Il Rito Romano Antico e l'applicazione del Summorum Pontificum - Maria Guarini

Programmato, per voi, per l'ora in cui prevedibilmente terrò il mio intervento.

Convegno Internazionale su Vecchio e nuovo modernismo: le radici della crisi della Chiesa, Roma, 23 giugno 2018

Il Rito Romano Antico e l'applicazione del Summorum Pontificum
Maria Guarini

Il 14 settembre 2007 – giorno dell’entrata in vigore del motu poprio Summorum Pontificum – all’Altare della Salus Populi Romani in Santa Maria Maggiore, è stata celebrata la Santa Messa Antica secondo il Messale Romano del 1962 dopo una cattività di 39 anni. Lo stesso è accaduto in tutte le diocesi (o quasi) del mondo. Ѐ stata la prima grande operazione di sdoganamento del rito antico. Ma si è constatato che permettere senza promuovere non garantisce la dovuta efficacia.
Oggi i centri messa destinati all'usus antiquior sono grandemente aumentati, ma stentano a crescere con le potenzialità che prometterebbero, perché continua a mancare la volontà di molti vescovi e sacerdoti di impegnarsi ad introdurre nelle parrocchie la Messa Antica e la relativa 'pastorale' e non viene curata la formazione ad hoc nei seminari.
Per l’ala progressista oggi imperante nella Chiesa non siamo altro che un'adunata di acquiescenti da tenere sotto controllo ben inquadrati nel loro recinto, piuttosto che comunità consolidate, in crescita, dedite alla vita di fede, saldamente fondate su un nucleo di sacerdoti che sono lì esclusivamente per questo. Una certa provvidenziale inversione di tendenza diffusa in tutto l’orbe cattolico ce la mostrano i seminaristi più giovani che esprimono grande interesse per l’antico rito. Quando essi diventano 40 come a Parigi (e forse soffocarne la sensibilità, come avviene sistematicamente altrove, sarebbe problematico) allora la cosa si fa interessante e fa ben sperare.

Il Summorum Pontificum ha dato e dà vita a iniziative estemporanee, come Pellegrinaggi, Convegni, Conferenze, celebrazioni occasionali o a cadenza estremamente dilatata (una volta al mese, un venerdì alla settimana etc.). Sono iniziative utili per il 'lancio', per avvicinare i fedeli ignari, ma poi dovrebbe scaturirne la stabilità del celebrare tutti i giorni la Messa, e poi l'ufficio, i Sacramenti... l’intera pastorale che – secondo il triplice munus – insegna santifica e guida.

In troppi casi la Messa antica diventa occasione di una esperienza spirituale in più, offerta ai fedeli nel mare magnum delle tante. Una concessione alla sensibilità di una minoranza di supposti nostalgici, ritenuti perfino in via di estinzione. Ma da quando il rito è questione di sensibilità? Davvero la "sensibilità" può essere motivo sufficiente per pretendere la celebrazione di una forma rituale piuttosto che un'altra? Qui è in ballo qualcosa di molto più serio della sensibilità, è in ballo la nostra identità di cattolici.

Di fronte alla perversa fascinazione di slogan contrabbandati come tradizionali, quali: ‘Riforma della riforma" e "Mutuo arricchimento", la soluzione è una sola: celebrare sempre, quotidianamente, la liturgia antica, così come essa ci è stata consegnata, sfruttandone all'estremo tutte le possibilità, tendendo alla perfezione per svelarne tutta la magnificenza formale e contenutistica (polifonia, proprio gregoriano, partecipazione comunitaria alla liturgia delle ore in canto) e curandone anche la pastorale catechetica.

Solo così può crearsi un nucleo di fedeli talmente numeroso e forte da non poter più essere messo in discussione; solo così il Summorum Pontificum può diventare, finalmente, "irreversibile". Per adesso sono rarissimi i luoghi dove queste premesse di irreversibilità si sono già realizzate, e Vocogno, nella Val Vigezzo è un esempio virtuoso; ma altrove, se domani abolissero SP, si rischierebbe di tornare alla sparuta clandestinità degli anni settanta-ottanta.

