Nella nostra traduzione da New Liturgical Movement un saggio del card. Alfons Stickler, di particolare interesse perché è una testimonianza diretta del sovvertimento operato con lo scostamento dal dettato conciliare del Vaticano II sulla liturgia. In proposito ricordo come la prima rivoluzione avvenne con la sostituzione degli schemi preparatori. Utile al riguardo il saggio di Paolo Pasqualucci: Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II (Fede & Cultura, Verona 2014, pp. 123) che illustra anche ai non addetti ai lavori come sessant’anni fa venne a costituirsi un vero e proprio Concilio in linea con la Tradizione della Chiesa a fianco di un Concilio rivoluzionario, e ciò accadde fin dall’alba di quella che Giovanni XXIII definì «la nuova pentecoste», come se lo Spirito Santo dovesse scendere in terra una seconda volta e per volere umano. Fu proprio Giovanni XXIII a manovrare segretamente in accordo con gli “ecumenici”. Pasqualucci spiega accuratamente lo svolgersi dei fatti, dove la cronaca storica, metodologica e tecnica si intreccia alla volontà di gettare alle ortiche gli schemi preparatori, ovvero le architravi che avrebbero dovuto sostenere l’intero impianto conciliare. È noto infatti che gli schemi preparatori delle costituzioni conciliari, elaborati sotto la supervisione del S. Uffizio di Ottaviani e Tromp sj, sono stati fatti cadere in Concilio grazie ai noti colpi di mano dei progressisti. Essi contenevano una critica ed una condanna ragionata e razionale del mondo contemporaneo, il quale già mostrava i primi sintomi di quella impressionante decadenza che oggi affligge noi tutti e la Chiesa nel modo che sappiamo. Torneremo sull'argomento, in particolare consultando. Quanto allo Schema preparatorio sulla Liturgia, è l'unico non sostituito in quanto preparato da una commissione in cui i novatori erano in maggioranza ma, con alcune correzioni di Giovanni XXIII et alia, coincide con la Sacrosanctum concilium. Su questa costituzione vedi qui - qui. Precedenti su Roche: qui - qui - qui.
Ricordi di un perito del Vaticano II, del cardinale Alfons Stickler: un altro chiodo nella bara della narrazione di Roche
di Peter Kwasniewski
Recentemente ho condiviso sui social media un brano tratto da una lettera del 1976 indirizzata da Joseph Ratzinger a Wolfgang Waldstein in cui egli affermava: “Il problema del nuovo Messale risiede nel fatto che rompe con tale ininterrotta tradizione, vigente prima e dopo Pio V, e istituisce un testo totalmente inedito (benché raccolga materiale antico), il cui avvento è stato accompagnato da una sorta di proibizione dei riti precedenti assolutamente inaudita, nella storia del diritto ecclesiastico e della liturgia. Posso affermare con sicurezza, in base alla mia conoscenza del dibattito conciliare e per aver riletto i discorsi dei Padri pronunciati all’epoca, che ciò non corrisponde alle intenzioni del Concilio Vaticano II”. È bene rammentare che Ratzinger non fu l’unico alto prelato ad avere quell’impressione. Di seguito si riportano alcuni ricordi del cardinale Alfons Stickler, prefetto emerito della Biblioteca e degli archivi vaticani, che fu perito della Commissione per la liturgia del Concilio Vaticano II. Questo saggio apparve originariamente in Die heilige Liturgie, a cura di Franz Breid (Steyr, Austria, Ennsthaler Verlag, 1997), tradotto da Thomas E. Woods, Jr. e pubblicato nel numero Inverno 1999 della rivista The Latin Mass, e qui ripubblicato con il loro permesso.
Cardinale Alfons Stickler
La mia posizione al Concilio: vogliatemi scusare se inizio con l’esporre il mio curriculum; è necessario per comprendere quel che ho da dire. Sono stato docente di diritto canonico e storia della legislazione ecclesiastica presso l’Università Salesiana e per otto anni, dal 1958 al 1966, anche rettore. In quanto tale ho collaborato come consulente con la Congregazione romana per i seminari e le università e, a partire dai lavori preparatori fino all’attuazione delle deliberazioni conciliari, sono stato membro della commissione conciliare diretta da quel Dicastero. Inoltre, sono stato nominato perito della Commissione per il clero…
Poco prima dell’inizio del Concilio, il cardinale Larraona, già mio insegnante alla Lateranense, che era stato nominato a presiedere la Commissione conciliare per la liturgia, mi chiamò per dirmi che aveva suggerito il mio nome quale perito di quella Commissione. Obiettai che ero già impegnato in altre due, soprattutto quella per i seminari e le università, e come perito conciliare. Ma egli insistette che serviva un canonista, considerata l’importanza del diritto canonico nei vari aspetti della liturgia. Assumendo un incarico non richiesto, mi ritrovai dunque a seguire il Vaticano II fin dall’inizio.
È risaputo che la liturgia era al primo posto nell’elenco degli argomenti da discutere. Fui inserito in una sottocommissione che doveva analizzare i modi dei primi tre capitoli, e predisporre altresì i testi da presentare all’aula conciliare per il dibattito e la votazione. La sottocommissione era composta da tre vescovi – l’arcivescovo Callewaert di Gand ne era il presidente, c’era poi il vescovo Enciso Viana di Majorca e se non erro il vescovo Pichler della Jugoslavia – e da tre periti, il vescovo Marimort, il claretiano spagnolo padre Martinez de Antoñana ed io. Dunque sapevo perfettamente quali fossero i desideri dei Padri conciliari, e quale il senso corretto dei testi votati e adottati dal Concilio. Immaginerete quindi il mio stupore quando mi resi conto che l’edizione finale del nuovo Messale romano (del 1969) per molti aspetti non corrispondeva ai testi conciliari che conoscevo così bene, e conteneva diversi elementi che ampliavano, mutavano o addirittura contrastavano espressamente con le disposizioni conciliari. Poiché conoscevo alla perfezione l’intero svolgimento del Concilio, dalle spesso interminabili discussioni e dai dibattiti sui modi alle ripetute votazioni per arrivare alle formulazioni finali, così come i testi che includevano la precisa regolamentazione per l’attuazione dell’auspicata riforma, immaginerete lo sconcerto, il crescente disappunto, anzi l’indignazione da me provata, specie per le precise contraddizioni e i cambiamenti forieri di inevitabili, durature conseguenze.
Decisi così di rivolgermi al cardinale Gut, che l’8 maggio 1968 era stato nominato prefetto della Congregazione dei riti al posto del cardinale Larraona, il quale aveva rassegnato le dimissioni da quella carica il 9 gennaio dello stesso anno. Gli chiesi di essere ricevuto nel suo appartamento, udienza che mi concesse il 19 novembre 1969 (faccio incidentalmente notare che la data di morte del cardinale Gut viene ripetutamente citata in modo erroneo nelle memorie dell’arcivescovo Bugnini come l’8 dicembre 1969 anziché l’8 dicembre 1970, un anno dopo).
