martedì 13 giugno 2023

Fatevi santi! 1 / 2 - Don Elia

Compendio di seguito le due parti di una riflessione di don Elia sui rischi insiti nelle deformazioni della spiritualità del nostro tempo.
Fatevi santi! / 1 

Audiam quid loquatur in me Dominus Deus, quoniam loquetur pacem in plebem suam, et super sanctos suos, et in eos qui convertuntur ad cor. Verumtamen prope timentes eum salutare ipsius, ut inhabitet gloria in terra nostra (Sal 84, 9-10).
«Ascolterò che cosa dice in me il Signore Dio» (Sal 84, 9). L’intensificarsi dell’unione con Dio sviluppa nell’anima una spiccata sensibilità per i doveri che l’uomo ha verso di Lui e un desiderio ardente di ricambiarne l’amore in ogni maniera. Essa sente così un bisogno spontaneo di pregare di più e con maggior fervore; di moltiplicare atti nascosti di adorazione, umiliazione e dedizione; di servirlo in tutte le occasioni, grandi e piccole; di offrirsi costantemente a Lui in pegno, per quanto esiguo, di riconoscenza e di affetto. Il sussurro discreto dello Spirito Santo suggerisce al cuore teso in ascolto mille modi di esprimere la gratitudine, mentre in modo ineffabile lo tormenta il Suo fuoco soavissimo, che arde dolcemente, ma in modo inarrestabile: nulla sembra bastare né essere adeguato allo scopo, mentre le lodi degli uomini causano acuta pena, in quanto percepite come inopportune verso un peccatore e lesive dell’onore divino.

Un ambiente sfavorevole
Quell’anima favorita dal Signore si trova però a vivere in una società inghiottita dal materialismo e regredita nella barbarie, nonché in un contesto ecclesiale completamente avverso, nel quale il culto dell’uomo ha trasformato la vita spirituale in ricerca di godimento emotivo, mentre la Liturgia è diventata un palcoscenico su cui esibirsi a vario titolo in vista di un effimero plauso umano. Anziché sforzarsi di inventare e iterare atti di amore, offerta e mortificazione con cui dimostrare a Dio, com’è giusto, la propria gratitudine e corrispondenza, abbiamo ridotto sempre più, fino a eliminarli talvolta del tutto, i segni e le forme non solo di pentimento e abnegazione, ma finanche di semplice rispetto: le genuflessioni, il digiuno eucaristico, l’astensione dalle carni, le penitenze, il silenzio… e tante altre espressioni di quella contrizione e dedizione che la fiamma della carità stimola in coloro che Lo amano in verità e non a parole.

Siamo andati nel senso opposto a quello verso cui ci spinge l’obbligo di ricambiare l’immensa bontà di cui il Signore ci circonda senza sosta e il desiderio di unirci totalmente a Lui. Come può Dio sopportarci ancora? Cosa sono mai le catastrofi provocate dai Suoi nemici, in confronto ai castighi che meritiamo? Chi mai prega come si deve perché essi siano allontanati? Perfino la preghiera pubblica della Chiesa è stata ridotta al minimo con la semplificazione del Breviario, l’abrogazione delle Rogazioni e tanti altri tagli che sembrano rispondere più alla volontà di distruggere che all’asserito intento di favorire una partecipazione più consapevole. In realtà la demolizione del culto è cominciata prima di quel fatidico 1969: a ben tre riprese (nel 1955, nel 1960 e nel 1962) la Liturgia era già stata picconata nelle funzioni della Settimana Santa, nell’Ufficio Divino, nel Messale e nel calendario.

Senza certo negare l’enorme salto compiuto dopo il Vaticano II col completo rifacimento del culto cattolico, non se ne può tuttavia misconoscere la continuità con gli interventi precedenti, che di fatto ne furono una preparazione. Lo spirito dell’innovazione aveva già impregnato molti esponenti della Curia Romana, nonché tanti formatori di seminario e professori di teologia, soprattutto nell’Europa centro-settentrionale. La massoneria aveva sguinzagliato ovunque i suoi agenti, incaricati di propagare simultaneamente il modernismo, il comunismo e l’omoerotismo. Queste tre componenti si ritrovano quasi sempre congiunte nei medesimi soggetti; là dove manchi un’esplicita adesione ai temi tipici della propaganda di sinistra, essa è sostituita da un irritante comunitarismo in nome del quale bisogna per forza esser tutti amici, andar tutti d’accordo, far tutti le stesse cose… una farsa grottesca che, malgrado la sua evidente falsità, deve comunque continuare.

