mercoledì 9 dicembre 2020

La 'traditio' antichissima del Gloria e la nuova traduzione manipolata elevata a dignità di testo liturgico - Gian Pietro Caliari

Vide, o homo, quid pro te factus est Deus: 
doctrinam tantae humilitatis agnosce.

In un Natale di molti secoli fa, il Vescovo d’Ippona, Sant’Agostino così esortava i suoi fedeli, ma non solo: “Vide, o homo, quid pro te factus est Deus: doctrinam tantae humilitatis agnosce”. 

“Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere l’insegnamento di tanta umiltà” (Sermo 188, In Natali Domini, III, 3). E si chiedeva ancora: “Quali lodi potremo dunque cantare all’amore di Dio, quali grazie potremo rendere? (Ibidem, I, 2). Non c’è alcun dubbio che ogni volta che, nelle liturgie cattoliche, risuona il Gloria in excelsis Deo non sia evocato il Mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, dove la Maestà Divina si svela nell’Agnello immolato che “è degno di ricevere la gloria, l'onore e la potenza” (Apocalisse 4, 11). 

Il suo incipit, infatti, riproduce le stesso annuncio angelico che risuonò alla nascita di Gesù Cristo quando una schiera angelica lo proferì a un gruppo di pastori “presi da grande spavento” per quello che stavano vedendo ed era stato loro appena annunciato: “E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis” (Luca 2, 13-14). 

Il Gloria in excelsis Deo, proprio per questo, è noto anche come Laus Angelorum (Lode degli Angeli) o Grande Dossologia, che esprime con precisa potenza teologica e letteraria ciò che i Padri Conciliari al Vaticano II intendevano dover essere la liturgia cattolica: “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l'inno di gloria” (Sacrosantum Concilium, 8). 

Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane, scrivendo all’imperatore Traiano, nella seconda metà del I secolo d.C., descrive che i cristiani “essent soliti die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere - erano soliti radunarsi ogni giorno prima dell’alba e dire un inno a Cristo quasi - fosse - un dio” (Litterae X, 97). 

Plinio il Giovane nulla scrive di preciso su quello che dicessero o cantassero i primi cristiani, ma nella liturgia bizantina verso il termine dell’Ὀρθρός (orthròs), l’ufficio che i monaci cantano prima dell’alba, troviamo un Inno, che echeggia ampiamente il Gloria latino e che è introdotto da questo versetto: "Δόξα σοι τῷ δείξαντι τὸ φῶς” (Dòxa soi tò deìxanti tò fòs); “Gloria a te che ci mostrasti la luce”. 

Il Liber Pontificalis riporta come ottavo successore dell’Apostolo Pietro il nome di San Telesforo. Si tratta di una Papa di origine greca (natione Grecus) e che era stato anche monaco (ex anachorita) e che durante il suo Pontificato, dal 127 al 137, stabilì fra le altre cose che: “siano celebrate di notte messe del natale del Signore” (natalem Domini noctu missas celebrarentur et ante sacrificium hymnus diceretur angelicus, hoc est: Gloria in excelsis Deo) e “prima del sacrificio sia detto l’inno angelico che è: Gloria in excelsis Deo” (Liber Pontificalis, texte, introduction et commentaire, par L. Duchesne, Paris, 1886, vol. I, p. 345). 

Il testo originale greco di quest’Inno ci è tramandato dal Codex Alexandrinus dell’inizio del quinto secolo. Questo codice raccoglie i testi dell’Antico Testamento, nella versione greca dei Settanta, e quelli del Nuovo Testamento nel loro originale greco. 

Al termine del Libro dei Salmi, il Codex raccoglie quindici Odi - o Inni - di cui il Gloria in excelsis Deo è l’ultimo (cfr. F. M.T. Ryan, The Gloria in Excelsis Deo; Sources, Theology and Significance For The Roman Rite, in: Ephemerides Liturgicae 133, 2019, p. 223). 

