lunedì 7 novembre 2022

Mons. Domenico Celada. “Agli illustri assassini della nostra Santa Liturgia”

Il prof. Kwasniewski ha rilanciato in questi giorni su New Liturgical Movement la lettera aperta scritta dal musicologo Monsignor Domenico Celada nei primi anni della rivoluzione liturgica montiniana (1969) indirizzata agli “assassini della nostra Santa Liturgia”. Si tratta di un documento che profetizzava ciò che sarebbe accaduto nella Chiesa; ancora oggi è attualissimo, specialmente dopo la Traditionis custodes, i Responsa ad Dubia e Desiderio desideravi [vedi] e visto il degrado liturgico che con la messa riformata di Paolo VI si è perpetrato e continua drammaticamente a perpetrarsi in questi nostri tempi di profonda crisi nella Chiesa cattolica. La lettera aperta di mons. Celada smascherava (e smaschera) lo spirito che animava (e anima) i sabotatori della Messa cattolica. La riprendiamo di seguito preceduta da un articolo dello stesso monsignore. Questa la fonte. Richiamo l'attenzione sulle mie note in calce.

Articolo di mons. Domenico Celada
Ricordo di aver scritto, nel numero dell’aprile-giugno 1966 di una rivista musicale, una nota sulla liturgia dopo il Concilio Vaticano II.

Erano quelli i mesi nei quali andava delineandosi, in tutta la sua tragica portata, il piano demolitore di certi « liturgisti », giunti a proporre quelle cosiddette «messe dei giovani» (accompagnate da orchestrine da balera) che rappresentano — pur prescindendo da qualsiasi considerazione di carattere religioso — il trionfo dell'ignoranza e della stupidità.

Scrivevo allora: «La sacra liturgia attraversa un periodo di grande crisi, forse il più doloroso della sua storia. Mai si vide tanta decadenza e confusione: si stava veramente toccando il fondo...».

In tale occasione mi pervennero messaggi di consenso e di lode, lo posso ben dire, da ogni parte del mondo cattolico: erano lettere di semplici fedeli, di molti sacerdoti e parroci, perfino di vescovi e cardinali. Tuttavia, per essere sincero, debbo dire che mi giunse anche una forte «reprimenda» da parte di quell'ufficio ecclesiastico incaricato della cosiddetta riforma liturgica, ufficio noto col nome di «Consilium», sul quale esiste ormai una vastissima letteratura non certo benevola.

L'estensore della «reprimenda» (redatta su carta intestata, con tanto di stemma e numero di protocollo) cominciava col mostrarsi scandalizzatissimo per la mia diagnosi di «crisi» della liturgia, e replicava che, viceversa, «la liturgia attraversa oggi uno dei periodi più fiorenti e più promettenti»; dopodiché sentenziava che i miei rilievi erano di una «falsità supina», e che tutto lo scritto rappresentava una «insinuazione offensiva» e una «valutazione soggettiva ed errata». La mia era, per giunta, una «prosa sconcertante, sfrontata, offensiva e audace».

Emersi a stento, anche se del tutto incolume, da quella frana di aggettivi, raggruppati a quaterne, sotto la quale sarei potuto rimanere soffocato. Da allora non sono trascorsi neppure tre anni.

Una ventina di giorni fa, apro l'Osservatore romano e trovo un articolo di sette colonne (un'intera pagina del quotidiano della Santa Sede) intitolata Storia della Chiesa e crisi della Chiesa.
In esso l'insigne storiografo Hubert Jedin scrive testualmente: «C'è innanzitutto, visibile per tutti, la crisi liturgica. Io non vorrei parlare di caos. Ma quando oggi, di domenica mattina, si fa il giro delle chiese parrocchiali di una città, si trova in ciascuna un servizio divino "organizzato" differentemente; ci si imbatte in omissioni; si odono talvolta letture diverse da quelle previste finora dall'ordinamento delle pericopi; se poi ci si viene a trovare in un altro Paese di cui non si conosce la lingua, ci si sente affatto estranei...».

Mi sembra importante notare come Hubert Jedin, nella sua chiara diagnosi dell'attuale situazione della Chiesa, menzioni «innanzitutto» — ancor prima della crisi della fede — appunto la crisi liturgica, ormai «visibile per tutti». Considerata l'autorità dello scrittore e quella del giornale vaticano, che non ospita mai un articolo se non dopo il più rigoroso controllo, bisogna concludere che oggi la crisi della liturgia è un dato di fatto incontestabile, e che è lecito parlarne e scriverne senza il timore di vedersi recapitare missive piene di aggettivi poco lusinghieri.

