giovedì 21 settembre 2023

Il card. Burke: “assistiamo tristemente a un ritorno delle turbolenze postconciliari”

Un'analisi corretta, quella del cardinale, ma di carattere specificamente conservatore. Il problema, però, ripetutamente evidenziato e sviscerato con ampie argomentazioni non è tanto in un più volte ventilato "spirito del concilio", quanto in quello che Mons. Brunero Gherardini chiama gegen-Geist (contro-spirito), presente già prima del Concilio, affermatosi grazie ad esso. 
Il problema dei conservatori è che, se riprendono le parti accoglibili del concilio [quiqui], ma non riconoscono e chiamano col loro nome gli errori da cui scaturisce la crisi attuale, non arriveremo mai ad una conclusione sensata. Non basta riaffermare la verità, è necessario mettere in guardia dalle variazioni subdole e distorcenti disseminate nei documenti, che ci hanno portato alla rivoluzione apparentemente inarrestabile in atto. Trovate, di seguito, il nostro controcanto basato sulla posizione di mons. Gherardini, che riproduco per esteso per una maggiore immediatezza ed efficacia.

Disciplina e dottrina: il diritto
al servizio della verità e dell’amore
 
Nel periodo immediatamente precedente al Concilio Ecumenico Vaticano II e, ancor più, nel periodo postconciliare, la disciplina canonica della Chiesa è stata messa in discussione fin dalle sue fondamenta.

La crisi del diritto canonico ha avuto origine negli stessi presupposti filosofici che ispiravano una rivoluzione morale e culturale in cui il diritto naturale, l’ethos morale della vita individuale e sociale, veniva messo in discussione a favore di un approccio storico in cui la natura dell’uomo e della natura stessa non godeva più di alcuna identità sostanziale ma solo di un’identità mutevole, e talvolta ingenuamente considerata progressiva.

All’interno della Chiesa, la riforma del Codice di Diritto Canonico del 1917, annunciata da Papa San Giovanni XXIII, una riforma che iniziò seriamente solo circa 10 anni dopo e poi progredì lentamente durante gli ultimi anni del Pontificato di Papa San Paolo VI e i primi anni del Pontificato di Papa San Giovanni Paolo II, sembravano mettere in discussione la necessità della disciplina canonica e aprirono un forum per alcuni teologi e canonisti per mettere in discussione i fondamenti stessi del diritto nella Chiesa.

Il cosiddetto “Spirito del Vaticano II”, che era un movimento politico separato dal perenne insegnamento e dalla disciplina della Chiesa, ha esacerbato notevolmente la situazione. Dopo un periodo di intense fatiche e accese discussioni, Papa San Giovanni Paolo II ha promulgato il Codice di Diritto Canonico riveduto il 25 gennaio 1983, circa ventiquattro anni dopo che era stato annunciato.

Durante il lungo pontificato di Papa San Giovanni Paolo II, grande progresso è stato compiuto nel rinnovare il rispetto della disciplina canonica che, come ha spiegato nella promulgazione del Codice del 1983, ha le sue prime radici nell’effusione dello Spirito Santo nei cuori degli uomini da il glorioso Cuore trafitto di Gesù.[1]

Nel promulgare il Codice di Diritto Canonico, Papa Giovanni Paolo II ha ricordato il servizio essenziale della disciplina canonica alla santità della vita, la vita rinnovata in Cristo, che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha voluto promuovere. Ha scritto: “Devo riconoscere che questo Codice deriva da un unico e medesimo intento, il rinnovamento della vita cristiana. Da tale intenzione, infatti, l’intera opera conciliare ha tratto le sue norme e il suo orientamento” [2].

Queste parole indicano il servizio essenziale del diritto canonico nell’opera di una nuova evangelizzazione, cioè il vivere la nostra vita in Cristo con l’impegno e l’energia dei primi discepoli. La disciplina canonica è orientata al perseguimento, in ogni momento, della santità di vita.