A differenza, dunque, di altri Cantici e Inni - per lo più inseriti nella Liturgia Horarum all’ora di Vespri - il testo del Gloria non è direttamente derivato dagli scritti neo-testamentari, eppure - assai significativamente - lo troviamo trasmesso proprio insieme al corpo dei testi dell’Antico e del Nuovo Testamento. 

La prima versione latina dello stesso Inno ci viene, invece, tramandata dall’Antifonario di Bangor del settimo secolo e dal Liber Sacramentorum Augustodunensis dell’ottavo secolo. 

Queste due prime versioni latine convergono specularmente col testo greco del Codex Alexandrinus e lo riproducono letteralmente (cfr. Ibidem, pp. 223-224). 

Che l’Inno Angelico sia, poi, da subito considerato di grande importanza per la liturgia romana, ci è poi dimostrato dall’insieme di norme liturgiche che ne regolano l’uso in maniera assai meticolosa. 

Oltre alle indicazioni già presenti nel Liber Pontificalis riguardo a Papa Telesforo, fin dall’ottavo secolo, i rituali prevedono che il Gloria sia cantato solo nelle domeniche e nelle feste dei martiri, dopo il Kyrie eleison, ma esclusivamente quando alla celebrazione è presente il Vescovo. 

I semplici preti potevano, invece, cantarlo nel giorno della Pasqua: “Item dicitur Gloria in Excelsis Deo, si episcopus fuerit, tantummodo die dominico, sive diebus festis; a praesbyteris autem minime dicitur nisi solo in Pascha”. 

Poi si dice il Gloria in Excelsis Deo se c’è il Vescovo, nello stesso modo nel giorno di domenica sia nei giorni di festa; dai presbiteri non sia affatto detto se non solamente nella Pasqua (cfr. Jean Deshusses (ed.), Le sacramentaire grégorien, ses principales formes d’après les plus anciens manuscrits, Fribourg, 1992, vol. 2, p. 85). 

Un’altra norma liturgica, sempre nell’ottavo secolo e in uso nella sola diocesi di Roma, concede ai preti novelli di poter cantare il Gloria quando celebrano la loro prima Messa: “Et cum pervenerit ad ecclesiam, ponitur sedes latus altaris et habet ibi licentiam sedere eodem die et in vigilia paschae tantum et dicere Gloria in excelsis Deo”. 
Dopo esser giunto in chiesa, si pone nella sede a lato dell’altare e lì avrà il permesso di sedere in quel giorno come nella vigilia di Pasqua e di dire il Gloria in eccelsis Deo (Michel Andrieu (ed.), Les Ordines Romani du haut moyen âge. vol. IV, Louvain, 1956, p. 280). 

A seguito delle deliberazioni del Concilio di Trento, non si è creato o promulgato un nuovo rito della Messa, ma l’uso del Missale Romanum, che contiene l’immutato rituale damaso-gelasiano, di origine apostolica e come riordinato dalla Riforma Gregoriana, è esteso a tutta la Chiesa Cattolica, ad eccezione di quei luoghi dove esistano distinte e secolari tradizioni liturgiche. 

Nel 1570, dunque, abbiamo una nuova normativa liturgica che prevede l’uso obbligatorio del Gloria in tutte le domeniche - ad eccezione di quelle di Avvento, Septuagesima e Quaresima - nella Messa in Coena Domini del Giovedì Santo, nelle Solennità e nelle Feste, e che fa cadere il privilegio riservato, fino ad allora, alla liturgia pontificale. 

La prima Istituzione Generale del Messale Romano del 1969 conferma questo uso e sottolinea che: “Il Gloria è un antichissimo e venerabile inno col quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello” (IGMR, 1969, n. 31). 

Nella terza edizione del 2003 dell’Istituzione Generale, si aggiunge che: “Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro” (IGMR, 2003, n. 53). 

