La scelta compiuta da Vescovi italiani di alterare anche il testo liturgico della Oratio Dominica, dunque, non corrisponde ad alcuna logica né esegetica né teologica. È frutto, invece, di un relativismo materialista e mondano applicato alla stessa liturgia cattolica che, invece, “è essenzialmente actio Dei, che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito
L’Oratio Dominica è un testo di Gian Battista Bodoni, pubblicato nel 1806 a Parma, per celebrare il viaggio di Papa Pio VII a Parigi in occasione dell’incoronazione imperiale di Napoleone Bonaparte.
In realtà, per la necessità di usare quasi duecento diversi tipi di caratteri, il testo della preghiera appare riprodotto ben 215 volte.
Un buon numero di queste traduzioni è servito per realizzare le pregevoli maioliche che ancor oggi adornano il chiostro della Chiesa del Pater, sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme.
Nel Vangelo di San Matteo, Gesù introduce la preghiera con un vero e proprio comando: Οὕτως οὖν προσεύχεσθε ὑμεῖς (oùtos oùn proseùkesfe umeìs), “Voi dunque pregate così!” (Matteo 6, 9).
Nel testo secondo San Luca, invece, la preghiera è insegnata dal Maestro ai discepoli a seguito di una precisa richiesta: Κύριε, δίδαξον ἡμᾶς προσεύχεσθαι (Kùrye, dìdazon emàs proseùkesfai), “Signore, insegnaci a pregare” (Luca 11, 1).
Imperativo e insegnamento sono ben sintetizzati dalla tradizionale monizione liturgica, che precede la recita del Pater Noster all’inizio dei riti di comunione: Praeceptis salutaribus moniti et divina istituzione formati, audemus dicere (Ammoniti dai salutari precetti e formati dal divino insegnamento, osiamo dire).
Il testo greco della preghiera, oltre che dai due Evangelisti, ci è giunto anche da un’altra fonte coeva ai Vangeli e sempre in greco.
Un breve documento di legislazione canonica del primo secolo, in uso fra le prime comunità cristiane della Palestina e della Siria, intitolato Διδαχή, Didaché.
Il più antico manoscritto greco di quest’ultimo testo è riportato nel Codex Hierosolymitanus, che ne riporta il titolo esteso di Διδαχὴ τῶν δώδεκα ἀποστόλων (didaché tòn dòdeka apostòlon): “Insegnamento dei dodici apostoli”.
Sappiamo che in Matteo 6, 9-13 il testo della preghiera, così come oggi lo recitiamo, è completo del titolo (Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς (Páter hemòn, ho en toìs ouranoìs), “Padre nostro che sei nei cieli” e delle sei petizioni che seguono.
In Luca 1, 2-4, invece, il titolo è solo Padre (Πάτερ, Pàter), e il testo lucano non riporta la terza petizione presente invece in Matteo: “sia fatta la tua volontà come in cielo e così in terra”; e tralascia anche la parte conclusiva dell’ultima petizione “ma liberaci dal male”.
Il testo del Padre Nostro che ci è tramandato dalla Didaché 8, 2 è perfettamente identico a quello di Matteo 6, 9-13, ma è completato al termine dall’eucologia: Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας - Così di te è il regno, e la potenza e la gloria per i secoli”.
L’uso di questa formula eucologica al termine della preghiera è stato mantenuto ininterrotto nella tradizione ortodossa della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo; mentre nella liturgia romana damaso-gregoriana (Vetus Ordo) se ne ritrova l’eco nella grande dossologia che conclude il Canone Romano.
Nella riforma post-conciliare della Santa Messa (Novus Ordo), l’eucologia della Didaché è stata introdotta non come immediata conclusione del Padre Nostro, ma dopo l’embolismo (Liberaci, Signore, da tutti i mali), che segue la recita della preghiera.