D'altra parte, in tre anni sono successe molte cose: la Congregazione dei Riti è stata costretta a intervenire contro i molti esperimenti arbitrari con una «dichiarazione» del 29 dicembre 1966 (rimasta peraltro lettera morta), e lo stesso Pontefice, nella famosa allocuzione del 19 aprile 1967, ha espresso il suo dolore e la sua apprensione per quanto accade in campo liturgico, sottolineando il « turbamento dei buoni fedeli » e denunciando una certa mentalità tesa alla «demolizione dell'autentico culto cattolico», implicante altresì «sovvertimenti dottrinali e disciplinari».

Ma interessante è soprattutto il paragone che lo studioso stabilisce fra la crisi attraversata dalla Chiesa nel XVI secolo e quella del tempo presente.
Come superò tale crisi la Chiesa? Risponde Jedin: «Non rinunciando alla sua autorità, né accettando formule equivoche di compromesso, né accogliendo il caos liturgico creato da innovazioni arbitrarie nel servizio divino ».

È verissimo.
Se i decreti tridentini ristabilirono la sicurezza della fede, il messale e il breviario di San Pio V unificarono ancor più la liturgia. Non bisogna infatti dimenticare che la «lex orandi», secondo l'antico detto, è anche «lex credendi»: la legge della fede. (Appare quindi logico che all'odierna «licentia orandi» corrisponda una «licentia credendi»).

Scrive ancora Hubert Jedin: «Temo che fra non molto in qualche luogo non si troverà più addirittura un messale latino...».

Eppure — ricorda lo studioso — «la stessa Costituzione liturgica (art. 36) mantiene come regola, alla stessa guisa di prima, la liturgia latina. Non sarebbe un non senso che la Chiesa cattolica nel nostro secolo, nel secolo dell'unificazione del mondo, rinunciasse completamente ad un così prezioso vincolo di unità, come è la lingua liturgica latina? Non sarebbe uno scivolare molto tardivo in un nazionalismo già ritenuto sorpassato?...».

Si tratta di domande puramente retoriche, in quanto l'inspiegabile rinuncia è già praticamente avvenuta «in fraudem legis»: contro l'obbligatorietà di una legge conciliare che chiaramente prescrive di conservare l'uso del latino, e contro il diritto dei fedeli cattolici al godimento di un bene comune [1].

Ora, spezzata l'unità della lingua e distrutta l'identità dei riti, il caos si è esteso dal campo liturgico a quello dottrinale.

Già nell'aprile 1967, Paolo VI cominciava a lamentare «qualche cosa di molto strano e doloroso», e precisamente l'«alterazione del senso della fede unica e genuina». Era la conseguenza — di una logica perfetta e inesorabile — della manomissione del grandioso edificio della Liturgia, ossia dell'aver tradotto, mutilato e sostituito testi e formule che rappresentavano una «summa» di pietà e di dottrina.

Si comprende oggi più che mai la verità dell'insegnamento di Pio XII nell'enciclica «Mediator Dei»: «L'uso della lingua latina è un chiaro e nobile segno di unità, e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina».

La crisi della liturgia è ormai «visibile per tutti». Molti inganni sono stati scoperti. Nonostante ciò, gli innovatori continuano a lavorare, con l'affanno proprio di chi non è sicuro di se stesso, per manomettere, stravolgere e demolire quel poco che resta. (E' recente un convegno di liturgisti per dissertare intorno a «nuove preci eucaristiche» e ad un nuovo «ordo Missae»...).

A proposito di questi ostinati riformatori che vanno sconciando la liturgia il celebre romanziere cattolico Francois Mauriac ha scritto, or non è molto: «Mi chiedo, in preda a un panico improvviso: e se tutti questi brillanti innovatori non fossero che un branco di atroci imbecilli? Allora non ci sarebbe più scampo: poiché s'è avverato che i sordi riacquistino l'udito, che i ciechi vedano daccapo, è perfino accaduto che i morti risuscitino; ma non c'è nessuna prova, nessun documento, su un idiota che abbia cessato di esserlo».

Mi pare che l'accademico di Francia sia un po' troppo pessimista. Sembra aver dimenticato che qualsiasi idiota, anche se non può cessare di esser tale, può semplicemente essere messo in condizione di non nuocere.
* * *
Lettera aperta di mons. Domenico Celada -

È da tempo che desideravo scrivervi, illustri assassini della nostra santa Liturgia. Non già perch’io speri che le mie parole possano avere un qualche effetto su di voi, da troppo tempo caduti negli artigli di Satana e divenuti suoi obbedientissimi servi, ma affinché tutti coloro che soffrono per gli innumerevoli delitti da voi commessi possano ritrovare la loro voce.

Non illudetevi, signori. Le piaghe atroci che voi avete aperto nel corpo della Chiesa gridano vendetta al cospetto di Dio, giusto Vendicatore.

