Maria Guarini, Sulla libertà religiosa

Il testo che segue è tratto dal libro: Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI, Rieti 2012. Indice consultabile qui.
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Il pensiero post-illuminista, che purtroppo ha avuto la sua influenza anche all’interno della Chiesa per effetto dell’abbandono del principio aristotelico della non contraddizione, ha portato all’affermazione che le diverse religioni sono tra loro complementari: ognuna conterrebbe i “semi di verità”, che invece i Padri – come λόγοι σπερματικοί/Semina Verbi – attribuivano alle filosofie, anche se l’espressione risulta coniata da Giustino.[1]

Secondo i Padri dei primi secoli, compreso S. Agostino, i semina Verbi non fecondano le religioni pagane, alle quali essi riservano giudizi molto severi, quanto piuttosto la filosofia greca e la sapienza dei poeti e delle Sibille.

Invece, a partire dal Vaticano II
« fuori dei confini della chiesa visibile, e in concreto nelle diverse religioni, si possono trovare “semi del Verbo”; il motivo si combina spesso con quello della luce che illumina ogni uomo e con quello della preparazione evangelica (Ad gentes, nn. 11 e 15; Lumen gentium, nn. 16-17; Nostra aetate, n. 2; Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 56).
La teologia dei semi del Verbo inizia con san Giustino. Di fronte al politeismo del mondo greco, Giustino vede nella filosofia un’alleata del cristianesimo, perché essa ha seguito la ragione; ma ora questa ragione si trova nella sua totalità soltanto in Gesù Cristo, il ‘Logos’ in persona. Solamente i cristiani lo conoscono nella sua integrità. Di questo ‘Logos’ però è partecipe tutto il genere umano; perciò da sempre c’è stato chi è vissuto in conformità con il ‘Logos’, e in questo senso ci sono stati “cristiani”[2], pur avendo essi avuto soltanto una conoscenza parziale del ‘Logos’ seminale. C’è molta differenza tra il seme di una cosa e la cosa stessa; ma in ogni modo la presenza parziale e seminale del ‘Logos’ è dono e grazia di Dio. Il ‘Logos’ è il seminatore di questi “semi di verità” ».[3]
Nella sua ripresa moderna, quindi, la formula è applicata proprio alle religioni non cristiane, secondo due significati. Il primo è anche quello del Concilio Vaticano II, nei cui documenti i ‘semina Verbi’ sono la misteriosa presenza di Cristo salvatore in tutte le religioni, in quanto esse possono avere di “vero e santo” e quindi anche di salvifico, sempre però attraverso Cristo per vie che solo lui conosce. Il secondo compare in alcune correnti teologiche della seconda metà del XX secolo, secondo le quali le religioni non cristiane avrebbero capacità salvifica non mediata ma propria, perché esprimerebbero molteplici esperienze del divino, indipendenti e complementari, e Cristo – piuttosto che l’unica Via necessaria – sarebbe il simbolo di questa molteplicità di esperienze e di percorsi dell’intelletto e dello spirito.

La proposizione di cui al punto 1 della Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae : «...la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore» è falsa in relazione alle verità del cattolicesimo. Infatti, le verità contenute nella Rivelazione apostolica, di origine divina, custodite nel Depositum fidei, oltrepassano il nostro intelletto che le accoglie e le comprende solo con l'aiuto della grazia santificante; mentre la Fede, oltre che adesione dell'intelletto e del cuore, è anche  misterioso dono di grazia. Tra l'altro, dare per scontata la diffusione della verità "da se stessa", senza un annuncio (εὐαγγέλιον - vangelo) che la veicola da parte di un testimone che l'ha accolta e la vive, significa non tener conto delle conseguenze del peccato originale che ha ferito e indebolito l'intelligenza e la volontà rendendole soggette all'errore. È la grazia, di cui il testimone è portatore intessuto e riverberante dalle sue parole e azioni, che opera.  Se perdiamo questa consapevolezza, siamo fuori strada.

