Continuiamo con la quarta parte dello studio di José A. Ureta su Desiderio Desideravi. Prima seconda e terza parte consultabili: 1. Il primato dell'adorazione qui; 2. Oscuramento della centralità della Passione redentrice qui; 3. Dal Sacrificio del calvario al memoriale della presenza qui. Qui l'indice dei precedenti e correlati.
Da sacerdoti del sacrificio a presidenti di assemblea (4/5)
Il ruolo unico del sacerdote nella Messa
Nella Mediator Dei, Pio XII insegna esplicitamente che “ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l'imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale, in virtù della quale, come rappresentano davanti al popolo loro affidato la persona di Gesù Cristo, così rappresentano il popolo davanti a Dio”. Ma, aggiunge, nella Santa Messa “il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì sé stesso per esse: perciò va all'altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo (San Roberto Bellarmino, De missa II c.l.). Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali.
“Prima di rappresentare il popolo presso Dio, il sacerdote rappresenta il divin Redentore, e perché Gesù Cristo è il Capo di quel corpo di cui i cristiani sono membra, egli rappresenta Dio presso il suo popolo. La potestà conferitagli, dunque, non ha nulla di umano nella sua natura; è soprannaturale e viene da Dio: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi . . . (Joh. 20, 21), chi ascolta voi, ascolta me... (Luc. 10, 16), andando in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura; chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo» (Marc. 16, 15-16). Perciò il sacerdozio esterno e visibile di Gesù Cristo si trasmette nella Chiesa non in modo universale, generico e indeterminato, ma è conferito a individui eletti, con la generazione spirituale dell'Ordine, uno dei sette Sacramenti, il quale non solo conferisce una grazia particolare, propria di questo stato e di questo ufficio, ma anche un carattere indelebile, che configura i sacri ministri a Gesù Cristo sacerdote, dimostrandoli adatti a compiere quei legittimi atti di religione con i quali gli uomini sono santificati e Dio è glorificato, secondo le esigenze dell'economia soprannaturale”.
È chiaro che i riti e le preghiere del sacrificio eucaristico “dimostrano che l'oblazione della vittima è fatta dai sacerdoti in unione con il popolo”. Poiché "Col lavacro del Battesimo, difatti, i cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del «carattere» che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo”.
Ma in che modo il popolo deve partecipare agli atti di sacerdozio di Cristo? “I fedeli devono partecipare al sacrificio eucaristico, unendosi spiritualmente a Lui e per mezzo di Lui, e con Lui devono anche offrire sé stessi” (n. 99). Ma Pio XII ha sentito il dovere di ribadire ancora una volta che “poiché i fedeli cristiani partecipano al sacrificio eucaristico, non per questo godono anche del potere sacerdotale” (n. 102). Tale insistenza è giustificata perché già allora alcuni ritenevano “che il precetto dato da Gesù agli Apostoli nell'ultima cena di fare ciò che Egli aveva fatto, si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei cristiani” e giudicavano “che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria ‘concelebrazione’”.
Contro questo errore, la Mediator Dei ha insegnato che “L'immolazione incruenta per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole della consacrazione, Cristo è presente sull'altare nello stato di vittima, è compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli”. Questi ultimi offrono il sacrificio attraverso le mani del sacerdote “perché il ministro dell'altare agisce in persona di Cristo in quanto Capo, che offre a nome di tutte le membra; per cui a buon diritto si dice che tutta la Chiesa, per mezzo di Cristo, compie l'oblazione della vittima”. “Quando, poi, si dice che il popolo offre insieme col sacerdote, non si afferma che le membra della Chiesa, non altrimenti che il sacerdote stesso, compiono il rito liturgico visibile - il che appartiene al solo ministro da Dio a ciò deputato - ma che unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione e il suo ringraziamento alla intenzione del sacerdote, anzi dello stesso Sommo Sacerdote, acciocché vengano presentate a Dio Padre nella stessa oblazione della vittima, anche col rito esterno del sacerdote”.