Mi accolse con grande cordialità, benché fosse già visibilmente malato, e io mi aprii con lui, per così dire. Mi lasciò parlare senza interrompermi per mezz’ora, poi disse che condivideva totalmente le mie preoccupazioni. Sottolineò, comunque, che la Congregazione dei riti non aveva alcuna responsabilità, poiché l’intero lavoro di riforma era stato svolto dal Consiglio, nominato specificamente dal Papa a tale scopo, e per il quale Paolo VI aveva scelto il cardinal Lercaro come presidente e monsignor Bugnini come segretario. Il gruppo operava sotto la diretta supervisione del Papa.
Ebbene, monsignor Bugnini era stato segretario della Commissione preparatoria conciliare per la liturgia. Poiché il suo lavoro non era risultato soddisfacente – era stato svolto sotto la direzione del cardinal Gaetano Cicognani – egli non era stato promosso a segretario della Commissione conciliare; al suo posto fu nominato fra’ Ferdinando Antonelli OFM (in seguito cardinale). Un gruppo organizzato di liturgisti presentò a Paolo VI questa mancata nomina come un’ingiustizia verso Bugnini, riuscendo a far sì che il nuovo pontefice, assai sensibile a tali metodi, rimediasse all’ “ingiustizia” nominando Bugnini segretario del nuovo Consiglio responsabile dell’attuazione della riforma.
Entrambe quelle nomine – del cardinal Lercaro e di monsignor Bugnini – a posizioni chiave all’interno del Consiglio fecero sì che venissero ascoltate delle voci ignorate durante i lavori del Concilio e, analogamente, che ne venissero ridotte al silenzio altre. Il lavoro del Consiglio si svolse in luoghi inaccessibili a chi non ne era membro.
(Naturalmente sarà il tempo a rivelare il motivo per cui, nonostante il loro grande impegno nell’immenso e delicato lavoro del Consiglio e specialmente nel cuore della riforma, il nuovo Ordo Missae, redatto con tanta rapidità, entrambi caddero in disgrazia: il cardinal Lercaro dovette rinunciare alla carica di arcivescovo, e monsignor Bugnini, nominato anch’egli arcivescovo nonché nuovo segretario della Congregazione dei riti nel 1968, non ricevette la berretta rossa a cui una posizione del genere avrebbe dato diritto, bensì fu nominato nunzio apostolico a Teheran, carica che mantenne finché non concluse la sua opera terrena il 3 luglio 1982).
Per poter valutare l’accordo o la contraddizione fra le norme conciliari e la riforma come fu concretamente attuata, consideriamo in breve gli aspetti più importanti delle istruzioni del Concilio in merito al lavoro di riforma.
Le istruzioni generali, riguardanti soprattutto i fondamenti teologici, sono contenute principalmente nell’articolo 2 della Sacrosanctum Concilium. Qui si afferma in primis la natura terrena e divina della Chiesa, il suo Mistero, come la liturgia dovrebbe esprimerlo: ogni manifestazione umana dev’essere ordinata al divino e ad esso subordinata; il visibile all’invisibile; l’azione alla contemplazione; quella presente alla futura città di Dio verso cui tendiamo. Di conseguenza, il rinnovamento della liturgia deve andare di pari passo con lo sviluppo e il rinnovamento del concetto di Chiesa.
L’articolo 21 stabilisce la condizione preliminare a qualsiasi riforma liturgica, cioè che nella liturgia esiste una parte immutabile, in quanto decretata da Dio, e parti che possono essere modificate, vale a dire quelle introdotte in maniera impropria nel corso del tempo o che si sono dimostrate meno appropriate. Testi e riti devono corrispondere all’ordine esplicitato all’articolo 2, e possono così essere meglio compresi e vissuti dal popolo.
All’articolo 23 compaiono soprattutto criteri pratici da seguire per determinare un giusto rapporto fra tradizione e progresso. Bisogna intraprendere una precisa indagine teologica, storica e pastorale; inoltre vanno considerate le norme generali della struttura e del senso della liturgia, e l’esperienza derivata da recenti riforme liturgiche. Si enuncia poi come principio generale che l’innovazione venga introdotta solo se comporta un genuino beneficio per la Chiesa. Infine, le forme nuove devono sempre svilupparsi in maniera organica da quelle già esistenti.
Vorrei sottolineare le norme pratiche scaturenti per il lavoro di riforma dalla natura didattica e pastorale della liturgia. In base all’articolo 33, la liturgia è principalmente il culto alla maestà di Dio, in cui i fedeli entrano in relazione con Lui attraverso segni visibili impiegati dalla liturgia per esprimere realtà invisibili, scelti da Cristo stesso o dalla Chiesa. Qui troviamo un’eco vibrante di ciò che il Concilio della Chiesa cattolica di Trento già raccomandava per proteggere il suo patrimonio dal vuoto razionalistico e aspirituale del culto protestante, un patrimonio che il Santo Padre [Giovanni Paolo II] nei suoi scritti sulle Chiese orientali ha dipinto come il loro particolare tesoro. Questo “particolare tesoro” merita anche di essere fonte di nutrimento per la Chiesa cattolica. Si caratterizza per il fatto di essere ricco di simbolismo, fornendo così un’educazione e un arricchimento didattici e pastorali, rendendolo meravigliosamente adatto anche alle persone più semplici. Se consideriamo che le Chiese ortodosse, benché separate dalla pietra su cui si fonda la Chiesa, attraverso l’espressione simbolica e il progresso teologico che fanno continuamente ingresso nella loro liturgia hanno conservato la fede corretta e i sacramenti, ogni riforma liturgica cattolica romana dovrebbe ampliare piuttosto che sminuire (a volte in maniera perfino drastica) la ricchezza simbolica della sua forma di culto.
Per quanto concerne i criteri per le diverse parti della liturgia – soprattutto il suo cuore, il Sacrificio della Messa – ricordiamo solo alcuni punti particolarmente significativi per la riforma dell’Ordo Missae, su cui ci stiamo concentrando. Riguardo alla riforma dell’Ordo Missae, vanno evidenziate due direttive conciliari.
All’articolo 50 si enuncia subito la direttiva generale in base a cui nella riforma la natura intrinseca delle diverse parti della Messa e la relazione tra di esse devono essere più manifeste, in modo da rendere più agevole per i fedeli una partecipazione devota e attiva. Di conseguenza, si rimarca la necessità di semplificare i riti, pur mantenendo fedelmente la loro sostanza, e di eliminare gli elementi duplicati o aggiunti in maniera poco opportuna nel corso dei secoli; laddove altri, persi col tempo, andrebbero ripristinati in armonia con la tradizione dei padri qualora dovesse apparire appropriato o necessario.