Constatiamo quanto tutto questo nuovo ‘senso’ dottrinale abbia influito e influisca sulla pratica pastorale, sulla missione, sul profilo pubblico della Chiesa.
Se ne deduce infatti, come conseguenza, che la rivelazione Apostolica custodita nella Chiesa cattolica non avrebbe la pienezza della Verità. Quindi si cade nell’inganno di credere che le verità parziali possano essere la porta d’accesso alla verità totale. Invece “in una dottrina globalmente falsa la verità non è l’anima della dottrina, ma la schiava dell’errore”.[4] Non si può ignorare che i frammenti di verità presenti nelle altre religioni e confessioni cristiane hanno un ruolo parziale incompleto mentre gli errori all’interno dei quali sono costretti li distorcono e ne falsano la vera portata. Si pensi all’esclusione del dogma della Trinità da parte del giudaismo e dell’islamismo.
« Possiamo fare (...) della libertà religiosa un argomento ad hominem contro coloro che, pur proclamando la libertà di religione, perseguitano la Chiesa (stati laici e socialisti), o ostacolano il suo culto, direttamente o indirettamente (stati comunisti, islamici, ecc). Questo argomento ad hominem è giusto e la Chiesa non lo respinge, usandolo per difendere efficacemente il proprio diritto alla libertà. Ma non ne consegue che la libertà religiosa, considerata in se stessa, sia per i cattolici sostenibile in linea di principio, perché è intrinsecamente assurdo ed empio che la verità e l’errore debbano avere gli stessi diritti ».[5]
Così, invece, il Concilio:
« Quanto questo Concilio Vaticano dichiara sul diritto degli esseri umani alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità della persona, le cui esigenze la ragione umana venne conoscendo sempre più chiaramente attraverso l’esperienza dei secoli ».[6]
E ancora « Questo sinodo Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Detta libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni da coercizione da parte sia di individui, che di gruppi sociali che di qualsivoglia potestà umana, in maniera che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità con la sua coscienza, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata.
Dichiara inoltre che il diritto alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità stessa della persona umana quale la si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia per mezzo della stessa ragione.
Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto nell’ordine giuridico della società e diventare diritto civile ».[7]
La prima citazione risulta monca, perché sembra fare della “dignità della persona” un assoluto, essendo invece la dignità a sua volta fondata sul fatto che la persona è ordinata al suo Creatore. Anche se nel Proemio la DH dichiara « il sacro Concilio professa che Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire alla beatitudine », successivamente se ne allontana. Quando si stabilisce un principio, occorre formularlo con chiarezza adamantina, evidenziandone ed esplicitandone gli aspetti salienti. Sui punti citati, invece, sembra mancare il meglio, che poi alla fine è ciò che nel tempo – se ripercorriamo gli ultimi 50 anni – è risultato dapprima diluito e poi oltrepassato.

Inoltre la libertà religiosa non resta ancorata al soggetto e alla coscienza individuale, ma coinvolge la Chiesa, proprio perché a sua volta il fondamento della dignità umana risiede nel fatto che l’uomo è orientato a Dio mentre la coscienza è legata al rapporto con la rivelazione oltre che alla stessa ragione. E solo se la Chiesa ottiene di diritto la condizione stabile per l’indipendenza necessaria all’adempimento della sua divina missione (DH n. 13), si concretizza di fatto la possibilità di parlare liberamente del mistero di Cristo e di Annunciare il Signore con franchezza e fermezza come colui “che Dio inviò per la salvezza di tutti”. Solo così i non cristiani saranno messi in condizione di convertirsi liberamente al Signore e di credere; il che comporta il diritto sociale della Chiesa di non essere impedita dallo Stato nello svolgimento della propria missione, ottenendo dallo stesso il riconoscimento della sua nativa autonomia senza la quale non potrebbe svolgerla. Allo stato dei fatti questo diritto sociale non riguarda solo la Chiesa ma la presenza di ogni altra religione. Agli interrogativi che da ciò scaturiscono la Dichiarazione conciliare non dà una risposta diretta. Sembra anzi ci si trovi di fronte ad un Magistero sdoppiato.[8]

Come ultima conseguenza sembrerebbe configurarsi l’assolutizzazione di un diritto naturale che di fatto, equiparando assolutamente tutte le religioni, contraddice implicitamente il dogma della Rivelazione di Cristo – di cui la Chiesa è portatrice custode e trasmettitrice – l’unico vero per la sua indiscussa origine divina.

