giovedì 1 maggio 2025

Perché non "tifo" Pietro Parolin

Perché non "tifo" Pietro Parolin

Ho appena concluso la stesura di questo contributo su richiesta di alcuni amici che mi hanno sollecitato a scriverlo:

Nel tempo critico in cui si prepara l’elezione del successore di Pietro (il Conclave è fissato per il 07 maggio 2025), ogni nome che circola quale papabile deve essere scrutinato (sempre con grande rispetto) non sulla base di suggestioni mediatiche, di equilibri geo-ecclesiastici o di prudentismi diplomatici, ma alla luce della conformità intima e profonda con la "veritas fidei" e con quella "forma mentis" che il Magistero costante della Chiesa ha riconosciuto nella sapienza metafisica, in particolare tomista.

In questa prospettiva, l’ipotesi dell’elezione del cardinale (vicentino) Pietro Parolin si presenta come inopportuna e teologicamente problematica. La sua lunga esperienza diplomatica e il suo profilo di apparente moderazione, se da un lato possono sedurre coloro che cercano una continuità "gestionale" del pontificato di Papa Francesco (2013-2025), dall’altro rivelano, ad un esame più profondo, una sostanziale acquiescenza a una visione funzionalista della Chiesa a discapito del suo ordine soprannaturale fondato "in ratione veritatis".

Il cuore della questione non è politico, quanto filosofico-teologico: si tratta dell’idea stessa di verità dottrinale e, dunque, del significato del Magistero come partecipazione derivata, ma reale, della Verità divina, la quale, secondo la lezione tomista, è immutabile, universale e normativa ("Veritas est adaequatio rei et intellectus secundum quod intellectus dicit esse quod est").

Quando la dottrina viene relativizzata alla contingenza storica, piegata all’urgenza della mediazione diplomatica, o dissolta in un discorso pastorale svincolato dal principio di non contraddizione, essa perde il suo carattere propriamente salvifico.

Ebbene, il cardinale Parolin, pur evitando posizioni apertamente eterodosse, ha promosso una concezione pragmatica del Magistero, funzionale alla gestione delle diversità e delle tensioni ecclesiali, ma in definitiva estranea alla natura della "lex fidei" come partecipazione alla "lex aeterna", secondo l’insegnamento di "De Veritate" q. 14 di Tommaso d’Aquino (1225-1274).

Un esempio evidente e concreto in questa direzione si trova nel suo sostegno, non solo formale bensí anche ermeneutico, all’Esortazione Apostolica post-sinodale "Amoris Laetitia" del 2016. Parolin ha affermato, in più occasioni, che il documento rappresenta una "svolta paradigmatica", ma ha taciuto ogni precisazione circa la compatibilità del capitolo VIII con l’insegnamento infallibile contenuto in "Veritatis Splendor" n. 79 di san Giovanni Paolo II (pontefice dal 1978 al 2005), laddove si afferma l’esistenza di atti intrinsecamente malvagi che non possono mai essere giustificati da alcuna circostanza. L’indeterminatezza deliberata di Parolin ha consentito la proliferazione di prassi difformi circa l’accesso all’Eucaristia da parte dei divorziati risposati soprattutto a livello di Conferenze episcopali, prassi che contraddicono l’insegnamento costante della Chiesa, dal Concilio di Trento fino a Benedetto XVI (Papa dal 2005 al 2013).

Il non chiarire, qui, equivale a permettere la contraddizione interna al "depositum fidei", con grave danno per l’unità ecclesiale (altro che Becciu), che si fonda sulla verità e non sul consenso. Questa inclinazione alla "pastoralizzazione della verità", che è tipica del neomodernismo liquido dei nostri tempi, in Parolin assume la forma di una retorica dialogica, la quale, seppur pacata, risulta epistemologicamente insostenibile: la verità non si negozia, perché non è prodotto del discorso, risultando antecedente oggettivo, costitutivo dell’intelligenza credente. La "fides quaerens intellectum" non è mai pura prassi, ma ordinamento finalistico della ragione e del cuore alla contemplazione dell’Essere divino.

Tale impianto concettuale è gravemente contraddetto dal cosiddetto "Accordo provvisorio" tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese del 2018, fortemente voluto e difeso da Parolin [vedi]. Anche a prescindere dalla sua segretezza (che già solleva dubbi sul principio di trasparenza ecclesiale), l’accordo rappresenta una torsione inaccettabile del principio teologico della "libertas Ecclesiae". Esso concede, di fatto, al potere comunista il diritto di co-decisione sulle nomine episcopali, rinunciando al principio sacramentale e soprannaturale della trasmissione dell’autorità apostolica.

Parolin ha parlato di "pazienza" e di "lungimiranza", tuttavia ciò che si è prodotto, nella realtà, è l’integrazione forzata della Chiesa fedele a Roma nella cosiddetta "Chiesa patriottica" sotto il controllo del Partito. Questo esito è non solo pastorale, ma soprattutto dottrinale: esso istituisce, nella prassi, un’autorità parallela alla Sede di Pietro, negando che Cristo sia l’unico principio di unità della sua Chiesa (cfr. La Costituzione dogmatica "Lumen Gentium" 18-21). Permettere a un regime ateo e materialista di influenzare le nomine significa, teologicamente, accettare la mondanizzazione della grazia, e politicamente, legittimare una persecuzione sistematica dei cattolici fedeli. Qui non si tratta di "realismo diplomatico", bensí di compromissione con un potere che nega ontologicamente il fondamento stesso della libertà umana, e dunque della fede.

Alla luce di tutto ciò, appare evidente che l’eventuale elezione di Pietro Parolin costituirebbe un passo ulteriore verso una forma di ecclesiologia funzionalista, antropocentrica e post-metafisica, già diffusamente presente in certi ambiti del post-conciliarismo esasperato.

In un tempo in cui la Chiesa ha bisogno urgente di pastori che sappiano parlare il linguaggio della verità integrale, fondata sull’essere e non sull’opinione, Parolin rappresenterebbe, invece, la prosecuzione di una visione ecclesiale fondata su una prudenza senza verità, su una diplomazia senza profezia, su una pastorale senza dottrina.

La Chiesa ha bisogno oggi non di un ex Segretario di Stato (con la morte di Francesco decadono tutte le cariche tranne alcune) elevato a Papa, ma di un successore degli Apostoli capace di confessare la verità senza tentennamenti, senza compromessi, senza timore del mondo. Un Papa che, come san Pio X (anche lui veneto e pontefice dal 1903 al 1914), si opponga al modernismo sotto tutte le sue forme, compresa quella, subdola e pervasiva, che si cela nei compromessi diplomatici elevati a criterio pastorale. Solo un tale Papa potrà veramente restaurare in Cristo tutte le cose.
Daniele Trabucco

3 commenti:

  1. A quanto scritto nell'articolo proposto si potrebbe aggiungere uno degli articoli del blog di Aldo Maria Valli
    DUC IN ALTUM. Si tratta di uno degli articoli della serie Verso il conclave /che ccosa resta della " mafia dì San Gallo ". In tale articolo Vengono elencati i nomi dei cardinali appartenenti a detta mafia e vengono indicati Parolin e Guggerotti come eŕedi di quel gruppo , in particolare come eredi del cardinale Achille Silvestrini.
    Di lui personalmente non ho uñ buon ricordo.

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  2. Non c'è il papa? Pechino tira dritto
    La Cina calpesta ancora la Chiesa e procede da sola con le designazioni nelle diocesi di Shanghai e Xinxiang. Entrambi i prelati sono espressione di istituzioni controllate dal regime. Un «test» per il futuro Santo Padre.

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