Il santo Pontefice ha poi descritto la natura del diritto canonico, indicandone lo sviluppo organico a partire dalla prima alleanza di Dio con il suo popolo santo. Ha ricordato «il lontano patrimonio di diritto contenuto nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, da cui deriva tutta la tradizione giuridico-legislativa della Chiesa, come dalla sua prima fonte». [3] In particolare, ha ricordato alla Chiesa come Cristo stesso, nel discorso della montagna, ha dichiarato di non essere venuto ad abolire la legge ma a portarla a compimento, insegnandoci che è proprio la disciplina della legge che apre la via alla libertà nell’amare Dio e il nostro prossimo. [4] Ha osservato: “Le fatiche di Papa San Giovanni Paolo II hanno portato notevoli frutti per il ripristino del buon ordine della vita ecclesiale che è la condizione insostituibile per la crescita nella santità della vita”.

Come canonista, noto, in varie parti del mondo ecclesiale, sempre più iniziative, magari piccole ma nondimeno forti, per favorire la conoscenza e la pratica della disciplina della Chiesa, in accordo con la vera riforma postconciliare, cioè, in continuità con la perenne disciplina della Chiesa.

Oggi assistiamo tristemente a un ritorno alle turbolenze del periodo postconciliare. Negli ultimi anni, il diritto e la stessa dottrina sono stati più volte messi in discussione come deterrente per un’efficace pastorale dei fedeli. Gran parte del tumulto è associato a una certa retorica populista sulla Chiesa, inclusa la sua disciplina.

È stata promulgata anche una nuova legislazione canonica che è chiaramente al di fuori della tradizione canonica e, in modo confuso, chiama in causa quella tradizione in quanto ha servito fedelmente la verità della fede con amore.

Mi riferisco, ad esempio, agli atti legislativi che toccano il delicato processo della dichiarazione di nullità del matrimonio che, a sua volta, tocca il fondamento stesso della nostra vita nella Chiesa e nella società: il matrimonio e la famiglia.

Data la situazione in cui si trova la Chiesa, ci sembra particolarmente importante poter dare conto del servizio insostituibile del diritto nella Chiesa, come anche nella società. È particolarmente importante che sappiamo riconoscere e correggere la retorica che confonde e induce anche in errore un buon numero di fedeli.

A tal fine, affronto il rapporto essenziale e insostituibile della dottrina e del diritto con la vita pastorale della Chiesa, cioè con la realtà quotidiana della vita cristiana. In primo luogo, affronterò la pervasiva retorica populista sulla Chiesa e le sue istituzioni. Presenterò poi un insegnamento chiave in materia, vale a dire il discorso alla Rota Romana di San Giovanni Paolo II il 18 gennaio 1990.

In questi ultimi anni alcune parole, ad esempio “pastorale”, “misericordia”, “ascolto”, “discernimento”, “accompagnamento” e “integrazione” sono state applicate alla Chiesa in modo quasi magico, che è, senza definizione chiara ma come slogan di un’ideologia che sostituisce ciò che per noi è insostituibile: la costante dottrina e disciplina della Chiesa.

Alcune parole, come “pastorale”, “misericordia”, “ascolto” e “discernimento” hanno un posto nella tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa, ma ora vengono usate con un nuovo significato e senza riferimento alla Tradizione. Ad esempio, la cura pastorale è ormai sistematicamente contrapposta alla sollecitudine per la dottrina, che deve essere il suo fondamento. La sollecitudine per la dottrina e la disciplina si caratterizza come farisaica, come voler rispondere con freddezza o addirittura con violenza ai fedeli che si trovano in una situazione moralmente e canonicamente irregolare. In questa visione errata, la misericordia si oppone alla giustizia, l’ascolto si oppone all’insegnamento e il discernimento si oppone al giudizio.

Altre parole sono di origine secolare, ad esempio “accompagnamento” e “integrazione”, e sono usate senza fondarle nella verità della fede o nella realtà oggettiva della nostra vita nella Chiesa. Ad esempio, l’integrazione è separata dalla comunione che è l’unico fondamento della partecipazione alla vita di Cristo nella Chiesa.

Questi termini sono spesso usati in senso mondano o politico, guidati da una visione della natura e della realtà che è in continua evoluzione. La prospettiva della vita eterna viene eclissata a favore di una sorta di visione popolare della Chiesa in cui tutti dovrebbero sentirsi “a casa”, anche se la loro vita quotidiana è un’aperta contraddizione con la verità e l’amore di Cristo. In ogni caso, l’uso di uno qualsiasi di questi termini deve essere saldamente radicato nella verità, insieme alla sua espressione tradizionale della nostra incorporazione nel Corpo mistico di Cristo mediante una sola fede, una sola vita sacramentale e una sola disciplina o governo.