Risultano profetiche le parole della Immortale Dei di Leone XIII.
« Si tace dell’autorità divina, come se Dio non esistesse o non si desse alcun pensiero del genere umano; come se gli uomini, né singolarmente né collettivamente, non avessero alcun obbligo verso Dio, o come se si potesse concepire una sovranità, la cui origine, forza e autorità non derivassero totalmente da Dio. Appare evidente che in tal modo lo Stato non sarebbe nient’altro che la moltitudine arbitra e guida di se stessa; e poiché si afferma che il popolo contiene in se stesso la sorgente di ogni diritto e di ogni potere, di conseguenza la comunità non si riterrà vincolata ad alcun dovere verso Dio; non professerà pubblicamente alcuna religione; non vorrà privilegiarne una, ma riconoscerà alle varie confessioni uguali diritti affinché l’ordine pubblico non venga turbato. Coerentemente, si permetterà al singolo di giudicare secondo coscienza su ogni questione religiosa; a ciascuno sarà lecito seguire la religione che preferisce, o anche nessuna, se nessuna gli aggrada. Di qui nascono dunque libertà di coscienza per chiunque, libertà di culto, illimitata libertà […] ».
La stessa enciclica esprime con grande chiarezza la non costrizione circa la Fede, ma nel contempo afferma la funzione e la responsabilità della Chiesa:
« Così pure la Chiesa vuole assolutamente evitare che chiunque sia costretto, suo malgrado, ad abbracciare la fede cattolica, perché, come saggiamente ammonisce Agostino, “l’uomo non può credere se non spontaneamente”. Similmente la Chiesa non può consentire quella libertà che induce al disprezzo delle leggi santissime di Dio e sopprime la doverosa obbedienza all’autorità legittima. Infatti, questa è piuttosto licenza che libertà; e felicemente viene definita da Agostino “libertà di perdizione”; dall’Apostolo Pietro “velo di malizia” (1Pt 2,16); anzi, essendo irrazionale, diviene vera schiavitù; “poiche chi fa peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34). Al contrario, la libertà autentica e desiderabile è quella che, nella sfera privata, non permette individuando di essere schiavo degli errori e delle passioni, terribili padroni, e che nella sfera pubblica governa saggiamente i cittadini, offre loro con larghezza le opportunità per migliorare la propria condizione, difende lo Stato dalle sopraffazioni altrui ».
La visione della Chiesa è, però, cambiata radicalmente se Giovanni Paolo II, può esprimere soddisfazione per «un interesse crescente per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali»[9] e per il fatto che sia stato tenuto  «in attenta considerazione il rispetto della libertà di coscienza e di religione». Mentre non manca di esprimere il suo apprezzamento per «i rinnovati sforzi che si stanno facendo per dare maggior vigore al regime legale vigente»[10], afferma che «i diritti dell'uomo più che norme giuridiche, sono innanzitutto dei valori» che «devono essere custoditi e coltivati nella società, altrimenti rischiano di scomparire anche dai testi di legge»[11] ponendo dunque la libertà religiosa nel novero dei diritti dell'uomo, anche se poi altrove dice che si tratta di un diritto che, stando «alla radice di ogni altro diritto e di ogni altra libertà »[12]  ne costituisce, al tempo stesso, «fonte e sintesi» e può quindi considerarsi «uno dei pilastri che sorreggono l'edificio dei diritti umani» o, più precisamente, la sua «pietra angolare».[13] Nel suo insieme quello che Amerio definisce discorso anfibologico (ambiguo).
Si tratta di un'analisi razionalista con considerazioni politiche-soggettiviste, e Cristo-Verità non è neppure nominato. E praticamente si afferma con accenti altisonanti il diritto dell'uomo di sbagliare, mentre si disconosce quello di Dio che chiama alla Verità, l'Unica e sola, quella del Signore incarnato morto e risorto per la nostra Salvezza! Nel giugno 1989, lo stesso Pontefice può esprimersi in questi termini ad Helsinki, riferendosi all'Atto “firmato da tutti gli Stati d’Europa insieme con il Canada e gli Stati Uniti, [che] deve essere considerato come uno degli strumenti più significativi del dialogo internazionale.”[14]
« La libertà religiosa è divenuto un tema comune all’interno del contesto degli affari internazionali. Il problema è divenuto parte della cultura del nostro tempo, poiché i nostri contemporanei hanno imparato molto dagli eccessi del passato recente, e hanno capito che credere in Dio, praticando la religione e unendosi agli altri nell’esprimere la propria fede, è una speciale espressione di quella libertà di pensiero e di espressione che ha origine non da una concessione elargita dallo Stato ma dalla dignità stessa della persona umana [...] L’idea che la religione sia una forma di alienazione non è più di moda perché, fortunatamente, i capi delle nazioni e i popoli stessi hanno capito che i credenti costituiscono un fattore potente a favore del bene comune. Odio e fanatismo non possono trovare alcuna giustificazione tra coloro che chiamano Dio “Padre nostro”. Chi infatti potrebbe negare che il comandamento della carità, del perdono e della cura per gli abbandonati - tutto questo si trova al centro del messaggio di molte famiglie spirituali - costituisca un patrimonio incalcolabile per la società? Ad ogni modo questi sono tra i valori che i cristiani devono offrire, quale loro specifico contributo alla vita pubblica e internazionale. Inoltre, proprio dal fatto che essi provengono da tutte le classi sociali, da tutte le culture e nazioni, i membri di denominazione religiose costituiscono una forza efficace per l’opinione e la cooperazione tra i popoli ».
Il discorso si fa complesso perché, mentre in alcuni punti - soprattutto nell'invitare alla riscoperta delle radici dell'Europa e come emerge nelle ultime parole sopra riportate - è evidente il riferimento al cristianesimo (più che al cattolicesimo), la prima parte del discorso e anche altri passaggi si riferiscono, mettendoli sullo stesso piano, ai credenti di tutte le religioni. Come se nella realtà le fedi non contemplassero differenti visioni di Dio e quindi del mondo e degli altri e dunque non inverassero storie diverse, spesso inconciliabili tra loro. Come se chiamare Dio “Padre nostro” con tutto quel che ne consegue, soprattutto in ragione della Redenzione opera del Verbo Incarnato che introduce il credente nella indicibile relazione intra-Trinitaria, non facesse la differenza e non scrivesse, nel mondo, la storia che corrisponde al progetto di Dio per l'umanità! Sostanzialmente ci si richiama a DH come documento filosofico-politico, insegnato però come dottrina (pur non definendola!).