Per quanto concerne il coinvolgimento attivo dei fedeli, i vari elementi della partecipazione esteriore sono indicati all’articolo 30, ponendo particolare enfasi sul necessario silenzio nei momenti opportuni. Il Concilio vi ritorna più dettagliatamente all’articolo 48, con una speciale osservazione sulla partecipazione interiore, solo attraverso la quale il culto divino e il conseguimento della grazia in unione col sacerdote celebrante il sacrificio e gli altri partecipanti diventano fruttuosi.
L’articolo 36 esamina in generale il linguaggio liturgico, e il 54 la Messa in casi particolari. Dopo una discussione durata diversi giorni, in cui si dibatterono argomenti a favore e contrari, i Padri conciliari giunsero alla netta conclusione – in totale accordo con il Concilio di Trento – che il latino dovesse essere mantenuto come lingua cultuale del rito latino, benché si potessero ammettere, e perfino auspicare, casi eccezionali. Ritorneremo su questo punto nel dettaglio.
L’articolo 116 tratta diffusamente del canto gregoriano, mettendo in evidenza come esso sia stato il canto tradizionale della liturgia cattolica romana sin dai tempi di Gregorio Magno, e in quanto tale lo si dovesse conservare. Anche la musica polifonica merita attenzione e dedizione. Gli altri articoli del Capitolo VI, sulla musica sacra, parlano della musica e del canto appropriati alla Chiesa e alla liturgia, e sottolineano magnificamente il ruolo importante, anzi fondamentale, dell’organo a canne nella liturgia cattolica.
Curiosamente, l’articolo 107 affronta la riforma dell’anno liturgico, con un’enfasi sulla conferma o la reintroduzione degli elementi tradizionali, salvaguardando il loro carattere specifico. Particolare importanza è data alle feste del Signore e in genere al Proprium de tempore nella sequenza annuale, al quale devono cedere posto alcune solennità in modo da non indebolire la piena efficacia della celebrazione dei misteri della redenzione.
Questa esposizione della riforma liturgica alla luce della Costituzione sulla liturgia non pretende di essere esaustiva, sia per quanto riguarda i singoli argomenti sia il modo in cui sono stati trattati. Selezionerò tra i vari esempi quelli che mi sembrano utili per giungere a una conclusione convincente.
La Chiesa e la liturgia crescono e si sviluppano insieme, ma sempre in modo tale che l’elemento terreno si organizza intorno a quello celeste. La Messa viene da Cristo; fu adottata dagli Apostoli e dai loro successori così come dai Padri della Chiesa; si è sviluppata organicamente nella consapevole conservazione della sua sostanza. La liturgia si è sviluppata insieme alla Fede che vi è racchiusa; possiamo perciò affermare, con Papa Celestino I, nei suoi scritti indirizzati ai vescovi della Gallia nel 422: Legem credendi lex statuit supplicandi. La liturgia contiene, e in modi appropriati e comprensibili rende manifesta, la Fede. In questo senso la stabilità della liturgia è un aspetto della costanza nella Fede; anzi, contribuisce a difenderla. Non vi è mai stata, dunque, in nessuno dei riti cristiano-cattolici, una rottura, una creazione totalmente nuova, se non con la riforma post-conciliare. Eppure il Concilio continuava a invocare per tale riforma una rigorosa aderenza alla tradizione. Tutte le riforme, a partire da Gregorio I e lungo il Medioevo, con l’ingresso nella Chiesa dei popoli più disparati e dei loro diversi costumi, hanno rispettato tale regola fondamentale. Questa è, tra l’altro, una caratteristica di tutte le religioni, anche di quelle non rivelate, che prova che un attaccamento alla tradizione è tipico di ogni culto, e dunque naturale.
Non sorprende perciò che ogni deviazione ereticale dalla Chiesa cattolica sia stata accompagnata da una rivoluzione liturgica, come si vede assai chiaramente nel caso dei protestanti e degli anglicani; mentre le riforme attuate dai papi, e in particolare sollecitate dal Concilio di Trento e realizzate da Pio V, fino a quelle di Pio X, Pio XII e Giovanni XXIII, non furono rivoluzioni, ma solo irrilevanti correzioni, allineamenti e arricchimenti. Nessuna novità andrebbe introdotta, come espressamente afferma il Concilio a proposito della riforma auspicata dai Padri, che non sia richiesta dal genuino bene della Chiesa.
Esistono diversi chiari esempi delle reali conseguenze della riforma post-conciliare, soprattutto nel suo nucleo, il radicalmente nuovo Ordo Missae. L’introduzione di nuovi elementi inseriti nella Messa lascia significativo spazio a molte varianti e, grazie a ulteriori concessioni all’immaginazione dei celebranti insieme alle loro comunità, sta portando a una molteplicità praticamente illimitata. C’è poi il Lezionario, cui torneremo in un altro momento. Segue quindi l’Offertorio [vedi] che, per contenuto e testo, rappresenta una rivoluzione. Non è preceduto da un atto sacrificale ma solo da una presentazione di doni dal contenuto evidentemente umano, che colpisce per la sua artificiosità, dall’inizio alla fine. In Italia è stato definito il sacrificio dei coltivatori diretti, cioè di quei pochi che coltivano ancora personalmente piccoli appezzamenti di terreno, per lo più accanto alla loro occupazione principale. Grazie ai potenti mezzi tecnici a disposizione dell’agricoltura, attività che oggi si può svolgere solo avvalendosi dell’industria, per produrre il pane non è più necessario un grande lavoro da parte dell’uomo. Dall’aratura alla mietitura fino al riempimento dei sacchi di grano, è richiesto l’impegno di poche persone. La sostituzione dell’offerta dei doni per celebrare il Sacrificio è piuttosto un infelice, datato genere di simbolismo che a malapena può rimpiazzare i tanti, autentici elementi simbolici soppressi. È stata fatta tabula rasa anche dei gesti fortemente raccomandati dal Concilio di Trento e richiesti dal Vaticano II, come dei tanti segni della croce, baci dell’altare e genuflessioni.