La questione è complicata perché la retorica è spesso legata al linguaggio usato da papa Francesco in modo colloquiale, sia durante le interviste rilasciate in aereo o alle testate giornalistiche, sia in osservazioni spontanee a vari gruppi. Stando così le cose, quando si collocano i termini in questione nel giusto contesto dell’insegnamento e della prassi della Chiesa, si può essere accusati di parlare contro il Santo Padre. Di conseguenza, si è tentati di tacere o di cercare di spiegare dottrinalmente un linguaggio che confonde o addirittura contraddice la dottrina.

Il modo in cui sono arrivato a comprendere il dovere di correggere una retorica populista sulla Chiesa è quello di distinguere, come la Chiesa ha sempre fatto, le parole dell’uomo che è Papa dalle parole del Papa come Vicario di Cristo. Nel Medioevo la Chiesa parlava dei due corpi del Papa: il corpo dell’uomo e il corpo del Vicario di Cristo. Infatti, la tradizionale veste papale, in particolare la mozzetta rossa con la stola raffigurante i Santi Apostoli Pietro e Paolo, rappresenta visibilmente il vero corpo del Vicario di Cristo quando espone il magistero della Chiesa.

Papa Francesco ha scelto di parlare spesso nel suo primo corpo, il corpo dell’uomo che è Papa. Infatti, anche nei documenti che, in passato, hanno rappresentato un insegnamento più solenne, afferma chiaramente che non sta offrendo un insegnamento magisteriale, ma il proprio pensiero. Ma chi è abituato a un modo diverso di parlare papale vuole rendere ogni sua affermazione in qualche modo parte del Magistero. Farlo è contrario alla ragione ea ciò che la Chiesa ha sempre compreso.

La distinzione tra i due tipi di discorso del Romano Pontefice non è in alcun modo irrispettosa dell’ufficio petrino. Tanto meno, costituisce inimicizia di papa Francesco. Anzi, al contrario, mostra il massimo rispetto per l’ufficio petrino e per l’uomo a cui Nostro Signore lo ha affidato. Senza la distinzione, si perderebbe facilmente il rispetto per il Papato o si sarebbe portati a pensare che, se non si è d’accordo con le opinioni personali dell’uomo che è il Romano Pontefice, allora si debba rompere la comunione con la Chiesa.

In ogni caso, quanto più si usa tale retorica senza correttivo, cioè senza rapportare il linguaggio al costante insegnamento e pratica della Chiesa, tanto più la confusione entra nella vita della Chiesa. I canonisti hanno una particolare responsabilità di chiarire quale sia la dottrina e la corrispondente disciplina della Chiesa. Per questo motivo, in particolare, ho ritenuto importante chiarire lo scopo del diritto canonico.

Nel suo discorso del 1990 alla Rota Romana (la corte d’appello ordinaria del Papa), Papa San Giovanni Paolo II descrive l’inseparabilità di sana pratica pastorale e disciplina canonica:

La dimensione giuridica e quella pastorale sono unite inscindibilmente nella Chiesa, pellegrina su questa terra. Soprattutto, sono in armonia a causa del loro obiettivo comune: la salvezza delle anime. Ma c’è di più. In effetti, l’attività giuridico-canonica è pastorale per sua stessa natura. Costituisce una speciale partecipazione alla missione di Cristo, il pastore (pastore), e consiste nel concretizzare l’ordine della giustizia intra-ecclesiale voluto da Cristo stesso. La pastorale, a sua volta, pur andando ben oltre i soli aspetti giuridici, include sempre una dimensione di giustizia. Infatti, sarebbe impossibile condurre le anime verso il regno dei cieli senza quel minimo di amore e di prudenza che si trova nell’impegno di vigilare affinché la legge e i diritti di tutti nella Chiesa siano osservati fedelmente.[6]

Come chiarisce Papa Giovanni Paolo II, non si può parlare di esercizio della virtù dell’amore all’interno della Chiesa, se non si pratica la virtù della giustizia che è il minimo richiesto per una relazione d’amore.