Mentre di fatto sta galoppando una Riforma della Riforma in negativo: Lavanda dei piedi alle donne e perfino ai non credenti, traduzioni a rischio impazzimento locale, commissione di studio per la messa ecumenica che purtroppo è sempre più incombente.

Nei tempi più recenti, abbiamo bevuto l'amaro calice del motu proprio Magnum principium (9.9.2017), che modifica il can. 838 del Codice di diritto canonico, riguardante le competenze della Santa Sede, delle Conferenze episcopali e dei Vescovi diocesani nell’ordinamento della liturgia. Si tratta di un colpo di spugna all’istruzione Liturgiam authenticam(7.5.2001), già temuto e preconizzato(1), “sull’uso delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana”. Di fatto siamo al 'rompete le righe' anche col decentramento alle Conferenze episcopali della preparazione dei libri liturgici, che mina l'unità e l'universalità de La Catholica.
Richiede attenzione il seguente passaggio della Correctio papale(2) alle affermazioni del card. Sarah in un documento [qui] che attenuava la svolta rivoluzionaria della Lettera Apostolica(3) : «Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgiam Authenticam, così come veniva effettuato nel passato». Tale affermazione unita all’altra secondo cui una traduzione liturgica “fedele” «implica una triplice fedeltà» – al testo originale, alla lingua della traduzione, alla comprensibilità dei destinatari – lascia intendere che Magnum Principium è considerato come l’inizio di un processo che può portare molto lontano in direzione di una vera e propria devolution liturgica.  I ‘processi’ innescati come mine vaganti sono più d’uno e la frammentazione nella Chiesa acquista velocità sia sulla dottrina che sulla morale e ora sulla liturgia, fons et culmen di tutto.

Ora vorrei soffermarmi piuttosto sulle ragioni della nostra tenace resistenza nel custodire e far conoscere il nostro tesoro. Ci sono elementi dei quali mi limito a declinare un elenco essenziale. Dobbiamo averli ben presenti perché sfatano la leggenda delle “due forme dell’unico Rito”. La forma è sostanza. Lo vedremo dai seguenti punti, che espongo velocemente,  quali abstract di una relazione più approfondita, da sviluppare. La cifra dell'intero discorso è lo ius divinum al culto come ce lo ha consegnato il Signore e ci è pervenuto fin dall’epoca apostolica. L’enucleazione dei vari punti rappresenta gli elementi divergenti tra i due Messali che ci inducono a  resistere e a impegnarci nel custodire e far conoscere il Rito Romano Antico nonostante le difficoltà.