Il nucleo fondamentale, l’atto sacrificale, ha subito un percettibile slittamento verso la Comunione, per cui l’intero Sacrificio della Messa è divenuto un pasto eucaristico, attraverso il quale nella consapevolezza dei credenti le componenti tra loro integrate della Comunione hanno sostituito quella essenziale dell’atto sacrificale trasformante. Il cardinale Ratzinger ha anche espressamente affermato, con riferimento alle più moderne analisi dogmatiche ed esegetiche, che è teologicamente falso paragonare il pasto all’Eucarestia, il che avviene praticamente sempre nella nuova liturgia. Con ciò, sono state gettate le basi per un altro cambiamento essenziale: al sacrificio offerto da un sacerdote consacrato quale alter Christus subentra il pasto comunitario dei fedeli convenuti sotto la presidenza del celebrante. L’intervento dei cardinali Ottaviani e Bacci [vedi] persuase il Papa a capovolgere la definizione [nell’Istruzione generale originale che accompagnava il nuovo Messale] che confermava questo cambiamento nel Sacrificio della Messa; essa fu “spolpata” per ordine di Paolo VI. La correzione della definizione non comportò comunque alcuna modifica all’Ordo Missae.
Questo cambiamento al cuore del Sacrificio della Messa ricevette conferma e attuazione nella celebrazione versus populum, pratica che in precedenza era stata proibita e si poneva in antitesi all’intera tradizione della celebrazione ad orientem, in cui il sacerdote non era la controparte del popolo bensì colui che agiva in persona Christi, sotto il simbolo del sole nascente a est.
È opportuno sottolineare una modifica molto importante nella formula di consacrazione del vino nel Sangue di Cristo: le parole mysteriun fidei [vedi] sono state eliminate e inserite dopo come acclamazione collettiva dei fedeli, un bel colpo per la actuosa participatio [vedi]. Cosa si limita a dire la ricerca storica, prescritta dal Concilio prima di apportare cambiamenti? Che quell’espressione risale agli inizi della tradizione della Chiesa di Roma a noi nota, tramandata da San Pietro. San Basilio, che per via dei suoi studi ad Atene aveva sicuramente familiarità con la tradizione occidentale, a proposito della forma dei sacramenti afferma che di essa non si trova traccia nei sacri scritti apostolici che ben conosciamo, nonché in quelli dei loro successori e discepoli, a motivo della disciplina del segreto allora vigente, sulla cui base i misteri più sacri della Chiesa non dovevano essere rivelati ai pagani. Egli dice espressamente, come tutte le testimonianze cristiane, che riportano la stessa opinione, che oltre agli insegnamenti scritti giunti fino a noi vi sono anche quelli che in mysteria tradita sunt [sono tramandati nei misteri] e che risalgono alla tradizione apostolica; aggiunge che hanno entrambi lo stesso valore e non possono essere contraddetti. A titolo di esempio cita esplicitamente le parole con cui vengono preparati il Pane eucaristico e il Calice della salvezza: “Quale santo ce le ha trasmesse per iscritto?”
In tutte le epoche successive si attesta questa eredità storica nella formula della consacrazione eucaristica: il Sacramentario gelasiano – il più antico messale della Chiesa romana – presenta nel testo originale del Codice vaticano, non come aggiunta successiva, le parole “mysterium fidei” [vedi].
Ci si interroga da sempre sulla loro origine. Nel 1202 l’arcivescovo emerito Giovanni di Lione pose a papa Innocenzo III, la cui conoscenza liturgica era notoria, la questione se si dovesse credere che la formula del Canone della Messa, che non si trova nei Vangeli, fosse stata tramandata da Cristo e dagli Apostoli ai successori. In una lunga lettera del dicembre di quell’anno il Papa rispose che quelle parole, assenti nei Vangeli, andavano ritenute come trasmesse da Cristo agli Apostoli e a loro volta da questi ai successori. Il fatto che questa lettera, facente parte di una silloge di lettere decretali di Innocenzo III raccolte da Raimondo di Peñafort per ordine di Gregorio IX, non sia stata espunta come altre ugualmente antiche bensì conservata dimostra che si continuava a considerare valida tale enunciazione del grande Pontefice.
San Tommaso affronta chiaramente il tema nella Summa Theologiae III, q. 78, art. 3, che si occupa della formula della consacrazione del vino. Spiegando la necessaria disciplina del segreto della Chiesa antica, afferma che le parole “mysterium fidei” sono di tradizione divina, trasmessa alla Chiesa dagli Apostoli, con particolare riferimento a 1 Cor. 10 [11], 23 e 1 Tim. 3, 9. Un commentatore si riferisce al Gousset nell’edizione Marietti del 1939: “Sarebbe un grandissimo errore sostituire un'altra forma eucaristica a quella del Messale Romano… di sopprimere ad esempio la parola aeterni e quella mysterium fidei che abbiamo dalla tradizione”. Anche il Concilio di Firenze, nella bolla di unione con i Giacobiti, aggiunge espressamente la formula di consacrazione della Santa Messa che la Chiesa di Roma ha sempre usato sulla base dell’insegnamento e dell’autorità degli apostoli Pietro e Paolo.
Si rimane stupiti di fronte alla suprema noncuranza con cui i colleghi del cardinal Lercaro e di monsignor Bugnini hanno ignorato l’obbligo di intraprendere una dettagliata indagine storica e teologica in vista di un cambiamento così fondamentale. Se è accaduto questo in un caso del genere, come avrebbero potuto adempiere a tale imprescindibile obbligo prima di apportare altre modifiche?
L’Eucarestia non è solo l’unico mistero della nostra fede; è anche un mistero eterno, di cui dovremmo sempre rimanere consapevoli. La nostra quotidiana vita eucaristica richiede un mezzo che lo abbracci pienamente, soprattutto nell’epoca moderna, in cui l’autonomia e l’autocelebrazione dell’uomo d’oggi si oppone a ogni concetto che vada al di là della conoscenza umana, che gli ricordi i suoi limiti. Qualsiasi concetto teologico diventa per lui un problema, e la liturgia, specie a sostegno della fede, si trasforma in un costante oggetto di demistificazione, cioè umanizzata fino a renderla pienamente comprensibile. Per tale ragione l’espunzione del mysterium fidei dalla formula eucaristica diviene un potente simbolo di demitologizzazione, un simbolo dell’umanizzazione del cuore del culto divino, la Santa Messa.
Si arriva quindi alle diverse false interpretazioni – e alle ugualmente false attuazioni – di un’esigenza centrale dei riformatori: una fervente, attiva partecipazione dei fedeli nella celebrazione della Messa. Lo scopo principale della loro partecipazione è quello espressamente dichiarato dal Concilio: il culto della maestà divina. Il cuore e l’anima dei partecipanti devono perciò elevarsi in primis a Dio (il che non esclude la possibilità che si realizzi una partecipazione attiva all’interno della comunità). Soprattutto questa actuosa participatio è stata ritenuta necessaria alla luce della frequentemente lamentata apatia dei fedeli che assistevano alla Messa preconciliare. Se si trasforma in un continuo parlare e agire, che fa sentire tutti attivi in quella sorta di frenesia e di trambusto tipici di ogni assemblea umana, anche il momento più sacro dell’incontro individuale con l’Uomo-Dio eucaristico finisce per diventare un chiacchiericcio distratto. Il misticismo contemplativo dell’incontro con Dio e il Suo culto, per non parlare della venerazione che sempre deve accompagnarlo, svanisce immediatamente: l’elemento umano soppianta il divino, cuore e anima sono invasi da un senso di vuoto, di delusione.