Effettivamente la dichiarazione Dignitatis humanae sembra dunque aver effettuato il trasferimento del tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. È un diritto rispetto agli altri, alla comunità e allo Stato. Ma davanti a Dio?

* * *
Prendo come spunto di ulteriori riflessioni un saggio interessante e articolato, di Martin Rhonheimer, docente di Etica e di Filosofia politica presso la Pontificia università della Santa Croce di Roma, impostosi nei recenti dibattiti.[15] Esso mette in campo elementi ineludibili per una analisi corretta e approfondita della materia.

L’esame di Rhonheimer parte dall’assunto che, nel suo discorso del 22 dicembre 2005, «Papa Benedetto XVI non ha affatto opposto l’ermeneutica erronea della discontinuità a una “ermeneutica della continuità”. Ha spiegato piuttosto che all’“ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma” che consiste, spiega il Papa, “in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”».

Il discorso muove dalla presa d’atto di alcuni cambiamenti semantici di espressioni come “libertà di coscienza” insieme ai mutamenti radicali intervenuti nell’assetto geopolitico e del diritto, per effetto dell’affermarsi di Stati costituzionali con la scomparsa dello “Stato cattolico” come braccio secolare della Chiesa e soprattutto con la fine del potere temporale e della conseguente nullificazione dell’autorità del Diritto Canonico nelle legislazioni nazionali. Cambiano radicalmente gli scenari e si sostiene che non cambiano i principi ma muta solo ciò che le situazioni contingenti inducono a ‘riformare’: il termine ‘riforma’, anzi “ermeneutica della riforma”, per connotare alcuni elementi di innegata ed innegabile ‘discontinuita’, è esplicitamente sottolineato nel discorso stesso.

Il problema nasce quando, in mezzo alle vicende storiche ed ai mutamenti che esse innescano nella società, la Chiesa, anziché procedere sui binari che la tengono ben salda nella verità, cambia direzione lasciandosi penetrare dalle logiche mondane. E allora occorre verificare se davvero si distinguono i condizionamenti teologici e storici dai principi che non possono essere disattesi e se davvero «la dottrina del Vaticano II sulla libertà religiosa non implica alcun riorientamento del dogma, ma piuttosto un riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato»; per cui si sarebbe verificato «piuttosto un riorientamento della dottrina sociale della Chiesa e, più precisamente, una correzione del suo insegnamento sulla funzione e i doveri dello stato».

