia fatta la Tua e non la Mia volontà”. Quindi, andò a svegliare gli Apostoli dicendo: “Surgite eamus / in piedi, andiamo…” e di fronte ai soldati che chiedevano: “Sei tu Gesù di Nazareth?” rispose con tanta e tale fermezza da atterrarli: “Sono Io! E, allora, tutti caddero a terra”. Il cuore e il segreto della fortezza di Gesù, consisté nella convinzione profonda di dover essere crocefisso per salvare l’umanità. Così dev’essere per noi: le convinzioni, le certezze attinte nello studio e soprattutto nella meditazione (conoscenza amorosa) quotidiana ci devono aiutare a fare e ad agire conformemente alla ragione retta e al bene arduo e a non lasciarci distogliere dal nostro fine per preoccupazioni umane. L’uomo è un animale razionale e libero, che può dominare con la ragione e la volontà la sensibilità, ossia le passioni e gli istinti e indirizzarli al bene, senza distruggerli, ma senza neppure divenirne schiavo.
L’intelligenza illuminata dalla fede e la volontà “soprannaturalizzata” dalla carità dirigono, così, le passioni senza che esse dirigano noi. Di fronte e durante le aridità, le attese, le sconfitte apparenti e i “silenzi di Dio” sono la fede e la speranza, animate dalla carità, che devono mantenerci nella ferma determinazione di fare il bene e fuggire il male, costi quel che costi.
È, infatti, più difficile resistere e perseverare in trincea sotto gli assalti del nemico che uscire da essa e andare all’assalto inebriati dal buon andamento della situazione che ci spinge all’attacco. La consolazione e il brio naturali non sempre accompagnano le gesta eroiche, certe volte bisogna agire eroicamente o con fortezza senza entusiasmo sensibile, sopportare la noia di una lunga e snervante attesa. Allora è ancor più necessaria la fortezza soprannaturale, che venga a rinfrancare la natura assopita, scoraggiata, amareggiata, arida e desolata.
Perciò, se manca la fortezza infusa, la natura umana anche nell’uomo più ardito può venir meno e portarlo alla resa.
Occorre capire che passato il momento dell’entusiasmo romantico e sensibile naturalmente, la forza umana cede e un sistema fondato solo su di essa si sfalda. Quando l’assalto non sfonda più le linee nemiche, allora arriva la vera parte della virtù di fortezza: resistere che è più difficile di aggredire.
Allora non fondiamoci sull’impeto romantico, sull’impulso istintivo, sul coraggio puramente fisico, passionale e naturale. “Nihil violentum durat / ciò che è soltanto e troppo violento non dura” (7); “Quando si va in montagna bisogna partire con un passo da vecchio per arrivare in cima con un passo da giovanotto”. Bisogna costruire poco alla volta ma continuamente e non a scatti sulla costanza, sulla pazienza, sulla riflessione, sullo studio e soprattutto sull’ascesi e sulla meditazione o colloquio quotidiano dell’animo con Dio. Altrimenti, se le cose volgono al peggio, come successe per i cristiani dei primi tre secoli, di fronte ai leoni si fugge e si rinnega il proprio ideale. Chi non ha convincimenti e fede soprannaturale di fronte allo scacco naturale non ha nulla per cui combattere e si abbatte.
Certamente la natura va allenata. Garcia Moreno scalava montagne pericolose per affrontare la paura del nemico con maggior fermezza. La natura è presupposta dalla grazia e quindi anch’essa va educata, l’uomo è fatto di anima e di corpo ed entrambi vanno coltivati, ma al fondo delle arti marziali o fisiche ci deve essere la fede e la preghiera, che è “il respiro dell’anima”. È la fede che ha fatto vincere i cristiani a Lepanto, a Vienna, all’Alcazar di Toledo, naturalmente adiuvata dalle armi e da buoni eserciti. È la fede che ha dato la vittoria al pastorello Davide contro il gigante Golia, alla fanciulla Giovanna d’Arco contro l’esercito inglese e al colonnello Moscardo contro i rossi che avevano rapito suo figlio e gli chiedevano la resa in cambio della sua salvezza (8).
Questa fede la riceviamo da Dio, ma la dobbiamo coltivare con la preghiera, l’ascesi, la lotta per sublimare e incanalare verso il bene le passioni umane.