A questo punto va menzionato un altro punto importante, un decreto conciliare non solo frainteso ma anche completamente negletto: quello riguardante la lingua del culto. Ho ben chiaro l’argomento. Come esperto della Commissione per i seminari, mi fu affidata la questione della lingua latina. Si dimostrava brachilogica e concisa e dopo una lunga discussione si arrivò a una formula che soddisfaceva i desiderata di tutti i membri, pronta per essere presentata nell’aula conciliare. A quel punto, con inattesa solennità, papa Giovanni XXIII firmò la lettera apostolica Veterum Sapientia sull’altare di San Pietro. Secondo il parere della Commissione, ciò rendeva superflua la dichiarazione del Concilio sul latino nella chiesa (nel documento ci si pronunciava non solo sul rapporto della lingua latina con la liturgia, ma anche su tutte le altre sue funzioni nella vita ecclesiastica).
Poiché il tema del linguaggio del culto venne discusso nell’aula conciliare per diversi giorni, seguii il dibattito con grande attenzione, come in seguito le varie formulazioni della Costituzione sulla liturgia fino al voto finale. Ricordo ancora molto bene che dopo varie proposte radicali un vescovo siciliano si alzò e implorò i Padri di usare cautela e riflessione per deliberare, poiché altrimenti si sarebbe corso il rischio di celebrare la messa nella lingua del popolo, al che l’intera aula proruppe in una fragorosa risata.
Quindi non riesco a capire come l’arcivescovo Bugnini abbia potuto scrivere, a proposito della radicale e completa transizione dal latino prescritto a un linguaggio del culto esclusivamente vernacolare, che il Concilio avesse praticamente affermato che il vernacolo nell’intera Messa era una necessità pastorale! (op. cit., pp. 108-121; cito dall’edizione originale in italiano).
Al contrario, posso attestare che, circa la formulazione della Costituzione conciliare su tale questione, nella parte generale (art. 36) come nelle regole specifiche sul Sacrificio della Messa (art. 54), i Padri conciliari mantennero una posizione praticamente unanime, soprattutto nel voto finale: 2152 voti a favore e solo 4 contrari. Nelle mie ricerche per il decreto conciliare sulla lingua latina, mi resi conto della convergenza di opinioni di tutta la tradizione: fino a papa Giovanni XXIII era stata manifestata una netta ostilità verso tutti i tentativi precedenti in senso contrario. Penso in particolare alla dichiarazione del Concilio di Trento, sanzionata con l’anatema, contro Lutero e il Protestantesimo; di Pio VI contro il vescovo Ricci e il Sinodo di Pistoia; e di Pio XI, convinto che la lingua del culto della Chiesa dovesse essere “non vulgaris”.
Eppure questa tradizione non è affatto una semplice questione rituale, benché sia questo l’aspetto costantemente sottolineato; in realtà essa è importante perché la lingua latina funge da reverente barriera contro la profanazione (al posto dell’iconostasi degli Orientali, dietro cui ha luogo l’anafora), e contro il rischio che attraverso la lingua volgare l’intera azione liturgica possa risultare profanata, come in effetti oggi accade spesso. Inoltre la precisione della lingua latina rende singolare giustizia ai contenuti didattici e dogmaticamente esatti della liturgia, difendendo la verità dall’offuscamento e dalla contaminazione. Infine, l’universalità del latino rappresenta e promuove al tempo stesso l’unità dell’intera Chiesa.
Per la loro importanza pratica, vorrei approfondire con alcuni esempi entrambe le questioni appena accennate. Un caro amico mi fa arrivare regolarmente il Deutsche Tagespost. Leggo sempre la penultima pagina, in cui la redazione molto lodevolmente offre ai lettori la possibilità di esprimere con lettere al direttore i loro diversi punti di vista. Una lunga serie di tali lettere ha affrontato in dettaglio il “pro multis” [qui - qui] del testo latino della formula di consacrazione e la sua traduzione “per tutti”. È stata ripetutamente chiamata in causa la filologia, che spesso domina anziché servire la teologia. Monsignor Johannes Wagner, nel suo Liturgiereformerinnerungen (1993), afferma che furono gli italiani i primi a introdurre questa traduzione, benché lui stesso avesse appoggiato quella letterale di “molti”.
Purtroppo non ho mai trovato qualcuno che si appellasse a un argomento di prim’ordine, a un tempo decisivo da un punto di vista teologico ed estremamente importante da quello pastorale; è contenuto nel Catechismo romano tridentino. Qui la distinzione teologica è chiaramente sottolineata: il “pro omnibus” indica la forza che la Redenzione ha nei confronti “di tutti”. Ma se si prende in considerazione il vero frutto che da Essa si distribuisce agli uomini, il Sangue di Cristo è efficace non per tutti, bensì solo “per molti”, cioè per quanti ne ricavano beneficio. È dunque corretto che in quel passo non si dica “per tutti”, poiché vi si parla solo dei frutti della passione di Cristo, destinati soltanto agli eletti. Qui trovano applicazione le parole dell’Apostolo in Eb. 9, 28, che Cristo ha sacrificato se stesso una volta per tutte per togliere i peccati di “molti”, e la stessa distinzione che fa Cristo: “Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi”. In questa formula della consacrazione sono racchiusi molti misteri che i pastori dovrebbero discernere grazie allo studio e con l’aiuto di Dio.
Non è difficile scorgere in tutto ciò verità pastorali di straordinaria importanza contenute in questi concetti dogmatici relativi alla lingua latina del culto, involontariamente (o addirittura volontariamente) nascosti da una traduzione non accurata.
Un’altra anche più copiosa fonte di problemi pastorali – ancora una volta contro l’esplicita volontà del Concilio – deriva dall’aver dismesso il latino come lingua del culto. Esso svolge il ruolo di idioma universale in grado di unificare il culto pubblico della Chiesa senza svilire le lingue vernacolari. Ciò assume particolare importanza al giorno d’oggi, quando il concetto in sviluppo della Chiesa mette in luce l’intero Popolo di Dio dell’unico Corpo mistico di Cristo, come altrove sottolineato nella riforma. Introducendo l’uso esclusivo della lingua vernacolare, la riforma produce tante piccole chiese separate e isolate cancellando l’unità della Chiesa. I cattolici di tutto il pianeta dove possono trovare la loro messa, superare le differenze razziali attraverso un linguaggio comune di culto, o perfino, in un mondo sempre più piccolo, pregare semplicemente insieme, come il Concilio richiede in maniera esplicita? È fattibile, da un punto di vista pastorale, per un prete compiere il più alto gesto sacerdotale, la Santa Messa, ovunque, e soprattutto in un mondo con sempre meno vocazioni?