Il vostro piano di sovversione della Chiesa, attraverso la liturgia, è antichissimo. Ne tentarono la realizzazione tanti vostri predecessori, molto più intelligenti di voi, che il Padre delle Tenebre ha già accolto nel suo regno. Ed io ricordo il vostro livore, il vostro ghigno beffardo, quando auguravate la morte, una quindicina d’anni fa, a quel grandissimo Pontefice che fu il servo di Dio Eugenio Pacelli, poiché questi aveva compreso i vostri disegni e vi si era opposto con l’autorità del Triregno. Dopo quel famoso convegno di “liturgia pastorale”, sul quale erano cadute come una spada le chiarissime parole di Papa Pio XII, voi lasciaste la mistica Assisi schiumando rabbia e veleno.

Ora ci siete riusciti. Per adesso, almeno. Avete creato il vostro “capolavoro”: la nuova liturgia.

Che questa non sia opera di Dio è dimostrato innanzitutto (prescindendo dalle implicazioni dogmatiche) da un fatto molto semplice: è di una bruttezza spaventosa. È il culto dell’ambiguità e dell’equivoco, non di rado il culto dell’indecenza. Basterebbe questo per capire che il vostro “capolavoro” non proviene da Dio, fonte d’ogni bellezza, ma dall’antico sfregiatore delle opere di Dio.

Si, avete tolto ai fedeli cattolici le emozioni più pure, derivanti dalle cose sublimi di cui s’è sostanziata la liturgia per millenni: la bellezza delle parole, dei gesti, delle musiche. Cosa ci avete dato in cambio? Un campionario di brutture, di “traduzioni” grottesche [2] (com’è noto, il vostro padre, che sta laggiù non possiede il senso dell’umorismo), di emozioni gastriche suscitate dai miagolii delle chitarre elettriche, di gesti ed atteggiamenti a dir poco equivoci.

Ma, se non bastasse, c’è un altro segno che dimostra come il vostro “capolavoro” non viene da Dio. E sono gli strumenti di cui vi siete serviti per realizzarlo: la frode e la menzogna. Siete riusciti a far credere che un Concilio avesse decretato la disparizione della lingua latina, l’archiviazione del patrimonio della musica sacra, l’abolizione del tabernacolo, il capovolgimento degli altari, il divieto di piegare le ginocchia dinanzi a Nostro Signore presente nell’Eucaristia, e tutte le altre vostre progressive tappe, facenti parte (direbbero i giuristi) di un “unico disegno criminoso”.

Voi sapevate benissimo che la “lex orandi” è anche la “lex credendi”, e che perciò mutando l’una, avreste mutato l’altra.

Voi sapete che, puntando le vostre lance avvelenate contro la lingua viva della Chiesa, avreste praticamente ucciso l’unità della fede.

Voi sapevate che, decretando l’atto di morte del canto gregoriano della polifonia sacra, avreste potute introdurre a vostro piacimento tutte le indecenze pseudomusicali che dissacrarono il culto divino e gettano un’ombra equivoca sulle celebrazioni liturgiche.

Voi sapevate che, distruggendo tabernacoli, sostituendo gli altari con le “tavole per la refezione eucaristica”, negando al fedele di piegare le ginocchia davanti al Figlio di Dio, in breve avreste estinto la fede nella reale presenza divina.

Avete lavorato ad occhi aperti. Vi siete accaniti contro un monumento, al quale avevan posto mano cielo e terra, perché sapevate di distruggere con esso la Chiesa. Siete giunti a portarci via la Santa Messa, strappando addirittura il cuore della liturgia cattolica. (Quella S. Messa in vista della quale noi fummo ordinati sacerdoti, e che nessuno al mondo ci potrà mai proibire, perché nessuno può calpestare il diritto naturale).

Lo so, ora potrete ridere per quanto sto per dire. E ridete pure. Siete giunti a togliere dalle Litanie dei santi l’invocazione “a flagello terremotus, libera nos Domine”, e mai come ora la terra ha tremato ad ogni latitudine. Avete tolto l’invocazione “a spititu fornicationis, libera nos Domine”, e mai come ora siamo coperti dal fango dell’immoralità e della pornografia nelle sue forme più repellenti e degradanti. Avete abolito l’invocazione “ut inimicos sanctae Ecclesiae umiliare digneris”, e mai come ora i nemici della Chiesa prosperano in tutte le istituzioni ecclesiastiche, ad ogni livello.