Noterete che essi toccano quelli che in altra sede(4) ho definito ‘bachi’ presenti in alcuni documenti conciliari  (ampiamente individuati ed illustrati), la cui ambiguità, non così evidente a prima vista, ha consentito le applicazioni spurie di cui lamentiamo gli effetti.
  1. Sacrificio.
    Ricordando che la Santa Messa è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, si offre dal Sacerdote a Dio sull’altare in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce, il n.47 della Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, passa sotto silenzio sia il fine propiziatorio (espiatorio) del Sacrificio, che il termine transustanziazione, peraltro inopinatamente assente dall'intero documento. Notevoli perplessità suscita anche il n. 48, nel quale viene oltrepassata la Mediator Dei [vedi] non distinguendo l’azione del fedele da quella del sacerdote, mentre il n.106 descrive “il mistero pasquale” (enfatizzato accentuando la Risurrezione), con espressioni che presentano la S. Messa essenzialmente come memoriale e “sacrificio di lode”, alla maniera dei protestanti. La tavola del banchetto al posto dell’Altare del sacrificio ne è l’immagine plastica.
  2. Assemblea celebrante
    Nei suddetti articoli della SC appaiono già gli elementi della definizione della montiniana Nuova Messa, nell’art. 7 della Institutio Novi Messali Romani, del 1969, tuttora vigente: “La Cena del Signore o Messa è la santa assemblea o riunione del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore”; definizione che suscitò a suo tempo le angosciate quanto inutili proteste di tanti fedeli e sacerdoti, e la ben nota presa di posizione dei cardinali Ottaviani e Bacci, a causa del suo evidente carattere protestante. 
    Nel decreto Ad Gentes  sull’attività missionaria della Chiesa, la variazione nel significato della Messa è ancora più evidente:  vi si dice che i catecumeni partecipano alla S. Messa ossia “celebrano il memoriale della morte e della resurrezione del Signore con tutto il popolo di Dio (definizione – di conio tutto Conciliare – dal sapore vetero-testamentario, che tende a sostituire quella ben più forte e identitaria di “Corpo mistico di Cristo”)” (AG 14), il quale “popolo di Dio” non assiste dunque alla Messa ma la “celebra”, assieme all’officiante, evidentemente; idea che sembra potersi ricavare da SC 48 sopra ricordato.
  3. Orientamento.
    Cito don. Manfred Hauke(5) [qui]: La preminenza del sacrificio per la descrizione della Santa Messa ha anche le sue conseguenze per l’orientamento della preghiera. Al sacrificio corrisponde il rivolgersi a Dio da parte del celebrante e di tutta l’assemblea liturgica. Quando il sacerdote parla con Dio, non fa senso chiedere un rivolgersi verso l’assemblea. È la cosa migliore, se il celebrante si rivolge assieme a tutta l’assemblea alla croce e all’altare, possibilmente nella direzione dell’oriente. L’oriente, il sol nascente, sta per il Cristo risorto il cui ritorno aspettiamo alla fine dei tempi. Un rivolgersi al popolo invece è indicato per la proclamazione della Parola di Dio e per la comunicazione della grazia nei saluti, nella benedizione e nella distribuzione della Comunione. Questo orientamento è anche possibile nel rito di Paolo VI, ma le disposizioni del rito antico sembrano più propizie a questo fine, mettendo al centro la croce, l’altare e il Signore stesso nel Tabernacolo. E dunque la celebrazione VO esclude che si determini un cerchio orizzontale di persone che si parlano addosso perdendo la verticalità, la soprannaturalità, ignorando che nella liturgia c’è un linguaggio fatto anche di gesti e comportamenti che introduce al mistero.
  4. Offertorio trasformato in berakah ebraica. 
    Nessun documento conciliare autorizzava a operare tagli selvaggi all’Offertorio, sostituendo all’Hostia (vittima) pura santa e immacolata il “frutto della terra e del nostro lavoro”, trasformando così l’Offerta di Cristo, già prefigurata nelle oblate, in una berakah (preghiera di lode e benedizione) ebraica, che il Signore ha certamente pronunciato, ma che non è il punto focale della sua Azione, del Novum che egli ha introdotto nell’Ultima Cena. Cito Mons. Athanasius Schneider: «In tutta la storia della liturgia romana, ma anche nelle liturgie orientali, l’Offertorio è sempre stato legato all’attuazione del sacrificio del Golgotha. Non si trattava di preparare la Cena, ma di preparare il sacrificio eucaristico che aveva come frutto il convivio della comunione eucaristica. Ciò che si offre, viene dato per il sacrificio della Croce, si tratta di ciò che possiamo chiamare “un’anticipazione simbolica».
    L’Offertorio è sacrificale: è un’anticipazione per dare modo a tutti di unirsi all’Offerta di Gesù, è una  preparazione che anticipa un crescendo. L’Offertorio, nella sua primitiva accezione, aveva ben presente il Sacrificio come prolessi, cioè come anticipazione del Sacrificio a venire. Le oblate sono intimamente legate al Sacrificio. L’Offertorio fa parte integrante dell’Actio del Canone, nel cuore della Santa Messa.
  5. Creatività.
    Appare inoltre l’inaudita novità dell’introduzione nella Liturgia stessa del principio di creatività, sempre nella costituzione SC agli artt. 37-40, sia pure in teoria sotto il controllo della Prima Sedes, rivelatosi poi nei fatti quasi sempre accademico ed oggi ancor più diluito dal motu proprio Magnum Principium. Il principio di creatività è stato sempre avversato nei secoli da tutto il Magistero, senza eccezioni, come cosa nefasta, da evitare nel modo più assoluto, ed è considerato da molti il vero motivo del caos liturgico attuale. Esso viene corroborato dall’ampia e del tutto nuova competenza attribuita alle Conferenze Episcopali in materia liturgica, ivi compresa la facoltà di sperimentare per l’appunto nuove forme di culto (SC 22 § 2, 39, 40), contro l’insegnamento costante del Magistero, che ha sempre riservato al Sommo Pontefice ogni competenza in materia, quale massima garanzia contro l’introduzione di innovazioni liturgiche.
