Un testo che completa il precedente, che lascio come primo approccio. Ringrazio di cuore l'Autore che ce lo ha inviato. [ne parlavamo qui]
Cosa fa del Gregoriano "il canto della Chiesa"
La pastorale liturgica antropocentrica, sviluppatasi smaniosamente negli anni postconciliari, ha messo in evidenza una forte contraddizione. Per decenni, a causa di una scorretta comprensione del senso di quella actuosa participatio [vedi qui] invocata dal Vaticano II, il canto gregoriano è stato considerato come inadatto alla liturgia riformata, quando basterebbe semplicemente sfogliare i documenti conciliari per rendersi conto che la Chiesa afferma ufficialmente che essa «riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana» al quale deve spettare «il posto principale» (Sacrosanctum Concilium, n. 116)[1]. E lo fa proprio in quei documenti di quel Vaticano II al cui spirito molti si appellano per dimostrare il definitivo superamento della “vecchia” musica sacra. In realtà, il dettato conciliare è inequivocabile e il Magistero ecclesiale, onde evitare il dilagare del soggettivismo e di una Babele musico-liturgica si aggrappa fortemente alla Tradizione, ci trasmette, per dirla con san Paolo, ciò che ha ricevuto (cfr 1Cor 15, 3).
Occorre, allora, chiedersi come mai la Chiesa riconosca il gregoriano come suo e come mai il Magistero non lo abbia mai abrogato o sostituito, ma esaltato, additato come «supremo modello» (PIO X, motu proprio Inter sollicitudines, n. 3) al quale le nuove composizioni dovrebbero ispirarsi affinché «siano pervase dallo stesso spirito che suscitò e via via modellò quel canto» (GIOVANNI PAOLO II, Chirografo per il centenario del motu proprio Tra le sollecitudini sulla musica sacra, n. 12). Ma qual è questo «spirito» così prezioso del gregoriano?
Ragionare di canto gregoriano significa interrogarsi prima di tutto sul suo significato intrinseco: che cos’è realmente? da che cosa nasce? che cosa fa del canto gregoriano quella definizione di “canto della Chiesa”? Se, da questa primissima e ovvia definizione, saliamo di un gradino ci accorgiamo immediatamente che esso, paradossalmente, non è canto, non è musica. È sottomesso ad altri scopi; non conosce canoni musicali e ritmici fissi applicabili indifferentemente a formule melodiche prestabilite. Ogni brano conserva caratteristiche retoriche specifiche che mettono musicalmente in luce determinate parole piuttosto che altre, un fraseggio piuttosto che un altro, ritmi scorrevoli piuttosto che un andamento allargato: tutto questo serve per sottolineare, attraverso il suono, quella particolare parola e ottenere, così, quel preciso significato che si inserisce in quel determinato contesto liturgico. Ecco il vero fascino del canto gregoriano: non è un semplice pronunciamento del testo, ma una spiegazione, è la lectio divina della Chiesa, è la Parola che si fa suono. Ogni brano, anzi ogni neuma, è frutto di una lenta maturazione il cui fine è, attraverso finissimi artifici retorici, proporre la Parola nella sua autentica interpretazione. E la Parola non è posta nella liturgia, ma è essa stessa liturgia: il canto, in quanto manifestazione sonora della Parola divina, è liturgia. La riforma liturgica ha voluto dare grande risalto alla Parola di Dio anche attraverso la terminologia: “Liturgia della Parola”. Ed è proprio questa parte della celebrazione che, disattendendo i dettati conciliari, viene troppo spesso banalizzata, improvvisata e depauperata della sua solennità. Il canto gregoriano non permette tutto ciò: il canto delle letture, ciascuna con una melodia differente, e l’ornamentazione del graduale (che deriva da gradus, il gradino dell’ambone dal quale veniva cantato) nella sua concezione di brano meditativo, risaltano, onorano e celebrano la Parola di Dio offrendola all’assemblea affinché sia assimilata e meditata.
«Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19). Così l’evangelista Luca descrive l’atteggiamento di Maria; e così gli apostoli conservarono nel loro cuore gli insegnamenti di Cristo e li trasmisero a memoria alle prime comunità: cuore e memoria furono gli strumenti indispensabili per i primi cristiani e, prima ancora, per il popolo d’Israele. Anzi, la Chiesa stessa ha riservato alla memoria una funzione indispensabile per la formazione, non solo culturale, ma umana: la memoria della Sacra Scrittura è memoria di Dio. E la stessa sorte è toccata anche al canto gregoriano: a memoria i monaci imparavano le melodie e le “serbavano nel loro cuore”. Il loro lavoro di meditazione dei passi musicati della Scrittura era chiamato ruminatio, paragonandolo, così, al processo digestivo: la crudezza di una linea melodica doveva essere “digerita” e trasformata pienamente in evento sonoro della Rivelazione, in Parola di Dio.
Con il X secolo, e la nascita della scrittura neumatica, il monaco ha la possibilità di annotare, al di sopra dei testi, tutto un insieme di segni i quali, se non indicavano le altezze dei suoni (la melodia) che rimanevano a memoria, fornivano precisissime indicazioni ritmiche e interpretative di ogni brano. L’importanza di questa svolta fu immensa: la notazione neumatica era – e, fortunatamente per noi, è – la traduzione scritta della ruminatio, i segni neumatici diventano ultima espressione del Lògos e perpetuazione di quel Verbo che è sin dal principio (cfr Gv 1, 1).
«Prendi i contratti di compra e mettili in un vaso di terra perché si conservino a lungo» (Ger 32, 14). Questo ha sapientemente fatto la Chiesa: ha reso suo il gregoriano, l’ha custodito gelosamente e l’ha annoverato fra i suoi tesori a causa del Messaggio che esso veicola. La Santa Chiesa, che è nostra Madre, propone questo tipo di musica perché è convinta – a ragione – che esso sia realmente incarnazione sonora della Parola di Dio e che lo sia nel suo autentico significato. La Chiesa propone il gregoriano perché esso è veramente suono dell’Invisibile, epifania sonora del Verbo. È Dio, il quale non ha «bisogno della nostra lode» (Messale romano, Prefazio comune IV), che parla a noi attraverso un canto plasmato dallo Spirito, è una musica che dal Cielo discende sulla terra ed è in grado di infondere la gioia e la speranza nel cuore come la cetra di Davide calmava lo «spirito cattivo» di Saul e lo trasformava in un altro uomo (1Sam 16, 14-23).
C’è, però, un rischio: la Parola, per essere tale, deve essere proclamata; l’esegesi, per essere interpretativa, deve essere spiegata; il canto gregoriano per essere manifestazione deve essere cantato, altrimenti è puro esercizio intellettuale. Ecco, allora, la vera sfida odierna nostra e della Chiesa. Il nostro dovere è quello di riplasmare la musica delle nostre liturgie con il canto gregoriano; esso ci dice non solamente cosa cantare, ma soprattutto come cantare. Dobbiamo porre, parafrasando san Paolo, «questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4, 7).
Mattia Rossi
(da “Liturgia culmen et fons”, settembre 2011)
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1. Sacrosanctum Concilium, n.116: La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica, a norma dell'art. 30.
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