Sia il testo del Vangelo di Matteo sia quello di Luca come infine la Didaché riportano, tuttavia, coerentemente e testualmente la prima parte della sesta petizione: καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (kaì mé eisenénkeis hemàs eís peirasmón).
I valenti traduttori della CEI, nel palese tentativo di rendere pastoralmente potabile e religiosamente corretta la preghiera di Gesù, si sono soffermati sul verbo reggente di questa proposizione che è composto dalla negazione μὴ (non) e dal congiuntivo aoristo εἰσενέγκῃς (eisenénkeis), così da formare un imperativo negativo.
Ora, comunque, la si voglia girare εἰσενέγκῃς è la seconda persona singolare del congiuntivo aoristo di εισ-φέρω (eís-fero) che significa letteralmente “indurre”, “portare verso” o “portare dentro”, in senso spaziale ma anche metaforico (Cfr. F. Zorell, Lexicon graecum Novi Testamenti, Parisiis, 1932, p. 384; e M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti graeci, Roma 1960, p. 14).
La traduzione latina della vulgata di San Gerolamo (ne nos inducas) e quella italiana (non indurci) si attengono strettamente e fedelmente al testo originale greco; mentre il nuovo “non abbandonarci” non solo introduce un verbo che non esiste nel testo originale ma rischia di distorcere il significato intrinseco dell’espressione e di deviare essenzialmente il senso teologico del testo stesso.
Il testo greco, come abbiamo visto, usa il congiuntivo negativo nella forma verbale dell’aoristo, e inoltre ripete poi due volte il suffisso εισ (eís) sia per introdurre il verbo φέρω (féro) sia per introdurre il moto a luogo εἰς πειρασμόν (eís peirasmón).
Il testo latino della vulgata e quello tradizionale italiano rispettano rigorosamente tale struttura originaria, infatti recitano: “ne nos in-ducere in tentationem” e “non in-durci in tentazione”.
Un’ultima considerazione merita ancora il verbo εἰσενέγκῃς che all’aoristo appunto indica un’azione, temporalmente non determinata, concepita nella sua globalità, e non vincolata a un prima o a un dopo.
Il “non abbandonarci” sembra, al contrario, affermare che Dio ora - se volesse - potrebbe tranquillamente abbandonare il credente alla tentazione.
Così, per chi ritiene inaccettabile pensare che Dio possa “indurci” alla tentazione, dovrebbe parimenti ritenere che è cosa del tutto teologicamente fuorviante che Dio “ci abbandoni” nella tentazione!
Ora, la vera problematicità non sta nel verbo ma nel sostantivo del complemento di moto a luogo εἰς πειρασμόν (eís peirasmón), che San Girolamo traduce come tentatio e l’italiano come tentazione.
Il sostantivo πειρασμός (peirasmòs) ricorre 21 volte nel Nuovo Testamento, con una gamma di significati che vanno da una connotazione assolutamente negativa (tentazione, peccato, calamità, afflizione) a una del tutto neutra (prova, esame, tentativo).
Ad esempio, in Matteo 26, 41 quando Gesù nel Getzemani invita gli Apostoli a vegliare e pregare “per non entrare nella prova”: “vegliate e pregate affinché non entriate nella prova” (εἰς πειρασμόν). E qui, evidentemente, Gesù si riferiva a quella prova suprema che, lui stesso stava affrontando nell’ora della sua Passione.
Nella Prima Lettera di Pietro 1,6: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po' di tempo, afflitti da varie prove (ἐν ποικίλοις πειρασμοῖς). E qui il riferimento è alla prima grande persecuzione, che ha investito l'intero impero romano sotto Domiziano (81-96 d.C.). Un riferimento questo che, tuttavia, è inserito in una benedizione (euloghia) rivolta a Dio Padre per il progetto di salvezza attuato per mezzo della risurrezione di Cristo.
Anche il verbo, corrispondente al sostantivo peirasmòs, πειράζω (peiràzo) ricorre 39 volte nel Nuovo Testamento e anch’esso ha lo stesso spettro di significati.