  6. Inculturazione.
    In armonia con il principio della creatività, la SC ha introdotto due altri elementi di riforma incompatibili con la tradizione e rivelatisi esiziali: l’adattamento del rito alla cultura profana ossia all’indole e alle tradizioni dei popoli, alla loro lingua, musica, arte, appunto mediante la “creatività” e la “sperimentazione liturgica” (SC 37, 38, 39, 40, 90, 119). e mediante la semplificazione programmatica del rito stesso (SC 21, 34). Ciò che l'Abbé Barthe nella sua relazione ha definito "esplosione di varianti"...  Anche questo contro l’insegnamento costante del Magistero, secondo il quale è la cultura dei popoli a doversi adattare alle esigenze del rito cattolico e senza che nulla si debba mai concedere alla sperimentazione o comunque al modo di sentire dell’uomo del Secolo. Una delle prove evidenti dell’antropocentrismo conciliare.  Ed ecco che oggi il rito della Messa è frammentato in diversi riti a seconda dei continenti se non delle nazioni, con infinite variazioni locali, ad libitum del celebrante, variazioni che non escludono l’intrusione di elementi pagani nel rito stesso senz’alcun richiamo della S. Sede o dei vescovi..
  7. Disuso del Latino
    La frammentazione e l’imbarbarimento del culto cattolico sono dovuti anche all’abbandono del latino quale lingua liturgica antica ed universale, unificatrice del rito e nello stesso tempo custode di formule indissolubilmente legate alla tradizione dogmatica, che l’immutabilità linguistica preserva da innovazioni arbitrarie.  L’epocale mutazione fu autorizzata da Paolo VI. Ora, la SC ordina di conservare (servetur) “l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, nei riti latini” (SC 36 § 1).  Ma consente anche di “concedere alla lingua nazionale una parte più ampia”, secondo le norme ed i casi fissati nello stesso paragrafo. Ma le norme di carattere generale stabilite dal Concilio attribuiscono alle conferenze episcopali un’ampia competenza per ciò che riguarda l’introduzione del vernacolo nel culto (SC 22 § 2, 40, 54).  E numerosi sono i casi nei quali si autorizza l’uso parziale o totale della lingua nazionale: SC 63, nell’amministrazione dei Sacramenti, sacramentali e nei rituali particolari; SC 65, nei riti battesimali, presso i Paesi di missione;  SC 76, nella consacrazione dei sacerdoti;  SC 77  e 78, nel matrimonio;  SC 101, nelle preghiere dell’ufficio divino; SC 113, nella liturgia solenne della Messa. L’uso del latino era ancora raccomandato ma si aprivano al volgare notevoli varchi che ora sono diventati voragini.
  8. I tagli e le variazioni: Oltre a quanto ricordato per l’Offertorio, penso a tutti i riferimenti a S. Michele Arcangelo, alla Vergine e alla Comunione dei Santi, (ad es. nel Confiteor sostituiti con l’orizzontalità di “voi fratelli”). Quanto alle variazioni, penso alla formula Consacratoria che merita un approfondimento specifico, ma il tempo non lo consente.
    Cito Romano Amerio (riedito nel 2009 con una preziosa postfazione di Enrico Maria Radaelli)(6): “Poiché la parola consegue all’idea, la loro scomparsa [delle parole, nel nostro caso intere formule] arguisce scomparsa o quanto meno eclissazione di quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico”.
    Ritorniamo al pericolosissimo oblio del carattere sacrificale della Messa cattolica. Oblio che conduce lentamente ma inesorabilmente all'eresia. Cito Michael Davies: “nel nuovo rito anglicano della messa, quello del Prayer book del 1549, non troveremo affermate delle eresie, ma omesse verità di fede essenziali. Le omissioni, il “taciuto”, in liturgia è sempre grave, perché rinunciare ad affermare con completezza e chiarezza tutte le verità di fede implicate, può portare a un vuoto di dottrina nei sacerdoti e nei fedeli che nel futuro apre il campo all'eresia: in parole semplici oggi sei cattolico con una messa eccessivamente semplificata, domani senza saperlo ti ritrovi protestante perché la forma della tua preghiera non ha nutrito più la tua fede. Ecco cosa dicono i vescovi cattolici inglesi: “Per dire le cose brevemente, se si compara il primo Prayer Book di Edoardo VI con il messale (cattolico), vi si scoprono sedici omissioni, il cui scopo era evidentemente quello di eliminare l’idea di sacrificio”
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Oggi appare ben chiaro come tutto l'impianto delle innovazioni e l'apparato concettuale che lo sottende sia fondato, già in nuce, su un'idea  rivoluzionaria di Chiesa di conio vaticansecondista, che non fa altro che citare all'infinito documenti conciliari e post-conciliari che si richiamano l'un l'altro legittimandosi a vicenda, le cui variazioni - ormai vere e proprie rotture - si fanno sempre più audaci ad ogni tappa successiva, in continuità esclusivamente all'interno del loro nuovo impianto paradigmatico, ma senz'alcun legame, e quindi in discontinuità, col magistero perenne ritenuto obsoleto per definizione. Nel contesto in esame l'innovazione non espressa, ma che è alla radice di tutto, è la collegialità. Ho approfondito il tema nei testi: Collegialità episcopale o episcopato subordinato? Le implicazioni nell'Amoris Laetitia(7) [qui] e Conciliarità sinodalità. Come cambia la Chiesa? [qui]. Abbiamo appena ascoltato l'interessante trattazione di p. Kallio su questo tema.
Ribadisco di seguito considerazioni che non mi stanco di ripetere finché non ci sarà chi di dovere che ne tragga le conseguenze pratiche per poter ripareggiare la verità (l'espressione è di Romano Amerio).