Il problema è anche che questa asserita riforma nella continuità arriva a gabellare la testimonianza dei Martiri per una rivendicazione di libertà – stando alle asserzioni di Rhonheimer che riprende appunto il citato discorso del 2005 – col pretesto che allora non esisteva lo stesso concetto di libertà di coscienza di oggi. «E  precisamente in rapporto a questo insegnamento dei papi del XIX secolo che si trova il punto di discontinuità, sebbene si manifesti nello stesso tempo una continuità più profonda ed essenziale, come spiega Benedetto XVI nel suo discorso: “Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”.
Questo principio essenziale dello stato moderno e nello stesso tempo la riscoperta di questo patrimonio profondo della Chiesa costituiscono, secondo Benedetto XVI, il chiaro rigetto di una religione di stato: “I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede”».[16]

Si tratta di un'affermazione sorprendente perché la testimonianza dei martiri non è altro che la confessione della loro Fede in Cristo Signore per la quale hanno dato la vita. Essi seguivano e non rinnegavano una Persona, non un ideale libertario di cui si può rischiare di fare un assoluto. Di assoluto c’è solo Dio. Ed è Cristo-Dio che i martiri cristiani hanno testimoniato con la vita, non la loro libertà di religione... Inoltre sembra estremamente pericoloso questo rovesciamento di fronte che induce ad interpretare gli eventi del passato con le categorie odierne. Non vorrei fosse un effetto della “tradizione vivente in senso storicistico”, centrata sul presente e le sue contingenze e che non solo oltrepassa il passato senza tener conto dell’eodem sensu eademque sentenzia; ma, addirittura, anziché interpretare il presente alla luce del dogma rivelato, reinterpreta anche il Magistero perenne alla luce di quello transeunte e trasferisce la sua contingenza al Dogma svuotandolo di tutta la sua pregnante e feconda vitalità che è la stessa in tutte le epoche.

Del resto l’affermata esclusione di riorientamenti del dogma non appare più così limpida e inattaccabile nel dover constatare, ad esempio, che dopo Assisi il Vaticano II è diventato – praticamente se non teoricamente, per effetto della solita ‘pastorale’ – la porta aperta ad ogni manifestazione di religiosità, anche se irriducibilmente lontana dalla religione rivelata e dal patrimonio delle sue verità.

Come dice mons Gherardini : «è come se il programma che san Pio X aveva recepito dal paolino “instaurare omnia in Christo”, fosse stato irriducibilmente invertito in “instaurare omnia in homine” tanto dal Concilio Ecumenico Vaticano II quanto dal postconcilio». Conseguenza del fatto che si è arrivati a riconoscere il Concilio come un ‘unicum’ intoccabile - senza fare i distinguo resi necessari dai diversi livelli qualitativi e conseguentemente autoritativi dei suoi documenti - come la sintesi onnicomprensiva e l’espressione più pura dell’intera Tradizione, e quindi «magari senza perverse intenzioni e forse addirittura con retta intenzione, non si sia affidato al Vaticano II e all’attuazione dei suoi sedici documenti il compito di disarcionare Cristo dal soglio della sua realtà soprannaturale per abbassarlo al livello del naturale: uomo come tutti, per tutti, con tutti», facendo pagare di fatto alla Chiesa un’ipoteca illuminista.[17]

Il riorientamento della dottrina sociale e certamente conseguenza del riorientamento della dottrina tout-court.
La dottrina sociale, poggiata sulla verità, tende ad evolvere rispetto a nuove situazioni storiche: una società industriale richiede un adeguamento di un “programma” d’intervento ed indicazioni un tempo pensato per una società contadina; ma il suo “oriente” non muta. Si studiano i fenomeni ed i problemi, che vengono ricompresi nella dottrina immutabile.

Così la moltiplicazione delle pseudo-religioni in uno stato laico non può mutar la dottrina: la tolleranza non può divenir diritto. Né i doveri dello stato possono, per la Chiesa, venir meno. Se non esistono più stati cattolici, la Chiesa non può che prenderne atto ma non per questo può rinunciare in linea di principio e d’azione alla sua dottrina in merito. In caso contrario la Chiesa non dovrebbe combattere contro le leggi anticristiane.

Tornando al saggio di Rhonheimer, ancora non si riesce a capire su quale verità è poggiata oggi la dottrina sociale della chiesa, se vi si può leggere : «Nel suo discorso del 2005, Benedetto XVI prende le difese della prima fase, quella “liberale” della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che porto al Terrore della ghigliottina.» È questo che fa dire che la Chiesa ha pagato un’ipoteca illuminista?

Benedetto XVI ne parla in diversi punti. Ma qui e molto esplicito:
«È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma».
L’affermazione “risultava non abbandonata la continuità dei principi” è una dichiarazione generica non suffragata da analisi e conseguenti sintesi definitorie dei principi non toccati dalle novità, i quali, invece, risultano erosi in questo (libertà religiosa) come in molti altri casi (es. Gaudium et spes, nel cap. IV - 9 sulla svolta  antropocentrica).