Per la sua traditio, il modo in cui il testo ci è stato tramandato, e per la puntuale regolamentazione liturgica che, lungo i secoli, ha contraddistinto l’uso del Gloria ci si sarebbe dovuto attendere da parte dei fantasiosi traduttori della CEI maggiore cautela e saggezza. 

L’incipit dell’Inno - “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis” - riprende esattamente il testo della Natività come riportato dalla Vulgata nel Vangelo di San Luca 2, 14, ma l’intero svolgimento dell’Inno rinvia direttamente o indirettamente a ben 35 versetti dell’Antico e del Nuovo Testamento. 

Una rapida sinossi del testo rivela infatti i seguenti riferimenti: a Genesi 22, 12; a Isaia 6, 1-3; e 14, 13; al Salmo 113, 5; al Salmo 83, 19; da Matteo 3, 17; 13, 41-49; 17, 5; e 16, 27; a Marco 1, 11; 9, 6; 8, 38; 13, 26-27; e 16, 19; a Luca 2, 22; 9, 26; e 9, 35; a Giovanni 1, 29; 12, 41; agli Atti 7, 55; a Romani 8, 34; a Efesini 1, 20; a Colossesi 2, 3; alla 2 Tessalonicesi 1, 7; a Ebrei 1, 3; 8, 1; 10, 2; e 10, 12; e all'Apocalisse 3, 2; 4, 8; 4, 11; 5, 13; 7, 12; 11, 17; 15, 3-4; e 16, 7. 

E qui solo per elencare i riferimenti più evidenti e chiari! 

Tornando all’incipit, il testo greco recita così: Δόξα ἐν ὑψίστοις θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις ⸀εὐδοκίας (Dòxa én upsìstois Theò kaì epì ghès eiréne én anthròpois eudokìas). 

In questa frase evangelica i due termini da osservare solo il primo Δόξα (Dòxa) e εὐδοκία (eudokìa), al caso genitivo di specificazione: ⸀εὐδοκίας, che San Girolamo nella Vulgata traduce, appunto, con “bonae voluntatis”. 

Nel greco antico, la dòxa esprime un’opinione, una credenza, oppure l’opinione che si ha di una certa persona o cosa; qualcosa, insomma, di assolutamente soggettivo e relativo. 
In questo senso, insieme al suo verbo δοκέω (dokéo), viene talora utilizzato nella traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento. 

Il senso prevalente, tuttavia, è quello che corrisponde al termine ebraico שְׁכִינָה, Shekinah, che indica la manifestazione della potenza di Dio sugli uomini, come luce splendente - per esempio in Esodo 24, 17 o Esodo 40, 28; o il permanere su di un eletto della potente presenza di Dio, come in 1 Samuele 4, 22 o Siracide 49, 8. 

Nel Nuovo Testamento, dòxa e dokéo, sono invece impiegati solo e sempre in senso assoluto come splendore, luce brillante, magnificenza, eccellenza, preminenza, dignità, grazia e maestà che sono riferiti esclusivamente alla condizione di Dio e del suo Cristo, in primis, o alla condizione di coloro che sono da tale gloria benedetti ed eletti. 

Il termine greco ⸀εὐδοκία appare 9 volte negli scritti del Nuovo Testamento e ha una selezione di significati che indicano la buona volontà, l'intenzione gentile, la benevolenza; la delizia, il piacere; il desiderio; associato al verbo γίνομαι (ghìnomai) assume anche il significato di sembrare buono. 

Ora, per facilità di comprensione sottolineerò il termine italiano con cui è, invece, stato tradotto il sostantivo ⸀εὐδοκία nella nuova edizione della CEI del 2008. 

Matteo 11, 26: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Luca 10, 21: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Romani 10, 1: Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza. Efesini 1, 9: facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto. Filippesi 1, 15: Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Filipesi 3, 13: È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d’amore. Tessalonicesi 1, 11: Per questo preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l'opera della vostra fede. 

E veniamo, ora, a Luca 2, 14, che è alla base della modifica del Gloria liturgico: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. 