Il santo Pontefice si confronta poi direttamente con la tendenza allora marcata, tornata prepotentemente nel nostro tempo, a contrapporre preoccupazioni pastorali ed esigenze giuridiche o disciplinari. Sottolinea il carattere insidioso di tale opposizione per la vita della Chiesa:

Ne consegue che ogni opposizione tra la dimensione pastorale e quella giuridica è ingannevole. Non è vero che, per essere più pastorale, il diritto dovrebbe diventare meno giuridico. Certo, le tante espressioni di quella flessibilità che hanno sempre contraddistinto il diritto canonico, proprio per ragioni pastorali, vanno tenute presenti e applicate. Ma anche le esigenze della giustizia devono essere rispettate; possono essere superati a causa di tale flessibilità, ma mai negati. Nella Chiesa, la vera giustizia, animata dalla carità e temperata dall’equità, merita sempre l’aggettivo descrittivo pastorale. Non può esserci esercizio della carità pastorale che non tenga conto, prima di tutto, della giustizia pastorale.[7]

La chiara istruzione di Papa San Giovanni Paolo II è quanto mai opportuna nell’attuale crescente crisi della disciplina della Chiesa. Esprime quello che è stato il costante insegnamento e pratica della Chiesa in materia di misericordia e giustizia, di cura pastorale e di integrità disciplinare.

Spero che questa piccola riflessione vi aiuti a comprendere lo stato attuale del diritto canonico nella Chiesa. In un tempo di crisi, sia nella Chiesa che nella società civile, è essenziale che il nostro servizio di giustizia sia saldamente radicato nella verità della nostra vita in Cristo nella Chiesa, che è il Buon Pastore che ci insegna, santifica e disciplina nella chiesa. Non vi è, pertanto, alcun aspetto della perenne disciplina della Chiesa che possa essere trascurato o anche solo contraddetto senza compromettere l’integrità della cura pastorale esercitata nella persona di Cristo, Capo e Pastore del gregge in ogni tempo e luogo.

Per i meriti di Cristo Giudice dei vivi e dei morti e per intercessione della beata Vergine Maria, sua Madre e specchio della sua giustizia, ciascuno di noi resti fedele e saldo nel servire la giustizia che è la minima ma condizione insostituibile dell’amore di Dio e del prossimo. - Fonte
__________________________
[1] Cfr. Canon Law Society of America, Code of Canon Law: Latin-English Edition, New English Translation, Washington, DC: Canon Law Society of America, 1998, p. XXVII. [D’ora in poi, CCL-1983].
[2] CCL-1983, pag. xxviii.
[3] CCL-1983, pag. XXIX.
[4] Cfr. Matteo 5:17-20. [5] CCL-1983, pag. XXIX.
[6] Allocuzioni Pontificie alla Rota Romana 1939-2011, ed. William H. Woestman (Ottawa: Faculty of Canon Law, Saint Paul University, 2011), pp. 210–211, n. 4. [D’ora in poi, Allocuzioni].
[7] Allocuzioni, p. 211, n. 4.
* * *

La posizione di mons. Brunero Gherardini

Premessa
Ogni volta che penso al Concilio, dice [mons. Gherardini], ho sempre una immagine nella mia mente: l'anziano cardinale Alfredo Ottaviani, ormai cieco, intorno agli 80 anni, zoppicante, capo del Sant'Uffizio, e così il primo ufficiale della dottrina della Chiesa, nato a Trastevere da genitori con molti figli, per cui un romano di Roma, dal popolo di Roma, prende il microfono per parlare ai 2.000 vescovi riuniti. E, mentre egli parla, chiedendo ai vescovi di prendere in considerazione i testi della curia per la preparazione dei quali ha speso tre anni, improvvisamente il suo microfono è stato spento. Egli continuava a parlare, ma nessuno poteva sentire una parola. Poi, perplesso e turbato, smise di parlare, confuso. E i padri riuniti cominciarono a ridere, e poi a tifare ...
"Sì", ha detto Gherardini. "Ed è stato solo il terzo giorno."
"Cosa?" Ho detto.
"il microfono Ottaviani è stato disattivato il terzo giorno del Concilio."
"Il terzo giorno?" Ho detto. "Io non lo sapevo. Ho pensato che fosse accaduto più tardi, nel novembre, dopo che il gruppo progressista divenne più organizzato ..."
"No, era il terzo giorno, 13 ottobre 1962. il Concilio ha avuto inizio l' 11 ottobre."
"Sapete chi ha spento il microfono?"
"Sì," ha detto. "E' stato il cardinale Liénart di Lille, in Francia."
"Ma allora", dissi, "si potrebbe quasi dedurre, forse, che un tale scorretto annullamento del protocollo, rendendo impossibile per Ottaviani sostenere le sue argomentazioni, in qualche modo spiega quello che è venuto dopo, beh, in un certo senso, improprio ..."
"Alcuni sostengono questo argomento," rispose Gherardini.