* * *
La teologia è studio, ricerca, chiarimento, approfondimento, sviluppo; ma poi i suoi risultati devono essere autenticati, confermati in termini definitori dal Trono più alto, prima di diventare dottrina, che appartiene al carisma magisteriale.
E di fatto molte applicazioni del Concilio, che i Papi hanno tenuto a definire non dogmatico ma ‘pastorale’, sono state applicate direttamente dai teologi nel senso che sono state assunte le loro posizioni teologiche.

Questo è un serio ‘vulnus’, dal momento che ai teologi spetta il cosiddetto carisma dottorale, mentre quello magisteriale spetta ai vescovi e al Papa ed a quest’ultimo spetta anche quello di governo. Non so se sia eccessivo parlare di carismi trattandosi, mi pare, di munera preso dal Diritto Canonico cioè uffici, doveri (anticamente il termine connotava l’esercizio dei pubblici poteri).

Ma come parlare di munera (anche se il triplice munus sacerdotale non risulta certo abolito) in una Chiesa nella quale l’ordine gerarchico è stato sovvertito dalla cosiddetta “comunione”, come se fosse una scoperta di Paolo VI. Infatti fu lui a parlarne ampiamente e anche piuttosto fumosamente in diverse allocuzioni e il principio è entrato a piè pari nel concilio e in tutti i più recenti manuali di teologia.

È come se prima del Concilio non fosse mai esistita la comunione, che è la prerogativa della Chiesa che raccoglie coloro tra i quali il Signore stesso la crea, per il fatto che vivono in Lui e partecipano dello stesso Altare. È come se si vedesse solo l’aspetto giuridico della “Gerarchia”, che rispecchia anche un ordine superiore, e come se questo impedisse la comunione, anche se lo stesso Paolo VI parla di “comunione gerarchica”, ripresa dalla Lumen gentium per legare il ministero episcopale alla comunione con il Papa ed il collegio dei Vescovi.

Oggi, che si parla tanto di una supposta ritrovata comunione, paradossalmente si dà il caso che ci siano molti cristiani che, anziché condividere lo stesso Altare, condividono ‘mense’ diverse (basta pensare al rito del Cammino neocatecumenale, ad esempio). E regnano sovrane le divisioni e anche l’anomia de facto se non de jure soprattutto in campo liturgico, fonte e culmine della fede nonché lex orandi lex credendi, con tutta la pregnanza e lo spessore di queste espressioni!

Sorge spontaneo riscontrare una differenza tra la Pentecoste da cui è nata la Chiesa e la cosiddetta “nuova Pentecoste” che non sembra tanto aver prodotto il Concilio quanto che sia stata prodotta da esso.
Non possiamo fare a meno di notare che la Pentecoste originaria è data a posteriori, come effetto dell’irruzione dello Spirito Santo inviato dal Signore Risorto a costituire i Suoi e la Sua Chiesa, mentre la cosiddetta “nuova Pentecoste” è dichiarata “a priori” sulla base delle aspettative e delle ‘sensazioni’ ed emozioni enfatiche ed enfatizzanti di chi la proclamava, di fatto prodotta per effetto delle novità introdotte da una costruzione umana (il concilio) dando per scontato che tutti i suoi partecipanti, soprattutto i novatori che ne hanno impressa la direzione nuova, esercitassero in pieno la Grazia di Stato.
E se invece essi vi avessero resistito, nell’incaponirsi, con ogni mezzo (leggere testi di studiosi come Spadafora, De Mattei, Gherardini), ad imporre i propri indirizzi e orientamenti che hanno chiamato “nuova percezione che la Chiesa ha di sé”? Ora stiamo vedendo che questa nuova percezione, che si sta sempre più inverando, sembra condurci in un “altrove” pieno di incognite e di oscurità.

Questa pastoralità, che in definitiva è riforma, innovazione e non rinnovamento, va consolidandosi sempre di più, allargando inesorabilmente lo iato generazionale, ma soprattutto sostanziale con il passato che equivale a dire “Tradizione”. Mentre, nella Chiesa, il passato non può non confluire nel presente per essere traghettato nel futuro, altrimenti davvero dobbiamo constatarne la mutazione genetica... oggi mi pare che siano in molti a fraintendere il senso di Tradizione, confondendola con la tradizione conciliare, posto che il concilio è stato definito come la sintesi onnicomprensiva e l’espressione più pura dell’intera Tradizione. Penso che l’inganno e proprio qui. Anche perché non basta una definizione, quando ci sono molte dimostrazioni, anche autorevoli, del contrario.