Lo troviamo in Matteo 4,1: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo” (πειρασθῆναι ὑπὸ τοῦ διαβόλου). O, nel versetto, 4,3 dove il diavolo è definito come il “tentatore” (ὁ πειράζων).
Dunque, in questo caso, si tratta di una vera e propria tentazione che proviene dallo stesso che “è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8, 44).
Lo stesso verbo, tuttavia, è usato anche nel senso di testare e mettere alla prova in senso negativo, come in Matteo 16,1: “I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova (πειράζοντες). E così anche in Matteo 19,3 “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova (πειράζοντες αὐτὸν)”.
In Ebrei 11,17, invece, lo stesso verbo è usato col significato di mettere alla prova in senso positivo: Per fede, Abramo, messo alla prova (πειραζόμενος), offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio”.
O nell’Apocalisse, dove la prova è intesa come via per smascherare la falsità: “Hai messo alla prova (ἐπείρασας) quelli che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi” (2, 2).
La tentazione - è questo vale anche per l’Antico Testamento - nel linguaggio biblico esprime la pedagogia propria di Dio Padre nei confronti degli uomini: “Dio li ha provati (ὁ θεὸς ἐπείρασεν αὐτοὺς) e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là” (Sapienza 3, 5-7).
Nel libro del Siracide, infine, la prova (tentazione) suprema che il credente deve affrontare è proprio quando si presenta al cospetto di Dio per rendergli culto: “Fili, accedens ad servitutem Dei sta in iustitia et timore et praepara animam tuam ad tentationem”; “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (2, 1).
La traduzione corrente di questo versetto del celebre libro sapienziale, la cui prima traduzione in greco dall’originale ebraico risale al 132 a.C., tralascia un dettaglio essenziale del testo greco che si chiude con questa esortazione: “ἑτοίμασον τὴν ψυχήν σου εἰς πειρασμόν”.
Ecco, figlio se ti presenti per rendere culto a Dio “prepara la tua vita (τὴν ψυχήν - ten psukén) verso la prova (eís peirasmón)”.
La prova, la tentazione, l’esame che hanno come corrispettivo la correzione, il ravvedimento, il voto negativo - in caso di fallimento - e il compiacimento, il premio e il voto positivo - in caso di successo - sono gli elementi costitutivi del rapporto Padre-figli e Dio-credenti.
“Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli! Del resto, noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita? (Ebrei 12, 7-9).
Ecco il Dio cristiano ci tratta come figli e come figli che possono comprendere; non come bastardi e dementi!
La scelta compiuta da Vescovi italiani di alterare anche il testo liturgico della Oratio Dominica, dunque, non corrisponde ad alcuna logica né esegetica né teologica.
È frutto, invece, di un relativismo materialista e mondano applicato alla stessa liturgia cattolica che, invece, “è essenzialmente actio Dei, che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale, Sacramentum caritatis, 37).
Considerato, poi, chi è stato il principale promotore di questa infausta scelta, i Vescovi italiani hanno agito mossi da un vero e proprio bieco clericalismo, che consiste nel non dispiacere a chi non si può che compiacere per non alterarne i sempre incerti e instabili umori.
A chi sommessamente continuerà a pregare “ne nos induca in tentationem”, possano essere di conforto le parole di Sant’Agostino che dell’Oratio Dominica così scriveva: “Essa ha un significato larghissimo. Perciò, in qualunque tribolazione si trovi il cristiano, con essa esprima i suoi gemiti, con essa accompagni le sue lacrime, da essa inizi la sua preghiera, in essa la prolunghi e con essa la termini […] Chiunque prega con parole che non hanno alcun rapporto con questa preghiera evangelica, forse non fa una preghiera mal fatta, ma certo troppo umana e terrestre” (Lettera a Proba, Lett. 130, 22).
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