Come si vede chiaramente è questo l’unico caso in cui i traduttori della CEI hanno dovuto - di punto in bianco - inventarsi un intera proposizione relativa per tradurre il sostantivo greco εὐδοκία e hanno sostituito tutte le precedenti scelte esegetiche con un verbo, amare, che proprio nel testo non c’è! 

Tradurre, infatti, con “uomini di benevolenza” o “uomini di buon sentimento” o “uomini di propositi di bene”, non sembrava valere la pena, perché avrebbe rinviato a quel “di buona volontà”, che in ogni caso si voleva innovare per il gusto d’innovare. 

Il sostantivo εὐδοκία (eudokìa) deriva da suffisso εὐ (bene/buono) e dal verbo δοκέω (avere un’opinione, avere un’intenzione, una volontà) e come si comprende il termine εὐδοκία (eudokìa) riecheggia il primo della frase evangelica e liturgica Δόξα (Dòxa) che è pure un sostantivo che deriva dal verbo δοκέω. 

Ora, l’evangelista Luca, che essendo nato ad Antiochia era di madre lingua greca, mentre non esita a riferire a Dio la Dòxa, nel senso di Gloria - vale a dire di opinione eccellente - si premura per quanto riguarda gli uomini di specificare che questa dokìa deve intendersi ben orientata, premettendo il suffisso εὐ, vale a dire buona e ben orientata. 

Pare proprio che, nella nuova traduzione del Gloria, abbiamo assistito a una nuova manovra del religiosamente corretto o a un’ulteriore strategia del così piacciamo a tutti e non dispiaciamo a nessuno.  

Si dirà, che la traduzione esisteva già dal 2008 - così come quella del Pater Noster - ma una cosa è lasciarla nel Lezionario, la proclamazione delle cui letture è poi seguita dal commento dell’Omelia che ne orienta l’interpretazione - che ci auguriamo corretta - altra cosa è elevare una traduzione manipolata a dignità di testo liturgico! 

Molti esegeti è pur vero, infine, suggeriscono che la eudikìa non sia da considerarsi come una risposta degli uomini alla dòxa di Dio - dunque, uomini di buona volontà - ma solo un riferimento a Dio stesso e al suo compiacersi degli uomini (inter alia, cfr. Jozef Jančovič, Who Are Addresses of Peace in the Canticle Gloria in excelsis? Analysis of the Phrase ἀνθρώποι εὐδοκίας in Luke 2:14 and its Translation Proposal, in: Slavica Slovaca, 54, Bratislava 2019, No. 2, pp. 129-141). 

Di fronte a questa obiezione, dobbiamo, allora, chiederci ma di quali uomini si compiace - o come dice la CEI quali uomini ama - il buon Dio? 
Lasciamo ben volentieri la risposta all’incommensurabile Agostino d’Ippona e al suo sermone natalizio, da cui abbiamo preso le mosse.
“Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere l’insegnamento di tanta umiltà, anche in un maestro che ancora non parla. Tu una volta, nel paradiso terrestre, fosti così loquace da imporre il nome ad ogni essere vivente; il tuo Creatore invece per te giaceva bambino in una mangiatoia e non chiamava per nome neanche sua madre. Tu in un vastissimo giardino ricco di alberi da frutta ti sei perduto perché non hai voluto obbedire; lui per obbedienza è venuto come creatura mortale in un angustissimo riparo, perché morendo ritrovasse te che eri morto. Tu che eri uomo hai voluto diventare Dio e così sei morto; Lui che era Dio volle diventare uomo per ritrovare colui che era morto. La superbia umana ti ha tanto schiacciato che poteva sollevarti soltanto l’umiltà divina” (Sermo in Natali Domini, 188, 3, 3).
Forse a questo pensava San Girolamo quanto scelse di tradurre quell’ ἀνθρώποι εὐδοκίας semplicemente ma assai efficacemente con “uomini di buona volontà”. 
Gian Pietro Caliari

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