Che cosa dobbiamo fare?
Al termine del discorso pronunciato da san Pietro il giorno di Pentecoste, che aveva trafitto il cuore degli ascoltatori, la folla domandò a lui e agli altri Apostoli: «Che faremo, uomini fratelli?» (At 2, 37). La risposta non si fece attendere: «Fate penitenza» (At 2, 38 Vulg.). Le tradizionali pratiche di mortificazione hanno il potere, per la misericordia divina, di espiare i peccati, stornare i castighi, purificare l’anima e renderla ricettiva alla grazia. Soltanto chi si astiene da ciò che fomenta peccato, impazienza e dissipazione può accogliere i doni celesti e udire come Dio «proclamerà la pace nei confronti del suo popolo, sopra i suoi santi e verso coloro che si volgono al cuore» (Sal 84, 9). I beneficiari del Suo intervento favorevole appartengono a tre categorie: il Suo popolo, del quale si è membri in virtù della fede, del Battesimo e della Cresima (cf. At 2, 38); i Suoi santi, cioè le membra vive del Corpo Mistico, quelle che, essendo in stato di grazia, sono insignite della santità ontologica dei battezzati e perseguono la santità effettiva di tutto l’agire; coloro che si volgono al cuore, ossia i fedeli che, curando la vita interiore, scoprono il Cristo nascosto nell’intimo.

La successione dei gruppi enunciati indica in realtà un progressivo restringimento di prospettiva: non basta far parte della Chiesa né vivere abitualmente in grazia, ma bisogna acquisire la capacità di rientrare in sé stessi il più spesso possibile per ascoltare cosa il Signore dice alla coscienza. In tal modo si riceve la pace soprannaturale che Egli è pronto a riversare nei cuori umili e mortificati, ma ricolmi di incrollabile fiducia; in tal modo si scopre che la «Sua salvezza è vicina a quanti lo temono, affinché la gloria dimori nella nostra terra» (Sal 84, 10). La familiarità con Dio, infatti, dona una conoscenza quasi sperimentale della verità rivelata, alla quale aderiamo, ovviamente, non a motivo di essa, ma in ossequio all’autorità di Lui; senza questa obbedienza previa sarebbe peraltro impossibile giungere a quella forma sublime di scienza che, come si vede negli scritti dei Santi, esprime asserti elementari della dottrina con impressionante profondità, chiarezza, perspicacia e forza persuasiva, cogliendone nessi e implicazioni, mostrandone l’irrefutabile veridicità e comunicandoli in modo che si imprimano indelebilmente nell’intelletto, muovendo al contempo la volontà.

Questa viva comprensione della fede, naturalmente, si dimostra autentica nel suo tradursi in atti di carità concreta: l’effusione di pace celeste e l’esperienza personale della salvezza, infatti, non possono rimanere rinchiuse nel cuore infiammato dallo Spirito Santo, ma sono per loro stessa natura contagiose. Ciò presuppone tuttavia tre condizioni. La prima è la determinazione nel perseguire la perfezione in ogni cosa, con l’esclusione di ogni peccato veniale deliberato; ben lungi dall’essere lo sforzo perfezionistico di un io tirannico, è un’esigenza che scaturisce da un amore di Dio sempre più ardente e totalizzante. La seconda è l’approdo all’infanzia spirituale, da non confondere con quell’infantilismo che pretende tutto da Dio senza alcuno sforzo e si perde nella ricerca di fatti straordinari, così pericolosa nell’esporre l’anima alle illusioni psicologiche e agli inganni diabolici; si tratta invece di quella semplicità e mancanza di ipocrisia che consente ai bambini, malgrado i difetti del loro egocentrismo, di riconoscere l’amore sincero e di abbandonarvisi senza riserve né calcoli, ma con la fiduciosa dirittura della loro innocenza.

La terza, infine, è la volontà di imitare i Santi, non certo con assurdi tentativi di elevarsi da sé alle grazie singolari di cui il Signore li ha favoriti, bensì con l’esercizio dell’umiltà, della pazienza, della mortificazione e dell’astinenza non solo dai piaceri illeciti, già esclusi in partenza, ma anche da quelli leciti ogni volta che se ne senta la chiara ispirazione (purché non si tratti di uno scrupolo o di una tentazione sotto apparenza di bene; in caso di dubbio, si consulti un buon confessore). A questo fine è molto utile leggere le loro vite e i loro scritti, possibilmente in vecchie edizioni precedenti al Vaticano II, quindi scevre da quella mania di reinterpretare tutto in funzione delle innovazioni, con la sistematica espunzione di quanto sa di miracolo, castigo e penitenza, fino a riscrivere in certi casi perfino i loro testi col pretesto di aggiornarne la lingua. La colossale opera di revisione mistificatrice non ha risparmiato proprio nulla, con un’impudenza da lasciare esterrefatti; essa è però per noi ulteriore motivo di stupore e gratitudine per l’immeritata grazia di aver potuto aprire gli occhi ed esserne gradualmente disintossicati. Laus Deo et Mariae! 