Quando si richiamano San Pio X, Leone XIII, ecc. si obietta che son cambiati gli scenari, che il concetto stesso di “libertà di coscienza” non può essere inteso come lo intendevano loro. Tuttavia, molti cambiamenti epocali si sono susseguiti nei secoli. Forse oggi quello più grande si è determinato dalla perdita del potere temporale da parte della Chiesa e dal diffondersi di una laicità anzi del ‘laicismo’, che ha eliminato lo Stato come braccio secolare della Chiesa. Ma finora nessun cambiamento aveva determinato condizionamenti teologici e storici tali da intaccare i principi, come pare sia avvenuto.

Lo stesso Rhonheimer, sopra citato, riconosce giustamente che Pio IX condannava la libertà religiosa perché questa, conducendo all’indifferentismo, era inconciliabile con il concetto di Verità Rivelata. Successivamente, pero, egli afferma che la libertà religiosa oggetto di quella condanna altro non era che “il diritto civile alla libertà di culto”. Dunque, se il Sillabo ha condannato solo la “libertà di culto” considerato un “diritto civile”, in questo caso “il diritto naturale” in quanto tale non è toccato affatto dalla discontinuità che qui si porrebbe. La contraddizione riguarda l’applicazione “giuridico-politica” del diritto naturale “nelle situazioni e di fronte a dei problemi concreti”. Ma da questo è possibile far discendere che le condanne preconciliari perdano il loro peso dogmatico per scadere a contrasti “nell’applicazione giuridico-politica” del “diritto naturale” alla libertà di coscienza, nel suo aspetto di libertà di culto?

La parte più impegnativa delle riflessioni che certamente non mancheranno di appassionare ulteriormente gli studiosi a questo riguardo, sarà quella di percorrere le affermazioni del saggista che con la sua autorevolezza ha condotto alla individuazione di alcuni paradigmi nuovi, andando a verificare in base ai documenti originali dei Papi da lui citati i termini delle cosiddette variazioni semantiche e, se è possibile, l’effettiva corrispondenza dei principi, che in altri aspetti della temperie postconciliare già appare messa in dubbio da talune conseguenze pragmatiche evidenziate (es. l’evento Assisi e ciò che significa; il principio di inclusività che non dichiara né espelle l’errore, ecc.).
« La dottrina cattolica ci insegna che il primo dovere della carità non sta nella tolleranza delle convinzioni errate, per quanto sincere possano essere, né nell’indifferenza teorica o pratica per l’errore in cui vediamo cadere i nostri fratelli…Se Gesù è stato buono con gli sviati e i peccatori, Egli non ha rispettato i loro erronei convincimenti, per quanto apparissero sinceri: Egli ha amato tutti per istruirli, convertirli e salvarli ».[18]
Concludo esaminando l'asserzione riportata  dalla Tertio millennio Adveniente § 6, p. 10 : «Il Verbo incarnato è dunque il compimento dell’anelito presente in tutte le religioni dell’umanità», che suscita perplessità. Infatti «l’anelito» è presente solo nel Vecchio Testamento, che è preparazione al Nuovo. Il che significa che non si trova in nessuna tradizione religiosa di nessun altro popolo. Dio ha concluso la sua alleanza solo con il popolo ebreo, nella fede di Abramo, in vista del suo perfezionamento concluso in Cristo: «Nessuna nazione al mondo ha la divinità così vicina a sé, come è vicino a noi il Signore nostro Dio» (Deuteronomio 4, 7). Il Nuovo Testamento non è l’adempimento di tutti i sensi religiosi, ma il compimento di ciò che è stato preparato e configurato esclusivamente presso il popolo di Dio.
Da notare che la proposizione «Cristo è il compimento dell’anelito di tutte le religioni del mondo», riprende e introduce l'analoga affermazione del documento Communionis notio, La Chiesa come comunione, della Congregazione per la Dottrina della Fede, 28 maggio 1992:
 «La comunità ecclesiale è sia visibile che invisibile. Nella sua realtà invisibile essa è comunità di ogni uomo con il Padre mediante il Cristo nello Spirito Santo e con gli uomini nella comune partecipazione alla natura divina»
Ricordiamo che la Chiesa è Sacramento di Salvezza per tutto il genere umano ma non lo abbraccia tutto in automatico, come invece sembra desumersi da tutta la Lettera apostolica e dal nuovo concetto di libertà di religione.
Di fatto si crea confusione tra ordine naturale, che si invera in tutte le religioni del mondo, e ordine soprannaturale, quello della Grazia, che si invera soltanto nel cristianesimo. La Grazia è l’elemento supernaturale che fa la differenza e che appartiene esclusivamente alla nostra fede, per effetto della presenza e dell'opera teandrica di Cristo Signore. La Grazia è, prioritariamente, il discrimine: c’è il popolo eletto, l’Uomo-Dio e la parola del Signore; e tutte queste cose non sono automaticamente coestese al mondo che ne rimane fuori finché non accoglie l'Annuncio e il Signore unico Salvatore, centro e fine dell'Annuncio stesso.