Ridete, ridete. Le vostre risate sono sguaiate e senza gioia. Certo è che nessuno di voi conosce, come noi conosciamo, le lacrime della gioia e del dolore. Voi non siete neppure capaci di piangere. I vostri occhi bovini, palle di vetro o di metallo che siano, guardano le cose senza vederle. Siete simili alle mucche che guardano il treno. A voi preferisco il ladro che strappa la catenina d’oro al fanciullo, preferisco lo scippatore, preferisco il rapinatore con le armi in pugno, preferisco persino il bruto e il violatore di tombe. Gente molto meno sporca di voi, che avete rapinato il popolo di Dio di tutti i suoi tesori.

In attesa che il vostro padre che sta laggiù accolga anche voi nel suo regno, “laddove è pianto e stridor di denti”, voglio che voi sappiate della nostra incrollabile certezza che quei tesori ci saranno restituiti. E sarà una “restitutio in integrum”. Voi avete dimenticato che Satana è l’eterno sconfitto.
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Note di Chiesa e post-concilio
[1] Alcune pratiche che la Sacrosanctum Concilium non aveva mai contemplato - e che di fatto influiscono sulla lex credendi - furono permesse nella liturgia rinnovata, come la Messa versus Populum, la Santa Comunione nella mano, l’eliminazione totale del latino e del canto gregoriano in favore della lingua volgare nonché canti e inni che non lasciano molto spazio per Dio, e l’estensione, al di là di ogni ragionevole limite, della facoltà di concelebrare la Santa Messa.
Mentre la Sacrosanctum Concilium annunciò una revisione dei riti articolando alcuni principi e linee guida, di fatto il Concilio non intraprese quella riforma né pubblicò alcun libro liturgico proprio. Paolo VI affidò il lavoro a uno speciale super-comitato ad hoc, il Consilium, i cui progetti raggiunsero il completamento e furono da lui approvati diversi anni dopo la conclusione del Concilio. Sono i "ma anche", disseminati nei principi e linee guida della SC gli spiragli aperti sulle future innovazioni in discontinuità con la tradizione liturgica. Due esempi: il primo sulla dicotomia Sacrificio/Cena, il secondo sulla musica sacra.
  1. Ricordando che la Santa Messa è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che, sotto le specie del pane e del vino, si offre dal Sacerdote a Dio sull’altare in memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce, il n.47 della Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, passa sotto silenzio sia il fine propiziatorio (espiatorio) del Sacrificio, che il termine transustanziazione, peraltro inopinatamente assente dall'intero documento. Notevoli perplessità suscita anche il n. 48, nel quale viene oltrepassata la Mediator Dei [vedi] non distinguendo l’azione del fedele da quella del sacerdote, mentre il n.106 descrive “il mistero pasquale” (enfatizzato accentuando la Risurrezione), con espressioni che presentano la S. Messa essenzialmente come memoriale e “sacrificio di lode”, alla maniera dei protestanti. La tavola del banchetto al posto dell’Altare del sacrificio ne è l’immagine plastica.
  2. («la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana», SC 116) o si auspica un nuovo impulso editoriale della gregorianistica («Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X. ...Conviene inoltre che si appronti un’edizione contenente melodie più semplici, ad uso delle chiese minori», SC 117); la contraddizione è sotto gli occhi di tutti: la dichiarazione conciliare ufficiale, da un lato, il ferreo ostracismo del gregoriano dal tempio, dall’altro.
[2] Oltre alle traduzioni grottesche ci sono anche i cambiamenti e i tagli nei testi delle orazioni [vedi]. Oggi la situazione è ancora più degradata. Il motu proprio Magnum principium (9.9.2017), modifica il can. 838 del Codice di diritto canonico, riguardante le competenze della Santa Sede, delle Conferenze episcopali e dei Vescovi diocesani nell’ordinamento della liturgia. Si tratta di un colpo di spugna all’istruzione Liturgiam authenticam (7.5.2001), “sull’uso delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana” [prefigurato qui]. Di fatto siamo al 'rompete le righe' anche col decentramento alle Conferenze episcopali della preparazione dei libri liturgici, che mina l'unità e l'universalità de La Catholica. Richiede attenzione il seguente passaggio della Correctio papale (qui) alle affermazioni del card. Sarah in un documento [qui] che attenuava la svolta rivoluzionaria della Lettera Apostolica : «Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgiam Authenticam, così come veniva effettuato nel passato». Tale affermazione unita all’altra secondo cui una traduzione liturgica “fedele” «implica una triplice fedeltà» – al testo originale, alla lingua della traduzione, alla comprensibilità dei destinatari – lascia intendere che Magnum Principium è considerato come l’inizio di un processo che può portare molto lontano in direzione di una vera e propria devolution liturgica. I ‘processi’ innescati come mine vaganti sono più d’uno e la frammentazione nella Chiesa acquista velocità sia sulla dottrina che sulla morale e ora sulla liturgia, fons et culmen di tutto.

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