Nella Costituzione conciliare non si parla mai dell’introduzione di un Lezionario basato su un ciclo triennale, cosa che ha reso la Commissione per la riforma responsabile di un crimine contro la stessa natura. Un semplice calendario annuale sarebbe bastato a soddisfare ogni desiderio di cambiamento. Il Consiglio avrebbe potuto limitarsi a un ciclo annuale, arricchendo le letture con un’ampia selezione di passi, quanti se ne voleva, senza alterare il corso naturale dell’anno. Invece l’antico ordine delle letture è stato cancellato e se n’è introdotto uno nuovo, con una gran mole, tra l’altro costosa, di libri, in cui possono trovare posto una congerie di testi non solo ecclesiastici, ma anche – come si è fatto spesso – di letteratura profana. Oltre alle difficoltà pastorali da parte dei parrocchiani di comprendere passi che richiedono una speciale esegesi, questa scelta si è rivelata un’occasione – di cui si è approfittato – per manipolare i testi tramandati al fine di introdurre nuove verità al posto di quelle vecchie. Passaggi sgraditi da un punto di vista pastorale – spesso di fondamentale significato teologico e morale – sono stati eliminati tout court. Un esempio tipico è il passo di 1 Cor. 11, 27-29, dove, nel racconto dell’istituzione dell’Eucarestia, la grave esortazione finale sulle serie conseguenze per chi la riceve indegnamente è stata ampiamente mutilata, perfino per la solennità del Corpus Domini. La necessità pastorale di quell’ammonimento in considerazione della odierna disinvoltura con cui ci si accosta al Sacramento senza confessarsi e senza la dovuta reverenza appare ovvia.
Che nelle nuove letture si possano prendere degli abbagli, specie nella scelta dei brani iniziali e finali, appare evidente dall’osservazione di Klaus Gamber sulla conclusione della lettura della prima domenica di Quaresima dell’Anno A, laddove si parla delle conseguenze del peccato originale: “Allora gli occhi di entrambi si aprirono, e si accorsero di essere nudi”. Al che i fedeli, adempiendo il loro dovere di viva e attiva partecipazione, devono rispondere “Rendiamo grazie a Dio”.
Ancora, perché si è ritenuto necessario alterare la sequenza delle solennità? Se c’era un punto a cui prestare attenzione era questo, mantenendo una preoccupazione pastorale e mostrandosi consapevoli dell’attaccamento dei fedeli alle festività locali, il cui spostamento temporale ha necessariamente avuto un influsso negativo sulla pietà popolare. Considerato tutto ciò, gli attuatori della riforma non hanno dimostrato grande sensibilità, malgrado gli articoli 9, 12, 13 e 37 della Costituzione sulla liturgia.
C’è ancora qualcosa da dire sull’attuazione delle norme conciliari riguardanti la musica liturgica. I nostri riformatori di certo non condividevano con laici e appassionati di canto gregoriano la grande stima per questa forma musicale, oggetto di una crescente ammirazione. La radicale abolizione (soprattutto attraverso la creazione di nuove parti corali della Messa) dell’Introito, del Graduale, del Tratto, dell’Alleluia, dell’Offertorio, della Comunione (quest’ultima specialmente come preghiera comunitaria) in favore di altre di lunghezza notevolmente superiore è stata una tacita sentenza di morte per le meravigliosa varietà delle melodie gregoriane, con l’unica eccezione delle semplici melodie per le parti fisse della Messa, cioè il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus/Benedictus e l’Agnus Dei, e questo solo per alcune Messe. Le istruzioni conciliari per la conservazione e la promozione di questo antico canto liturgico romano sono state vittima di un’epidemia praticamente letale.
L’amatissimo strumento musicale della Chiesa, l’organo a canne, ha subito una sorte simile a causa della sua ampia sostituzione con altri strumenti, la cui enumerazione e le cui caratteristiche lascio alla vostra personale esperienza, facendo solo osservare che in non pochi casi essi hanno favorito l’ingresso di elementi diabolici nella musica liturgica.
La discrezionalità concessa all’innovazione rappresenta un ultimo, importante tema di questo resoconto sugli aspetti pratici della riforma. Tale libertà di azione è presente nell’Ordine originale della Messa romana in latino. Tra i vari ordini nazionali, l’Ordine della Messa tedesco si distingue per le tante ulteriori concessioni del genere. Esso elimina di fatto lo stringente, assoluto divieto del paragrafo 3, art. 22, della Costituzione conciliare, secondo cui nessuno, nemmeno un sacerdote, può di sua autorità aggiungere, tralasciare o modificare alcunché. Le sempre più numerose violazioni nell’intero corso della Messa a questo divieto del Concilio stanno diventando motivo di clamoroso disordine, quello che l’antico Ordo latino, con la sua tanto deprecata rigidità, era sempre riuscito a evitare. Il nuovo garante dell’ordine contribuisce così al disordine, e dunque non ci si può meravigliare se si scopre continuamente che in ogni parrocchia vige a quanto pare un Ordine differente.
E con ciò arriviamo alle dichiarazioni pubbliche, se pur limitate, di critica nei confronti della riforma della Messa. Lo stesso arcivescovo Bugnini ne parla con ammirevole franchezza alle pagine 108-121 delle sue memorie sulla riforma, senza riuscire a controbatterle. Nel suo memoriale e in quello di monsignor Wagner appare evidente l’irresolutezza del Consiglio sulla riforma così frettolosamente realizzata. Appare anche una scarsa attenzione verso la preliminare indagine “teologica, storica, pastorale” ordinata dal Concilio come necessaria prima di qualsiasi modifica. Ad esempio, la grande competenza di monsignor Gamber, storico della liturgia tedesco, fu completamente ignorata. La fretta incomprensibile con cui la riforma venne elaborata e resa obbligatoria in realtà spinse influenti vescovi non certo attaccati alla tradizione a riconsiderare quelle decisioni. Un monsignore che aveva accompagnato in qualità di segretario a Salisburgo il cardinal Döpfner per far approvare una risoluzione dei vescovi di lingua tedesca in merito all’attuazione del Nuovo ordine della Messa nei loro paesi mi disse che il cardinale nel viaggio di ritorno a Monaco si era mostrato alquanto reticente. Poi aveva brevemente espresso il timore che una così delicata questione pastorale fosse stata affrontata con troppa fretta.