Qualche notazione su “Il concilio Vaticano II. Il discorso mancato”

Questo nuovo pamphlet, sempre in linea con i precedenti, fa seguito al volume “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare” [qui], definito dall’autore stesso “un appello a chi decide gli orientamenti della Chiesa cattolica, oltre che ai non pochi opinion’s makers i quali, per motivi diversi, talvolta anche discutibili, determinano gli orientamenti del variegato mondo culturale. Un appello perché, a quasi cinquant’anni dall’evento conciliare, si ponesse fine alla sua acritica celebrazione e si sottoponessero i suoi documenti ad un’analisi finalmente libera dall’apriorismo celebrativo ad ogni costo”.

Avendo già esaminato le varie questioni inerenti alla continuità del concilio Vaticano II con la Tradizione, l’autore focalizza l’attenzione sullo spirito con cui iniziò il concilio. Partendo da un punto di vista condiviso, con l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Card. Ratzinger, circa l’esistenza di un contro-spirito, un Gegen Geist, che abbia stravolto il Concilio, l’autore si domanda se le responsabilità siano tutte nel post-concilio oppure se i semi del “contro” possano già ravvisarsi nel concilio stesso.

Il primo “contro”, la prima rottura, può individuarsi, secondo Gherardini, nel rifiuto degli schemi preparatori al Concilio.
“Soprattutto agl’inizi, il dibattito conciliare fu vivace e non raramente rissoso, irrispettoso e perfino spietato, come quando al venerando cardinal Ottaviani, nel corso della sua appassionata difesa della Messa tradizionale, allo scoccare del regolamentare quindicesimo minuto fu spento il microfono e tolta la parola. A quel punto, il Concilio già procedeva per la sua strada: in dichiarata rottura con il secolare magistero, riassunto ed attualizzato negli schemi contestati, ed in piena apertura a metodologie non teologiche, mentalità dialogica, accantonamento d’ogni steccato, disponibilità per il compromesso, con la presunzione che nessuno – dunque, neanche la Chiesa – possedesse la verità: tutta e su tutto. Si stava già operando un capovolgimento che, con l’andare del tempo, si sarebbe fatto sempre più netto: la teologia diventava antropologia ”.
L’apertura indiscriminata al mondo, alle sue ragioni e filosofie, aveva tolto di mezzo la filosofia di S. Tommaso, cercando di conciliare la filosofia esistenzialista con la filosofia dell’essere, su cui tutta la dottrina cattolica si poggia.
“Non so se proprio tutt’i Padri conciliari se ne rendessero conto, ma, obiettivamente parlando, il loro strappo dalla secolare mentalità che, fin a quel momento, aveva espresso la motivazione di fondo della vita, della preghiera, dell’insegnamento e del governo della Chiesa, stava riproponendo la mentalità modernista, contro la quale san Pio X aveva preso netta posizione nell’intento di «ricentrare tutto in Cristo» (Ef 1,10). Anche questo, questo anzi in modo particolare, è gegen-Geist ”.
Tale Gegen Geist, secondo l’autore, si è poi manifestato anche nella dichiarazione Nostra Aetate, in cui,
“pervertendo però il senso di Rm 11,17-24” si sarebbe riesumata la Antica Alleanza, senza scorgere “ nel costante rifiuto di Cristo [..] nessuna controindicazione alla permanenza degli ebrei, carissimi a Dio», nella realtà salvifica dell’Alleanza ”.
Facendo eco al suo libro “Quale accordo tra Cristo e Beliar” (Fede e Cultura), aggiunge:
“Potrei continuare con questi «e», ma non apporterei elementi nuovi circa i rapporti idilliaci che il Vaticano II stabilì con il mondo ebraico, ignorando sul piano teologico ciò ch’esso pensa di Cristo, di Maria e del cristianesimo in genere, e sul piano storico il rilievo di sant’Ignazio d’Antiochia sull’incoerenza dei cristiani che giudaizzano. Se poi allargo l’osservazione a quanto Nostra ætate dichiara sulle altre religioni (2-3), mi diventa assolutamente impossibile trovarci la continuità col passato solo perché tutte le religioni si rivolgon al medesimo Dio. Se una religione considera poco più poco meno che idolatria rivolgersi a Dio in Cristo, diventa assurdo il solo pensiero d’un suo possibile rapporto con la Chiesa cattolica. Nel cui nome, però, il Vaticano II dichiarò il detto rapporto non possibile, ma già in atto, condannando a morte, praticamente, la realtà delle cose e lo stesso spirito missionario”.
Infine, alla domanda su cosa sia il Concilio Vaticano II e su come ci si debba relazionare, Gherardini risponde che
“quanto al Vaticano II, sarebbe assurdo negargli il carattere di magistero conciliare, quindi solenne, non ordinario, perché in tal caso si negherebbe il Concilio stesso. [..]Occorre, tuttavia, distinguere la qualità dei suoi documenti, perché il carattere solenne del loro insegnamento né li mette tutti su un piano di pari importanza, né comporta sempre di per sé la loro validità dogmatica e quindi infallibile ”.
A sostegno della sua tesi, l’autore ricorda il discorso del segretario di Papa Roncalli, Mons. Felici: “Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la Fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose proposte dal Concilio, in quanto dottrina del Magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devon accettarle e ritenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui s’esprime, in conformità alle norme dell’interpretazione teologica”. Spiega Gherardini:
“In pratica, in nessuna delle sue quattro Costituzioni il Vaticano II «definisce come obbliganti per tutta la Chiesa» i propri pronunciamenti dottrinali; in questi è senz’alcun dubbio assente l’intento dogmatico-definitorio che dovrebbe renderli tali, mancando come dottrina propria e specifica del Vaticano II «la materia trattata e la maniera di trattarla». Per contro, soprattutto nella Lumen gentium e qua e là anche altrove, alcune formule classiche, inserite come massi erratici in contesti sicuramente non dogmatici, riecheggiano la modalità dogmatica del precedente Magistero: «Insegniamo, questo Santo Sinodo insegna, proclamiamo». Forse che, con un modo d’esprimersi come questo, il Vaticano II si contraddice? Sicuramente no. Si tratta, infatti, di far capire anche ai non addetti ai lavori che, nonostante tutto, si è dinanzi ad un dettato conciliare, proveniente dal Magistero supremo, da «accoglier e ritenere secondo lo spirito del Concilio stesso». [...] Quanto alle formule di tipo classico presenti nei documenti conciliari e poco sopra rievocate, va tenuto presente ch’esse: – tentano la saldatura del Vaticano II con il Magistero conciliare precedente; – non effettuano la canalizzazione di nuove definizioni e nuovi dogmi nel patrimonio della Fede cattolica; – o più semplicemente riflettono sul Vaticano II una classica tonalità conciliare in funzione promozionale della sua qualità conciliare.”
Per quanto riguarda la
“ riesumazione, da parte del Vaticano II, di dogmi precedentemente definiti[..] in tutti i contesti contenenti, per formale o materiale adesione, una verità dogmaticamente definita, il Vaticano II ne assume di riflesso il valore dogmatico irriformabile infallibile. Ciò non comporta che tutto il Vaticano II sia effettivamente tale e che tale debba esser universalmente riconosciuto; ma che tale è semplicemente ed esclusivamente nella dogmaticità irriformabilità ed infallibilità dei dogmi citati”.
“Nonostante la necessità di ricorrer alla chiarezza per dir le cose come stanno, resta il fatto che il Vaticano II è un Concilio autentico, il cui insegnamento e le cui innovazioni, pur in assenza di valore dogmatico, costituiscono un innegabile magistero conciliare, e quindi supremo e solenne”.

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