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Fatevi santi! / 2

Viam iustificationum tuarum instrue me, et exercebor in mirabilibus tuis (Sal 118, 27).
«Insegnami la via dei tuoi precetti e mi applicherò alle tue meraviglie». Una reale ed effettiva santificazione personale presuppone necessariamente la pratica dei Comandamenti, prima di dare accesso alle manifestazioni straordinarie di Dio. Negli ultimi decenni, invece, si è diffusa l’idea che si potesse sostituire la loro osservanza, così come ogni forma di ascesi e penitenza, con particolari esercizi che avrebbero dovuto assicurare il raggiungimento di una pretesa perfezione ottenuta rapidamente e con poco sforzo. Che si trattasse della scrutazione della parola, dei carismi dello spirito, della ricerca dell’unità, dell’esperienza della comunità, della santificazione del lavoro o d’altro, pareva che un singolo elemento della vita cristiana, assurto quasi a entità in sé sussistente, fosse da solo completo e sufficiente a garantire il pieno successo, mentre tutto il resto rimaneva di fatto declassato ad accessorio di complemento.

In tal modo l’intera dottrina e sapienza ascetico-mistica accumulata dalla Chiesa in due millenni è inevitabilmente finita nel dimenticatoio: la nuova Pentecoste l’ha resa del tutto superflua, a meno che non sia in parte ricuperata, sebbene in modo puramente nominale oppure in ossequio a false apparizioni, non certo in continuità con la Tradizione né in conformità alla propria vera natura e ai propri veri scopi. Lo sforzo di correzione e miglioramento individuale è stato rimpiazzato dalle attività di gruppo, come se la salvezza fosse una realtà collettiva di cui si beneficia in virtù della mera appartenenza ad esso. In questo contesto han pullulato ovunque nuove comunità in cui l’ascesi viene variamente intesa come congerie di velleitari propositi o, all’opposto, impegno volontaristico estraneo a una vera cooperazione con la grazia. Il risultato, di solito, è un ottuso convincimento di essere a posto, che rende le persone refrattarie a qualsiasi richiamo.

Santità a buon mercato
In una temperie spirituale del genere, non raro è il caso di fondatori che, in forza di un presunto privilegio, si considerano esonerati dagli obblighi morali cui sono vincolati i comuni mortali e, di conseguenza, informano i loro comportamenti a un’asserita libertà evangelica che, in realtà, copre l’assuefazione all’arbitrio, all’illegalità e all’abuso. Pare che il chiaro monito paolino non sia stato ben compreso: «Voi foste chiamati a libertà, fratelli, purché la libertà non si trasformi in occasione per la carne» (Gal 5, 13). Logorroiche affabulazioni spiritualoidi o solenni documenti zeppi di titoli pomposi non valgono a nascondere la realtà di un sostanziale nulla sul piano della vita interiore, il cui spazio è riempito da parole vuote e luoghi comuni. Il peggio è che tutto questo fa scuola tra giovani e meno giovani trovando appoggio da parte della gerarchia, la quale, finché non è costretta ad aprirli dallo scoppio di uno scandalo, tiene serrati entrambi gli occhi.

Senza toccare qui il problema dei condizionamenti mentali cui spesso sono sottoposti i seguaci, ridotti a volte in balìa di un esercizio dell’autorità del tutto arbitrario e irretiti da insegnamenti manipolatori che possono giungere ad alterarne la coscienza, ci limitiamo a evidenziare come la conversione non consista in un’esperienza emotiva che instauri un rapporto di dipendenza, bensì nella decisione di abbandonare effettivamente il peccato e di impegnarsi a osservare la legge di Dio nella condotta concreta. Questo è il punto di partenza di ogni percorso autenticamente cristiano; senza iniziare da qui, non si va da nessuna parte, ma ci si perde nelle illusioni. Sicuramente è solo con l’aiuto della grazia che tale decisione può essere presa e applicata; nondimeno il Signore, che non nega mai la grazia a chi sia ben disposto, la vuole in quanto parte integrante della necessaria cooperazione umana. Essa, inoltre, è solo l’inizio di un processo di graduale purificazione e santificazione, non certo un punto di arrivo.