Logicamente, Pio XII conclude spiegando che né le Messe private senza la partecipazione del popolo, né la celebrazione simultanea di più Messe private su altari diversi, possono essere condannate con l'erronea motivazione del “carattere sociale del sacrificio eucaristico”. Il santo sacrificio della Messa, infatti, “ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale, in quanto l'offerente agisce a nome di Cristo e dei cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l'offre a Dio per la Santa Chiesa Cattolica e per i vivi e i defunti”. Per questo “il popolo non è in alcun modo tenuto a ratificare ciò che fa il ministro all'altare” né è necessario che il popolo cristiano si accosti alla mensa eucaristica per garantire l'integrità del sacrificio, rendendo “la santa Comunione compiuta in comune quasi il culmine di tutta la celebrazione”.
I Riformatori rifiutano il ruolo unico del sacerdote e lo fondono in una "assemblea celebrante".
Chiaramente questa netta distinzione gerarchica tra celebrante e fedeli - che fino alle riforme conciliari era molto evidente con l'esistenza della balaustra per la comunione, che separava il presbiterio, riservato ai ministri dell'altare, dalla navata dove rimanevano i fedeli - era insopportabile per i riformatori di stampo egualitario. Per ridurla, hanno fatto ricorso allo stratagemma della "riscoperta" dell'assemblea. Il già citato gesuita Juan Manuel Martín-Moreno spiega:
"L'ecclesiologia che derivava dalla divisione tra clero e laici era perfettamente visibile nella liturgia pre-vaticana (sic). I cori dei canonici erano situati nella parte privilegiata delle cattedrali, isolati dagli altri da grate. Il presbiterio si trovava sulle alture, separato dai fedeli da una grandiosa scalinata. Questo sottolinea il ruolo di mediazione del sacerdote, situato in alto, a metà strada tra cielo e terra.
"Ma la Lumen Gentium inizia con una considerazione sul Popolo di Dio prima di parlare dei diversi ministeri nella Chiesa. L'ecclesiologia di comunione [19] abbracciata dal Vaticano II si rifletterà nella grande importanza dell'assemblea nella liturgia. Questa è forse una delle caratteristiche più emblematiche della riforma liturgica.
"Il ruolo di mediazione tra Dio e l'uomo non è più del presbitero, ma dell'assemblea, all'interno della quale il presbitero esercita la sua funzione. Non opponiamo il presbitero all'assemblea. Allo stesso modo in cui non opponiamo la testa al corpo. Anche la testa fa parte del corpo. Non c'è corpo senza testa. Non c'è assemblea senza ministeri.
"Ma non ci sono nemmeno ministeri senza un'assemblea. L'origine ultima del ministero non è l'assemblea, ma Cristo, ma, come dice Borobio, «il ministero non nasce a parte o senza la comunità». Il ministro non riceve il suo mandato direttamente da Cristo, come gli apostoli o Paolo (...) [20].
“La parola assemblea è la traduzione di qhl, che in greco si traduce con ekklesia o synagoge. Queste parole designano la convocazione, l'atto di riunirsi e la comunità riunita. Il Qahal è l'assemblea generale del popolo. Nella sua evoluzione semantica ha designato la chiamata, l'elevazione, il raduno, la comunità riunita, la Chiesa. Ecclesia non è semplicemente la Chiesa, ma la Chiesa convocata e riunita in un luogo e in un momento specifico per celebrare i misteri del culto. (...)
"È questa Chiesa o assemblea, che comprende il vescovo, i presbiteri e i diaconi, che partecipa direttamente e formalmente al sacerdozio di Cristo. L'assemblea riunita è il riflesso e l'espressione della Chiesa. In essa la Chiesa si incarna e diventa visibile; in essa e attraverso di essa la Chiesa si proietta nel mondo, soprattutto nella Chiesa locale che celebra sotto la presidenza del Vescovo. Con questo il Concilio non intende escludere che esistano altre manifestazioni della Chiesa. La liturgia è l'espressione più visibile della Chiesa, ma non l'unica. La Chiesa si manifesta anche nell'azione caritatevole dei cristiani e in molti altri modi.
"La base di questa partecipazione è, come abbiamo già detto, il sacerdozio comune dei fedeli. Nell'Eucaristia il popolo offre i doni insieme al presbitero. In SC 48 si dice che i fedeli «imparano a offrire sé stessi offrendo l'ostia immacolata non solo per mano del sacerdote, ma insieme a lui». A questo punto la Sacrosanctum Concilium va oltre la Mediator Dei che utilizzava l'espressione quodammodo, "in un certo modo". Questa espressione è stata soppressa dal Concilio.