Cicerone disse a Giulio Cesare che, tornando vittorioso a Roma dalla campagna contro i Galli, aveva risparmiato un villaggio elvetico: “Cesare, oggi hai riportato la vittoria più bella della tua vita, hai vinto te stesso!”. Infatti, la natura bellicosa di Giulio Cesare lo avrebbe spinto a schiacciare il piccolo villaggio, ma la sua naturale rettitudine d’animo lo aiutò a vincersi e a risparmiare il villaggio e i suoi abitanti, cosa molto più difficile per Cesare che di distruggerlo.
Inoltre, la fortezza è composta di due elementi: a) il sopportare (“sustinere”) cose avverse per lungo tempo senza cedere, e questa è la parte più ardua della virtù; il teologo domenicano Francisco De Vitoria, nel suo Comentarios a la Secunda Secundae (t. 5, Salamanca, 1936, pag. 300), fa notare che Aristotele non ne ha fatto una menzione speciale, sebbene la elogi mentre essa è stata lodata grandemente dal Cristianesimo; b) il sormontare (“aggredi”) cose difficili.
La fortezza rappresenta il sigillo e la custodia di tutte le altre virtù, quindi viene per ultima cronologicamente, ma non per importanza gerarchica.
“Secondo Niccolò Machiavelli” (il padre del naturalismo politico moderno), scrive padre Pedro da Ribadeneyra, “gli antichi pagani erano più forti dei cristiani e ciò sarebbe colpa dell’educazione morale del Cristianesimo. Infatti, il Cristianesimo ci insegna a non stimare gli onori del mondo; mentre il paganesimo li fa stimare tanto, come fine ultimo dell’uomo, e questo rendeva le loro azioni più feroci. (...) Secondo la sana filosofia, la virtù della fortezza non è una specie di forza corporale spaventosa (...). Neppure consiste in un animo sprezzante e temerario, che senza considerare se una cosa sia (...) pericolosa o facile, azzardata e imprudente, si lascia trascinare da un impeto furioso e da pazza temerarietà (...). In realtà noi stiamo parlando della fortezza come virtù morale, arma dell’uomo forte per resistere al vano timore, moderare gli impeti, intraprendere cose difficoltose che comportano pericoli mortali, soffrire assalti con vigore e pene con costanza (...) tutto ciò per la gloria del Signore (...). Questa fortezza la chiamiamo virtù; mentre quella del Machiavelli (...), possiamo definirla solo barbara fierezza. (...) Dunque, se la fortezza è una virtù, chi sarà più forte l’uomo vizioso o il virtuoso, il cattivo o il buono? E se è un dono di Dio, a chi il Signore lo comunicherà, agli amici o ai nemici (...). A chi adorava le pietre o il legno o ai cristiani che adorano il Creatore dell’Universo (...). Dunque, per forza di cose, il cristiano è più forte del gentile” (9).
Inoltre padre da Ribadeneyra dimostra in Il Principe cristiano che la blanda educazione del Seicento non è quella cristiana ma quella umanista e rinascimentale o neopagana; infatti, il Vangelo predica durezza, povertà, temperanza, lavoro e ogni virtù che generi la fortezza, e impone di educare con severità i figli. Nel quarantaquattresimo e ultimo capitolo de Il Principe cristiano ci insegna che il Principe cristiano deve onorare l’arte militare.
“I buoni soldati sono i difensori del regno; infatti, proteggono la religione, rafforzano la giustizia, castigano i facinorosi, proteggono i lavoratori, i giovani, le donne e lo stesso Principe. (...). Inoltre, è necessario che sia tenuta in gran conto la disciplina militare, affinché i soldati siano veramente ancorati alla fortezza cristiana e non siano banditi da strada, siano ministri di Dio e non di Satana, difensori e non distruttori della patria (...). Senza questa disciplina i soldati diventano una rovina” (10).
“La fortezza è necessaria al Principe per governare i popoli, essa si manifesta soprattutto in guerra e, anche se appartiene a tutti i soldati, tuttavia si addice particolarmente al Principe, che è capo e guida (...) e che fortifica l’animo dei soldati con la sua fortezza (…) ma vi sono guerre più gravi e più atroci: quelle del demonio contro le anime (...). In questo combattimento spirituale i Prìncipi cristiani devono aiutare la Chiesa (...) come scrive sant’Agostino nella Lettera a Vincenzo Donatista, dove dimostra che è giusto che i pagani e gli eretici siano puniti dai Prìncipi terreni. Anche san Gregorio, nella Lettera al Prefetto dell’Africa Pantaleone, scrive di schiacciare gli eretici donatisti e, nella Lettera all’imperatore Maurizio e a Brunilde (...), di perseguitare, come idolatri, gli eretici. E anche in tempo di pace il Principe dovrà lavorare molto e spesso restare sveglio durante la notte, pensando e ripensando ai rimedi che bisognerà apprestare ai propri sudditi” (11).