La commedia degli equivoci
Il credersi già arrivati in virtù dell’accettazione nel gruppo comporta un altro grave equivoco: quello di scambiare la perfezione con l’ordinaria vita cristiana, intesa oltretutto in modo riduttivo come una sorta di patteggiamento col peccato o di compromesso permanente, uno stato di tiepidezza e ipocrisia ammantato di nobili discorsi infarciti di concetti astratti e tendenti a legittimare il peccato: accoglienza, fraternità, inclusione, solidarietà, condivisione… Un errore analogo è quello con cui si presenta la perfezione come qualcosa di normale, alla portata di chiunque: le disposizioni e i fenomeni che la caratterizzano sembrano immediatamente accessibili a tutti, senza alcuno sforzo umano né speciale intervento della grazia. Il nominalismo protestante impera ormai senza pudore e senza remore: l’importante è convincersi di essere giusti grazie alle opinioni, alle parole e, per dare almeno una parvenza di concretezza, a un po’ di volontariato privo di ogni soprannaturalità.

Contro questa deriva luterana, che conduce nel vicolo cieco di un’impossibile autosalvazione, risuona possente la divina parola. Chi si è sinceramente convertito ricerca ardentemente una guida sicura per la propria condotta; sapendo che Dio solo può offrirgliela, ne medita e scruta i precetti, la cui osservanza è capace di renderlo effettivamente giusto per effetto della grazia divina. Dato però che la grazia, lungi dal sopprimerlo o soppiantarlo, si inserisce nell’agire umano per elevarlo al piano soprannaturale, è indispensabile che l’uomo faccia qualcosa, ovviamente in sintonia con la volontà di Colui che gliela dona, non in contrasto. È assurdo che Dio, suprema verità, consideri giusto chi persevera nel peccato senza volersi emendare, abusando della Sua misericordia nonché disonorandolo di fronte a quanti vedono vivere in tal modo uno che si fregia del nome di cristiano. Una religiosità costruita su questa stridente contraddizione è un’insopportabile farsa.

Quale evangelizzazione?
Ora, che cosa si intende, oggi, quando si parla di evangelizzazione? Si tratta forse di convincere chi è lontano dalla fede e dalla pratica religiosa a partecipare a questa finzione? di spingerlo a questa illusoria conversione a buon prezzo? di coinvolgerlo in un itinerario di apparente progresso spirituale? Ci sono purtroppo molte persone pronte ad accogliere simili proposte, che danno loro l’impressione di un grande cambiamento lasciandole esattamente come sono: è così facile e allettante! Poiché però, pur essendo possibile ingannare sé stessi e gli altri, è impossibile frodare Colui che tutto vede, si rivela necessario costruirsene un’immagine a proprio uso e consumo, un vitello d’oro da adorare come autore della liberazione da un Egitto nel quale, in realtà, si è rimasti sia col cuore che con la condotta; in altre parole, ci si foggia un idolo che legittimi la contraddizione e nasconda l’apostasia dietro la cortina fumogena di un culto artificiale, elaborato dall’uomo e non prescritto, com’è logico, da Colui che lo esige.

Quando, per pura grazia, si fa ritorno all’autentico rito, si prende piena coscienza della vera portata dell’insegnamento dei mistici: si capisce bene cosa sia l’odio del peccato, che essi inculcano come preliminare di ogni ascesa, e in che consista il sincero amore di Dio, il quale va dimostrato con i fatti. Il cuore si sente allora sopraffatto dal bisogno di ricambiare in modo effettivo la Sua impagabile misericordia e brama di dare sfogo alla fiamma di carità che lo tormenta. In quest’operosa tensione, dopo essersi lasciato adeguatamente istruire e purificare in successivi passaggi, esso può finalmente applicarsi alle meraviglie del Signore nell’esercizio delle virtù, che il divampare dell’amore spinge fino all’eroismo. Ecco: questo è ciò che ci insegna la tanto celebrata Parola, se letta nell’alveo della Tradizione che l’ha custodita e ce l’ha consegnata, piuttosto che secondo i vaniloqui dei moderni spiritualisti; questo è ciò che può farci realmente santi. Solo così Cristo non è relegato all’ultimo posto col pretesto di servire il prossimo, come mero puntello di un’ideologia pseudoreligiosa; solo così la verità che salva si realizza nella coscienza e nella vita.

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