In altri tempi, diciamo più normali, e non offuscati dal delirio nichilista che imperversa nelle nostre stanche decadenti e degradate società, una tale decisione sarebbe stata ferocemente avversata in nome del diritto alla maternità. Diritto conquistato da sacrosante lotte, che hanno posto il valore sociale della maternità, tradotto in norme di legge atte a garantire alla donna lavoratrice congedo obbligatorio prima e dopo il parto e poi altre forme di tutela. Ma ciò non ha impedito che spesso si ricorresse al ricatto: giovani lavoratrici obbligate al momento della sottoscrizione del contratto a firmare “dimissioni in bianco” (cioè senza data) nel caso fossero rimaste incinte. Amazon non ha bisogno di dimissioni in bianco, va direttamente al cuore del problema, la maternità interrompe il flusso della produzione, è quindi un costo da abbattere, per questo interviene per sostenere l’interruzione della gravidanza.
Il fatto è che purtroppo la maternità ha smesso di essere considerata un valore, un figlio in arrivo non è più salutato dalla comunità con gioia perché in esso si rinnova la vita, e così si facilitano i percorsi all’interruzione della gravidanza basta che solo si accenni all’intenzione di volervi ricorrere. Per cui proposte di sostegno alla maternità, sia economico che morale, quando si affaccia il dubbio dell’aborto, vengono considerate dal bel mondo progressista come un attacco al “diritto” della libertà della donna. Come se la rinuncia – perché si è ricevuto un sostegno – all’interruzione di gravidanza rappresentasse una grave sconfitta della libertà individuale femminile e non il frutto benefico di un intervento teso a considerare la vita nascente patrimonio di tutti.
E così Amazon, nota per la sua spietata gestione dell’organizzazione del personale – dove anche la pipì è temporizzata – diventa la paladina dei diritti civili, e non una odiosa controparte da combattere per le sue pratiche antisindacali (e immorali). No Amazon! (Antonio Catalano)
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