Nel capitolo quindicesimo padre Pedro dimostra che anche la clemenza è necessaria al Principe per governare i popoli: “Se l’anima (...) comincia a trattare il suo corpo troppo severamente con digiuni e veglie, questo, ribellandosi, rifiuta di fare il proprio dovere. Così se il Principe, sull’esempio dell’anima o dello spirito, governa i popoli come sue membra con clemenza e dolcezza ed impone un giogo sopportabile, (...) sperimenterà a sua volta, che i popoli lo amano, sono obbedienti e fedelissimi senza esitazione. Se, al contrario, sperimenteranno il loro Principe non come un padre clemente, ma come un severo padrone, questi non dovrà meravigliarsi se sarà odiato e abbandonato dai sudditi quando avrà maggior bisogno di aiuto” (12).
La nostra è - come nel Getsemani 2000 anni fa - “l’ora del Potere delle tenebre”. Questa è l’ora dell’assalto finale dopo 50 anni di trincea anti-modernista. Dunque la nostra è l’ora che richiede la virtù soprannaturale della fortezza più che mai. Solo l’umile, il povero di spirito, il fedele, l’amante di Dio e della sua Verità resisterà. Solo il vero eroismo soprannaturale ci salverà, non l’eroismo tutto impulso, passione, fragore, tempesta, romanticismo e neppure il Cristianesimo a metà, le scelte indecise, il rispetto umano di schierarci, la preoccupazione delle complicazioni e delle sconfitte umane, l’esser pronti a scendere a patti con l’errore, il non osar dire chiaramente tutta la verità.
Che Dio ci aiuti a essere eroici come lo fu Gesù al Getsemani, i fratelli Maccabei, santa Maria Goretti, il colonnello Moscardo e tanti altri piccoli eroi (per esempio il seminarista Rolando Rivi) che in silenzio, senza scoppiettii romantici, hanno saputo “vincere se stessi e ordinare la loro vita a Dio, senza essere dominati da nessun affetto disordinato” (S. IGNAZIO DA LOYOLA, Esercizi Spirituali, n. 21).
____________________________1 - Cfr. M. DE CORTE, De la Force, Saint-Brieuc, DMM, 1980; J. PIEPER, La Forza, Brescia, Morcelliana, 1967.
2 - Cfr. anche PLATONE, Repubblica, 442b.
3 - Cfr. M. DE CORTE, L’Ethique à Nicomaque. Introduction à la Politique, Parigi, 1978. 4 - “Tutte le virtù si riferiscono a Dio, sia direttamente sia indirettamente; quindi, esse sono una confessione, implicita o esplicita, di fede. Dunque non solo la fede è causa di martirio ma ogni virtù” (S. Th., II-II, q. 124, a. 5). È per questo motivo che santa Maria Goretti, la quale si fece uccidere (5 luglio 1902) piuttosto che ledere la purezza, è stata canonizzata da Pio XII nel 1950 come Martire.
5 - Cfr. S. TOMMASO MORO, Nell’Orto degli Ulivi, Milano, Ares, 1982; L. DE LA PALMA, La Passione del Signore, Milano, Ares, 1980.
6 - Sono coloro che “vorrebbero far la volontà di Dio, ma a condizione che Dio li lasci liberi di far la loro volontà”. Essi sono come donna Prassede dei Promessi sposi di Manzoni, la quale voleva far sempre la volontà di Dio, ma aveva il gran difetto di scambiare e di prendere il proprio cervello per la divina volontà.
7 - Cfr. M. DE CORTE, La vertu de Force contre la violence révolutionnaire, in “Force et Violence”, Actes du Congrès de Lausanne VII, aprile-maggio 1972; A. SOLGENITSIN, Il Declino del Coraggio, Discorso tenuto all’Università di Harvard, 1978.
8 - Molto bello il film degli anni Quaranta “L’assedio dell’Alcazar”, che si può scaricare da internet.
9 - P. DA RIBADENEYRA, Il Principe cristiano, Siena, Cantagalli, 1978, vol. II, pp. 136-140.
10 - Ibidem, pp. 170-171.
11 - Ibidem, pp. 127, 129 e 131.
12 - Ibidem, p. 159.
Fine quarta e ultima parte
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