Il nocciolo del problema è che oggi, a partire dal concilio 'pastorale', nessun papa si è più pronunciato, né - per come stanno ora le cose - più si pronuncerà ex cathedra (e dunque impegnando l'infallibilità). E ciò anche in virtù del nuovo paradigma di 'tradizione vivente' in senso storicista che assegna la facoltà di riformare la Chiesa alla Chiesa del presente, secondo la ratzingeriana ermeneutica della riforma intesa come rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa che cambia ad ogni epoca, commisurata alla cultura del tempo e realizza la lettura del Vangelo sulla base di quest'ultima, anziché viceversa(8). Per cui, mentre da un lato il card. Burke può dire che l'esortazione Amoris Laetitia non è Magistero perché non riafferma l'insegnamento costante della Chiesa e non implica adesione de fide, dall'altro il papa ha potuto decretare la pubblicazione negli AAS dei criteri interpretativi dell'AL dei vescovi argentini e della lettera papale loro indirizzata, spuri rispetto all’insegnamento costante delle chiesa. E così il card. Schönborn può affermare che l’AL è Magistero e come tale va accolta e il credente vi si deve adeguare. A livello individuale una coscienza ben formata sa a Chi deve obbedire. Ma finché non si recupererà la giusta collocazione del soggetto-Chiesa rispetto all'oggetto-tradizione, la confusione continuerà a regnare sovrana con gravi conseguenze per la salus animarum.