Per evitare malintesi, vorrei sottolineare che non ho mai messo in dubbio la validità dogmatica o giuridica del Novus Ordo Missae, benché in merito all’aspetto giuridico mi siano sorte serie perplessità considerati i miei approfonditi studi sui canonisti medievali. Essi concordano unanimemente che il Papa non possa cambiare nulla ad eccezione di quanto prescritto dalla Sacra Scrittura o di quanto concerne decisioni dottrinali del più alto livello già promulgate, e dello status Ecclesiae. Non c’è completa chiarezza riguardo quest’[ultimo] concetto. Tale attaccamento alla tradizione nel caso di aspetti fondamentali che hanno influenzato in modo decisivo la Chiesa nel corso del tempo ha sicuramente a che fare con quello status immutabile e definito su cui nemmeno il Papa ha diritto di intervenire. Il senso della liturgia per l’intero concetto di Chiesa e il suo sviluppo, la cui natura irreformabile ha anche ricevuto particolare enfasi da parte del Vaticano II, ci induce anzi a credere che esso debba rientrare nello status Ecclesiae.
Va comunque detto che tali spiacevoli abusi, che sono soprattutto conseguenza della discrepanza tra la Costituzione conciliare e il Novus Ordo, non si verificano quando la nuova liturgia si celebra con la dovuta reverenza, come sempre avviene, ad esempio, quando è il Santo Padre a celebrare la Messa. Non può tuttavia sfuggire agli esperti della vecchia liturgia la grande differenza esistente fra il corpus traditionum, vitale nella vecchia Messa, e l’artificiale Novus Ordo, con una netta inferiorità di quest’ultimo. Pastori, studiosi e fedeli se ne sono accorti, ovviamente; e le tante voci critiche sono aumentate col tempo. Così lo stesso Santo Padre regnante, nella sua Lettera apostolica Dominicae Cenae del 24 febbraio 1980, sul mistero e il culto dell’Eucarestia, ha sottolineato che le questioni inerenti la liturgia, in particolare quella eucaristica, non dovrebbero mai essere occasione di divisione fra i cattolici e di minaccia all’unità della Chiesa; anzi, l’Eucarestia, ha affermato il Papa, è “il sacramento della pietà, il simbolo dell’unità, il vincolo della carità”.
Nella sua Lettera apostolica per il venticinquesimo anniversario dell’approvazione della Costituzione sulla Sacra liturgia del 4 dicembre 1963, pubblicata il 4 dicembre 1988, dopo aver lodato il rinnovamento nella linea della tradizione, il Papa affronta il tema della concreta applicazione della riforma: egli si sofferma sulle difficoltà e sui risultati positivi, ma anche, in dettaglio, sulle applicazioni non corrette. Il Pontefice afferma anche espressamente che è compito della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti difendere i grandi princìpi della liturgia cattolica, come illustrato e sviluppato nella Costituzione sulla liturgia, essendo consapevoli delle responsabilità delle conferenze episcopali e dei vescovi.
Il cardinale Ratzinger, il difensore della Fede (e del culto ad essa connesso) più vicino al Papa, ha ripetutamente commentato la riforma liturgica post-conciliare, e con singolare profondità e chiarezza ha sottoposto i suoi problemi teologici e pastorali a una critica costruttiva. Basti ricordare il volume La festa della fede (1981), la premessa alla traduzione francese del breve, fondamentale saggio di Klaus Gamber e infine le citazioni presenti nelle sue recenti opere Il sale della terra e l’autobiografia La mia vita, entrambe pubblicate nel 1997.
Tra i vescovi di lingua tedesca, il responsabile della liturgia presso la conferenza episcopale austriaca ha evidenziato nel 1995 che il Concilio non intendeva operare una rivoluzione, bensì una riforma della liturgia fedele alla tradizione. Invece, ha aggiunto, un culto basato sulla spontaneità e l’improvvisazione è in parte responsabile della diminuzione dei fedeli che assistono alla Messa.
Infine, il Primate del Belgio, il cardinale Daneels, che certamente non può essere considerato un reazionario, ha sottoposto l’intera riforma a una critica impietosa: si è verificata una svolta di 180 gradi, ha affermato il presule, passando dall’obbedienza alle rubriche alla loro libera manipolazione, grazie alla quale si usa la liturgia per rendere il servizio e il culto divino un’assemblea creativa di fedeli, un vero e proprio “happening”, un discorso a cui ognuno vuole prendere parte al posto del Figlio di Dio, Gesù Cristo, nella cui casa si è ospiti. Il desiderio umano di comprendere il servizio religioso, ha aggiunto Daneels, non dovrebbe portare a un’affermazione della creatività individuale, ma a penetrare nei divini misteri. Non si dovrebbe spiegare la liturgia, ma viverla come una finestra sull’invisibile.
Se saliamo i primi gradini della scala del popolo di Dio, perfino tra i membri del Consiglio troviamo un collega che l’arcivescovo Bugnini definisce critico: L. Bouyer, che nel frattempo non è rimasto in silenzio.
In Italia fece scalpore la schietta critica del valente scrittore Tito Casini, autore del volume La tunica stracciata (1967), con l’introduzione del cardinal Bacci. A poco a poco gruppi sempre più numerosi di laici, tra cui molti intellettuali di grande levatura, si organizzarono in movimenti nazionali, soprattutto in Europa e nel Nord America, riunendosi nell’associazione Una Voce; i problemi della riforma vennero discussi anche in riviste, tra cui spicca la tedesca Una Voce Korrespondenz. In una delle sue sintesi, la canadese Precious Blood Banner dell’ottobre 1995 sostiene che sta diventando sempre più evidente quanto il radicalismo dei riformatori postconciliari non sia consistito nel rinnovare la liturgia cattolica dalle radici, ma nello svellerla dal terreno della tradizione. Non si è corretto il rito romano, com’era stato richiesto dalla Costituzione sulla liturgia del Vaticano II, ma lo si è estirpato.
Poco prima della morte il celebre priore di Taize, Max Thurian, un calvinista convertito al cattolicesimo, espose la sua opinione sulla riforma in un lungo articolo dal titolo “La liturgia come contemplazione del mistero”, apparso su L’Osservatore romano (27-28 maggio 1996, p. 9). Dopo un comprensibile elogio del Concilio e della Commissione per la liturgia, che avrebbero dovuto produrre i più mirabili frutti, egli afferma espressamente che l’intera celebrazione contemporanea si svolge come un dialogo in cui non vi è posto per la preghiera, la contemplazione e il silenzio. La continua contrapposizione fra il celebrante e i fedeli isola la comunità in se stessa. Una sana celebrazione, invece, con l’altare in posizione privilegiata, rende manifesto il compito del celebrante, che è quello di orientare tutti verso il Signore e rendere culto alla Sua presenza, com’è rappresentato dai simboli e realizzato nel Sacramento. Ciò conferisce alla liturgia quel respiro contemplativo senza il quale essa diviene un goffo dibattito religioso, una vuota attività collettiva e una sorta di chiacchiericcio.