Il grande sforzo di oggi, che è confluito nel Concilio e che da esso prende le mosse (Costituzioni Lumen Gentium e Gaudium et Spes; Decreto Unitatis Redintegratio), di cui è espressione anche la Lettera apostolica citata, è quello di allargare i confini della religione cattolica in modo da tirar dentro quelli che sono fuori. E questo non in ragione di un loro necessario movimento centripeto, ma perché la Chiesa ha spostato i suoi limiti. Ne deriva come conseguenza la sostanziale identità tra umanità e popolo di Dio, storia mondana e storia della salvezza, natura e Grazia soprannaturale. In contrasto con la misteriosissima scelta di Dio testimoniata da tutta la Sacra Scrittura e dalla Tradizione precedente.
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1. «Tutto ciò che rettamente enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro è frutto di ricerca e speculazione, grazie ad una parte di Logos. Ma poiché non conobbero il Logos nella sua interezza, che è Cristo, spesso si sono anche contraddetti» (Seconda apologia, X, 2-3).
Anche Giustino, più che le altre religioni, valorizza la ricerca filosofica e morale dell’uomo. Egli percepisce che lo sforzo di comprendere il bene e la verità insito nell’uomo ha a che fare con Dio e con il suo Logos, sebbene in forma incompleta ed anche contraddittoria: «Ciascuno infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però, contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile. Dunque ciò che di buono è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che è da Dio non generato ed ineffabile, poiché Egli per noi si è fatto uomo affinché, divenuto partecipe delle nostre infermità, le potesse anche guarire. Tutti gli scrittori, attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed un’imitazione concessa per quanto è possibile, un’altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l’imitazione» (Seconda apologia, XIII, 3-5).
Nella prima apologia, aveva fatto derivare la dipendenza di Platone e Socrate dal Logos anche dal fatto che, a suo dire, essi avrebbero letto il Pentateuco e, quindi, avrebbero imparato da Mosè i buoni insegnamenti che si trovano nei loro scritti: «Quando Platone disse: ‘La colpa è di chi sceglie, Dio non è responsabile’, prese il concetto da Mosè, poiché Mosè è più antico anche di tutti gli scrittori greci. Tutte le teorie formulate da filosofi e poeti sull’immortalità dell’anima, o sulle punizioni dopo morte, o sulla contemplazione delle cose celesti, o su simili dottrine, essi le hanno potute comprendere e le hanno esposte prendendo le mosse dai Profeti. Per questo appaiono esserci semi di verità presso tutti costoro. Li si può però accusare di non aver inteso giustamente, quando si contraddicono tra loro» (Prima apologia, XLIV, 8-9).
2. Nell’uso di questo termine, nel contesto, potremmo vedere un’eco del “cristianesimo anonimo” di Rahner.
3. Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni, 1996, n. 43.
4. «In doctrina simpliciter falsa, veritas non est ut anima doctrinæ, sed serva erroris»: R. Garrigou Lagrange o.P., De Revelatione, Gabalda, Paris, 1921, II, p. 436.
5. R. Garrigou Lagrange o.P.
6. Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, n. 9.
7. Dignitatis humanae, n. 2 § 1.
8. Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, 2009.
9. 1 settembre 1980, Messaggio indirizzato alle autorità firmatarie, ad Helsinki, dell'Atto finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa. 
11. Al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede 9 gennaio 1989, n. 5
12. Ai partecipanti al IX Colloquio Internazionale Romanistico Canonistico organizzato dalla Pontificia Università Lateranense, 11 dicembre 1993 
14. 5 giugno 1989, Helsinki, Discorso ai membri della Società Paavisikivi 
15. Martin Rhonheimer, L’ermeneutica della Riforma e la libertà di religione Nova et Vetera”, 85, 4, ottobre-dicembre 2010, 341-363.
16. Martin Rhonheimer, art. cit.
17. Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau 2001, pag. 102.
18. Pio X, Notre charge apostolique, 25 agosto 1910.

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