"Da qui nasce la consapevolezza che le azioni liturgiche non sono private ma hanno un carattere comunitario (SC 26). È necessario restituire al corpo della Chiesa ciò che è sempre stato suo patrimonio; l'assemblea deve recuperare il protagonismo che aveva perso a causa di un clericalismo abusivo (...).
"Questa insistenza sul carattere comunitario della celebrazione è la ragione della rinascita della concelebrazione, che ha contribuito a de-privatizzare la Messa e a sottolineare l'unità del sacerdozio e del sacrificio eucaristico (SC 57). Da questo punto di vista, oggi è incomprensibile che nella liturgia pre-vaticana (sic) possano essere celebrate contemporaneamente diverse liturgie nella stessa chiesa, e che alcuni fedeli possano assistere a una e altri a un'altra.
"Perciò oggi non possiamo più parlare di un'assemblea che assiste alla Messa, ma di un'assemblea che celebra la Messa. Il vescovo o il sacerdote che presiede la celebrazione non può più essere chiamato celebrante - perché sono tutti celebranti - ma presidente. Questo, che era già stato accennato nel Sacrosanctum Concilium (n. 26), è espressamente affermato nella Institutio Generalis Missale Romanum 1 e 7. L'espressione popolare "Messa udita" è bandita per sempre. (...)
"Questa ecclesiologia di comunione [vedi] finisce per influenzare anche i più piccoli dettagli della riforma liturgica. Ha una grande influenza sull'architettura delle chiese post-conciliari, dove il presbiterio è ora elevato sopra l'assemblea solo minimamente, in modo che le sue azioni possano essere viste da tutti. Sono state eliminate le grate e le ringhiere della comunione. Il centro della chiesa è l'altare e non il tabernacolo, che ora è stato spostato in una cappella laterale. La pianta della navata non è più rettilinea, simile a un tram, ma semicircolare, in modo che i fedeli possano vedersi meglio e sentirsi più partecipi. Gli altari laterali attaccati alle navate laterali sono stati eliminati. Il coro in fondo alla chiesa è scomparso. Il ministero del canto non può essere collocato al di fuori dell'assemblea, ma come parte di essa" [21].
Il sacerdote è ridotto a "presidente dell'assemblea" e i laici sono elevati a concelebranti.
Che il celebrante sia l'intera assemblea e che il ministro dell'altare sia ridotto al rango di presidente dell'assemblea è ciò che Desiderio Desideravi sottolinea, non negando, ma omettendo completamente che solo il sacerdote compie in persona Christi l'immolazione incruenta del sacrificio eucaristico.
La parola sacerdote - che definisce precisamente colui che compie e offre il sacrificio - compare solo tre volte nelle versioni italiana (originale) e spagnola dell'esortazione, due delle quali solo per riferirsi a un chierico ordinato. Ma l'espressione "presbitero" - che nella sua origine greca e latina significa solo "il più anziano", il "decano" - è usata 12 volte in italiano e 15 in spagnolo. Mentre "presidenza" e il verbo presiedere (o le sue coniugazioni) compaiono 14 volte, l'espressione "celebrante" compare solo una volta e insinua che si applica a tutta l'assemblea: “Ricordiamoci sempre che è la Chiesa, Corpo di Cristo, il soggetto celebrante, non solo il sacerdote” (n.36). E più avanti lo afferma esplicitamente: “Anche il presbitero viene formato dal suo presiedere l’assemblea che celebra” (n. 56).
Il documento riconosce che per quanto concerne l'ufficio del sacerdote “non si tratta primariamente di un compito assegnato dalla comunità, quanto, piuttosto, della conseguenza dell’effusione dello Spirito Santo ricevuta nell’ordinazione che lo abilita a tale compito”. Ma, nel definire il loro compito, non dice che si tratta del compito sacerdotale di sacrificare sacramentalmente la Vittima, bensì del compito di presiedere le assemblee: “Il presbitero vive la sua tipica partecipazione alla celebrazione in forza del dono ricevuto nel sacramento dell’Ordine: tale tipicità si esprime proprio nella presidenza” (n. 56).