E finché non si prenderà atto che gli aspetti ribaltanti dell'eredità conciliare sono i veri nodi da sciogliere, il nostro impegno di riaffermazione della verità secondo il Magistero costante sarà utile per le anime libere, potrà continuare a defluire come una vena aurea cui attinge chi la trova o come un canale carsico che potrà riaffiorare al termine di questa notte oscura, ma oggi non può avere alcuna efficacia su una realtà così deformata e deformante. E la stessa grave solennità di una possibile correzione canonica, rischia di non ottenere i risultati voluti e sperati. A meno che non intervengano fattori o si destino rette volontà al momento impensabili. Ciò non significa rinnegare il Concilio Vaticano II, ma sottoporne i documenti ad un attento discernimento alla luce del Magistero costante, come Mons. Brunero Gherardini (mi piace ricordarlo qui e ora) chiedeva, inascoltato,  a Benedetto XVI nella Supplica a conclusione della sua meditazione teologica sul Concilio(9): Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare [qui] che purtroppo è divenuto Il discorso mancato(10) [qui - qui].
Concludo parafrasando le sue parole dall’introduzione al mio saggio sulla questione liturgica nel quale ho affrontato anche i molteplici aspetti sopra elencati ed altri(11).
“L’amore per la tradizione ci consente sia di volgerci indietro sia  di guardare in avanti. Conosciamo l’evolversi del fatto liturgico attraverso tanti secoli di storia ecclesiastica e d’adattamento del culto alla sempre più profonda comprensione del mistero in esso e con esso celebrato. E presi dalla bellezza ineffabile e dalla ricchissima simbologia d'ogni azione liturgica, ne traiamo la conclusione in termini di coerenza cristiana: gettarsi in ginocchio, adorare e ringraziare. (cosa più difficile col nuovo rito).
Se è vero che liturgia e fissismo non vanno d’accordo, è altrettanto vero che dell’autentica liturgia non è un ottimo interprete né chi sa o preferisce voltarsi soltanto all’indietro, né chi, guardando in avanti, non ha occhi se non per l’ancor confuso domani. Se s’è d’accordo su questo, allora si capisce perché né l’archeologismo fine a se stesso, né l’improvvisazione, fosse pur seria, devota ed edificante, potrebbero esser mai vera liturgia”.
Per evitare di trasformare un mirabile Ordo nel trionfo dell’informe. _________________________________
1. Un altro serio vulnus a La Catholica. La revisione di Liturgiam Authenticam : https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2017/01/un-altro-serio-vulnus-ai-fondamenti-de.html
2. Correctio papale al Card. Sarah: http http://lanuovabq.it/storage/docs/lettera-papa.pdf
3. Documento del card. Robert Sarah sulle traduzioni per la Liturgia: https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2017/10/documento-del-card-sarah-sulle.html
4. Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI, Rieti 2012
5. Manfred Hauke, La Santa Messa, Sacrificio della Nuova Alleanza, relazione tenuta nel 2008, pubblicata in Vincenzo M. Nuara (a cura di), Atti del Convegno Il Motu proprio "Summorum Pontificum" di S.S. Benedetto XVI. Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Fede & Cultura, Verona 2009, pp. 48-64.
6. Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni nella Chiesa Cattolica nel secolo XX,  Lindau, Torino 2009
7. Collegialità episcopale o episcopato subordinato? Le implicazioni nell'Amoris Laetitia - http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2017/01/collegialita-episcopale-o-episcopato.html ; Collegialità Sinodalità. Come cambia la Chiesa? - http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2015/10/conciliarita-sinodalita-come-cambia-la.html
8. Nec plus ultra http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2013/09/nec-plvs-vltra.html ; Nec plius ultra english http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2013/09/nec-plvs-vltra-here-and-no-further.html
9. Brunero Gherardini, Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, 2009
10. Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato. Lindau, 2011
11. Maria Guarini, Il Rito Romano antiquior e il Novus Ordo dal Vaticano II all'epoca dei 'due Papi’, Solfanelli, Seconda Edizione 2017

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