Thurian ha avanzato una serie di proposte rivolte alle autorità ecclesiastiche per un’eventuale revisione dei “Principi e norme per l’uso del Missale Romanum” (evidentemente nutriva la speranza che ciò potesse accadere), che dimostrano una netta insoddisfazione per i princìpi vigenti. Nel paragrafo dal titolo “Il sacerdote al servizio della liturgia” egli muove una serie di qualificate critiche alla situazione attuale, praticamente le stesse severe osservazioni di questo nostro resoconto, e che meritano di essere esaminate ognuna singolarmente…
Vorrei poi parlare brevemente, per ampliare il discorso in chiave ecumenica, di due esperienze con le Chiese orientali. Durante una visita svoltasi al termine del Concilio, alcuni rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli mi dissero nel corso di conversazioni private che non capivano perché la Chiesa di Roma insistesse per cambiare la liturgia; non era una cosa da fare. La Chiesa orientale, spiegavano, doveva la custodia della Fede alla fedeltà alla tradizione liturgica e al sano sviluppo della stessa liturgia. Ho ascoltato affermazioni simili anche da membri del Patriarcato di Mosca, che seguivano i lavori della Commissione storica del Vaticano durante il Congresso storico internazionale svoltosi nel 1970 nella capitale sovietica.
Voglio citare altri due significativi episodi che hanno come protagoniste persone qualunque, senza una particolare istruzione, e che esprimono nel modo migliore il genuino sensus fidei dei figli di Dio. Due giovani boy-scout di dieci e dodici anni della provincia di Siena, che il sabato servivano la cosiddetta Messa tridentina, grazie al privilegio concesso dall’arcivescovo di Siena, a una mia domanda provocatoria (“Quale Messa preferite?”) risposero che da quando partecipavano alla Messa antica non gli piaceva più quella nuova.
Un umile, anziano contadino di una zona povera del Molise mi confidò spontaneamente che frequentava sempre e solo la Messa tridentina delle sei del mattino perché secondo lui il cambiamento della liturgia era un cambiamento della Fede che voleva custodire. Monsignor Klaus Gamber, un insigne esperto che ho già avuto modo di menzionare, ha pubblicato studi rigorosamente accademici, tra cui il compendio La riforma della liturgia romana: problemi e origini, più o meno ignorati dalla letteratura specialistica ufficiale, ma ora riscoperti per la loro penetrante chiarezza e capacità di analisi. Egli è giunto alla conclusione che oggi ci troviamo di fronte alle macerie di una tradizione bimillenaria, e c’è da temere che il risultato delle innumerevoli riforme alla tradizione sia una Messa così distrutta da rendere difficile la sua rinascita. Non si osa quasi più porre la domanda se dopo una tale dissoluzione si possa ricostituire l’antico ordine.
Eppure non dobbiamo perdere la speranza. Per quanto riguarda l’opera di demolizione, vediamo come si rifletta negli ordini emanati dal Concilio. In essi si stabilisce: nessuna innovazione può essere introdotta a meno che non sia richiesto da un reale e sicuro beneficio per la Chiesa, e comunque solo dopo una precisa indagine teologica, storica e pastorale. Inoltre, ogni modifica dev’essere compiuta in modo che le nuove forme sorgano sempre organicamente da quelle preesistenti. Sul fatto che ciò sia accaduto, i miei ricordi possono solo fornire un quadro parziale. Essi dovrebbero comunque mostrare se gli essenziali adempimenti teologici ed ecclesiologici siano stati svolti nella riforma, cioè se la liturgia, soprattutto il suo cuore, la Santa Messa, abbia ordinato l’umano al divino e subordinato il primo al secondo, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, il presente all’eternità a venire; o se al contrario la riforma abbia spesso subordinato il divino all’umano, il mistero invisibile a ciò che è visibile, la contemplazione alla partecipazione attiva, l’eternità a venire al presente mondano degli uomini.
Ma proprio la sempre più chiara consapevolezza della reale situazione alimenta la speranza di una possibile ricostruzione, che il cardinale Ratzinger vede in un nuovo movimento liturgico che riporti a nuova vita la vera eredità del Vaticano II (La mia vita, 1997, p. 113).
Permettetemi di concludere con una prospettiva rassicurante: il Santo Padre regnante, Giovanni Paolo II, con la sua particolare sensibilità pastorale, ha espresso la propria preoccupazione in un appello del 1980 riguardante i problemi creati alla Chiesa cattolica dal cambiamento della liturgia, ma senza ottenere risposta da parte dei vescovi. Per questo ha deciso, di certo non a cuor leggero, di concedere nel 1984 un indulto apostolico rivolto a quanti provavano attaccamento verso l’antica liturgia per le ragioni da me sottolineate, soprattutto a causa delle innovazioni liturgiche le quali, lungi dal diminuire, stanno aumentando. Avendone comprensibilmente dato facoltà ai vescovi, ma solo a rigide condizioni e a loro insindacabile giudizio, tale indulto ha avuto una diffusione pastorale molto limitata.
Dopo la consacrazione non autorizzata di vescovi da parte dell’arcivescovo Lefebvre, sicuramente per evitare un ampio scisma, il 2 luglio 1988 il Papa ha emanato un nuovo motu proprio, Ecclesia Dei Adflicta, in cui non solo assicurava i membri della Società di San Pio X desiderosi di riconciliarsi con la Fraternità di San Pietro della possibilità di rimanere fedeli all’antica tradizione liturgica, ma ha anche concesso ai vescovi un privilegio assai generoso, che dovrebbe soddisfare i legittimi desideri dei credenti. Egli ha raccomandato in particolar modo ai vescovi di imitare la sua magnanimità verso i fedeli che provano attaccamento nei confronti delle forme definite dell’antica liturgia e disciplina, stabilendo che si debba rispettare tutti coloro che si sentono attaccati all’antica tradizione liturgica. Il testo – stavolta redatto in maniera molto generosa per i vescovi – ci induce a nutrire legittima fiducia che il Papa, nei suoi sforzi per ristabilire unità e pace, non solo non rallenterà, ma anzi proseguirà il cammino manifestato nei paragrafi 5 e 6 del motu proprio del 1988, per realizzare la legittima riconciliazione tra l’irrinunciabile tradizione e un progresso non più procrastinabile.
[Traduzione per Chiesa e post-concilio a cura di Daniela Middioni]
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