Nel paragrafo successivo si offre un'interpretazione esclusivamente anabatica e discendente della sua missione mediatrice, omettendo che il sacerdote offre a Dio il sacrificio a nome di tutta la Chiesa: “Perché questo servizio venga fatto bene – con arte, appunto – è di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto. Il ministro ordinato è egli stesso una delle modalità di presenza del Signore che rendono l’assemblea cristiana unica, diversa da ogni altra (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo fatto dà spessore sacramentale – in senso ampio – a tutti i gesti e le parole di chi presiede. L’assemblea ha diritto di poter sentire in quei gesti e in quelle parole il desiderio che il Signore ha, oggi come nell’ultima Cena, di continuare a mangiare la Pasqua con noi” (n. 57).
Le individualità si sono fuse nel collettivo
Questa quasi totale sommersione del ministro ordinato nell' "assemblea" è verificata, d'altra parte, dal fatto che essa viene menzionata 18 volte, sottolineando la sua funzione celebrativa e il suo carattere collettivo, che spesso rende difficile a ciascun fedele rendere a Dio un culto veramente interiore, offrendosi personalmente a Lui in intima unione con Cristo-Vittima: “Penso a tutti i gesti e le parole che appartengono all'assemblea: riunirsi, camminare in processione, sedersi, stare in piedi, inginocchiarsi, cantare, stare in silenzio, acclamare, guardare, ascoltare. Ci sono molti modi in cui l'assemblea, come un unico uomo (Neh 8,1), partecipa alla celebrazione. Compiere lo stesso gesto tutti insieme, parlando tutti allo stesso tempo, trasmette ai singoli la forza dell'intera assemblea. È un'uniformità che non solo non mortifica ma, al contrario, educa ogni fedele a scoprire l'autentica unicità della sua personalità, non in atteggiamenti individualistici, ma nella consapevolezza di essere un solo corpo” (n. 51).
Quanto più giudiziosa era la seguente raccomandazione di Pio XII: “L'ingegno, il carattere e l'indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime non sono uguali in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli. Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto, che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura”. (Mediator Dei, n. 133)
Ci si può chiedere se buona parte dell'abbandono della Messa domenicale dopo la riforma liturgica non derivi dal disappunto di molti fedeli per il carattere "assemblearista" e collettivista con cui il nuovo rito è stato celebrato nella maggior parte delle parrocchie, senza lasciare spazio alla pietà individuale. E soprattutto bisognerebbe chiedersi se la forte diminuzione del numero di ammissioni ai seminari non sia dovuta al fatto che alcuni di coloro che sentono la chiamata vocazionale non rispondono positivamente perché l'immagine di un ministro ordinato come semplice "presidente di assemblea" non corrisponde all'immagine tradizionale del sacerdozio, dove il sacrificio personale della propria vita trova il suo modello e la sua consumazione nella realtà sacrificale della Santa Messa.
José Antonio Ureta - Fonte: Onepeterfive, 11 Agosto 2022. Traduzione a cura di T.F.P. – Italia.
_____________________________[19] Ci sia consentita una breve deviazione per sottolineare la vaghezza del concetto di "ecclesiologia di comunione", che è sulla bocca di tutti dopo il Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, nel tentativo, non riuscito, di risolvere il conflitto tra il concetto tradizionale di Chiesa-società perfetta e gerarchica e la Chiesa-Popolo di Dio egualitaria delle comunità di base. P. Juan Manuel Martín-Moreno S.I. ha forse ragione a portare questo concetto all'interno della sua visione dell'assemblea liturgica...
[20] È evidente che gli attuali ministri dell'altare non hanno ricevuto il mandato direttamente da Cristo, ma dal vescovo che li ha ordinati. Tuttavia, l'opinione secondo cui tale trasmissione avviene attraverso l'intermediazione della comunità è stata condannata da Papa Pio VI nella Bolla Auctorem fidei: "È eretica la proposizione secondo cui la potestà è stata data da Dio alla Chiesa per essere comunicata ai pastori che sono i suoi ministri per la salvezza delle anime, intesa nel senso che dalla comunità dei fedeli deriva ai pastori la potestà del ministero e del governo ecclesiastico" (Denz./Hün. 2602).[21] Padre Juan Manuel Martín-Moreno, Apuntes de Liturgia, p. 60-62.
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