domenica 19 febbraio 2023

Domenica di Quinquagesima, da L’Anno Liturgico di Dom Prosper Guerangér

Vedi: L'inizio del ciclo pasquale con la Dominica in septuagesima [qui] ; Dominica in sexagesima [qui]

Domenica di Quinquagesima

La vocazione di Abramo

L’argomento che presenta oggi la Chiesa da meditare è la vocazione di Abramo.

Scomparse le acque del diluvio, la terra cominciò di nuovo a riempirsi di uomini; ma insieme comparve la corruzione, e l’idolatria venne a colmare la misura dei disordini. Ora prevedendo il Signore nella sua divina sapienza, la defezione dei popoli, volle costituire una nazione che gli sarebbe stata particolarmente devota, e nella quale si sarebbero conservate le sacre verità destinate a diffondersi fra i Gentili. Questo nuovo popolo doveva cominciare da un solo uomo, padre e tipo dei credenti, Abramo. Pieno di fede e di obbedienza verso il Signore, egli era chiamato ad essere il padre dei figli di Dio, il capo di quella generazione spirituale, alla quale appartennero ed apparterranno fino alla fine dei tempi tutti gli eletti, sia dell’Antico Testamento che della Chiesa Cristiana.
Dobbiamo dunque conoscere Abramo, nostro capo e modello, la cui vita è tutta sintetizzata nella fedeltà a Dio, nell’osservanza dei suoi comandamenti e nel sacrificio e nella rinuncia ad ogni cosa in ossequio alla volontà di Dio; in queste virtù appunto si riconosce il vero carattere del cristiano. Siamo dunque molto diligenti ad attingere dalla vita di questo grande personaggio tutti gl’insegnamenti che contiene per noi.
Il testo del Genesi che qui citiamo, e che la Chiesa legge al Mattutino, formerà la base di tutto ciò che dobbiamo dire intorno a lui.

Dal libro del Genesi (Gen 12,1-9)
E il Signore disse ad Abramo: “Parti dalla tua terra, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, e vieni nel paese che io ti mostrerò. Io poi farò di te una grande nazione, ti benedirò e farò grande il tuo nome, e tu sarai una benedizione. Io benedirò chi ti benedice e maledirò chi ti maledice, e in te saranno benedette tutte le nazioni della terra”. Partì dunque Abramo secondo l’ordine del Signore, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Haran. Egli prese con sé la sua moglie Sarai, e Lot figlio di suo fratello, e tutto quello che possedevano, e le persone che avevano acquistate in Haran, e partirono per andare nella terra di Canaan. E giunti colà, Abramo attraversò il paese fino al luogo di Sichem, fino alla valle famosa. Erano allora in quella terra i Cananei. Là il Signore apparve ad Abramo e gli disse: “Alla tua progenie io darò questa terra”. Ed egli edificò in quel luogo un altare al Signore, che gli era apparso. E di lì, procedendo verso il monte ad oriente di Betel, vi tese la sua tenda, avendo Betel a occidente ed Ai ad oriente; e anche lì edificò un altare al Signore e ne invocò il nome.

Santità di Abramo.
Quale più viva immagine poteva darci del discepolo di Gesù Cristo questo Patriarca, così docile e generoso a seguire la voce di Dio? E con quale ammirazione non dobbiamo ripetere la parola dei santi Padri: “Oh, uomo veramente cristiano prima della venuta di Cristo! uomo evangelico prima del Vangelo! uomo apostolico prima degli apostoli!”.

Il Signore lo chiama ed egli abbandona tutto, patria, famiglia, casa paterna, e s’incammina verso un ignoto paese. Gli basta che Dio lo conduca, e si sente sicuro, e non guarda indietro. Non hanno fatto così gli Apostoli? Ma guardate la ricompensa: Saranno in lui benedette tutte le nazioni della terra. Questo Caldeo, che porta nelle vene il sangue che salverà il mondo, doveva tuttavia morire prima di vedere sorgere il giorno, in cui un suo discendente avrebbe riscattato tutte le generazioni passate, presenti e future. Un giorno il Redentore aprirà il cielo, e i nostri progenitori, con Mosè, Noè e David, in una parola tutti i giusti, andranno a riposarsi nel seno di Abramo (Lc. 16, 22), immagine dell’eterna beatitudine. Così Dio onorò l’amore e la fedeltà di questa sua creatura.

La posterità spirituale di Abramo
Al compiersi dei tempi il Figlio di Dio e di Abramo rivelò la potenza del Padre, che s’apprestava a far nascere una nuova generazione di figli di Abramo dalle pietre della gentilità. Siamo noi, cristiani, questa nuova generazione: ma siamo degni di tale padre? Ecco come ne parla l’Apostolo delle Genti: “Per la fede, colui ch’è chiamato Abramo ubbidì per andare alla terra che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andasse. Per la fede dimorò nella terra promessa, perché aspettava quella città ben fondata, della quale Dio è architetto e costruttore” (Ebr. 11, 8-10).

Se dunque siamo figli di Abramo, in questo tempo di Settuagesima dobbiamo considerarci dei viaggiatori sulla terra, desiderosi di vivere, nello spirito, in quell’unica nostra patria donde fummo esiliati, ma alla quale ci avvicineremo ogni giorno più, se, come Abramo, saremo fedeli a guadagnare le diverse tappe che il Signore c’indicherà. Egli vuole che usiamo di questo mondo come se non ne usassimo (1 Cor. 7, 31), perché non è quaggiù la nostra dimora permanente (Ebr. 13, 14); e dimenticare che la morte ci separerà da tutte le cose che passano, sarebbe la nostra più grande sventura.

La vita cristiana e il divertimento
Come sono lontani dall’essere veri figli di Abramo quei cristiani, che oggi e nei due prossimi giorni, s’abbandonano all’intemperanza e ai divertimenti peccaminosi, col pretesto che sta per cominciare la santa Quaresima. L’ingenuità dei costumi dei nostri primi padri poteva più facilmente conciliare la gravità cristiana con gli addii ad una vita più dolce che la Quaresima stava per interrompere, alla stessa maniera che la gioia dei loro pasti testimoniava, nella solennità della Pasqua, la stretta osservanza delle prescrizioni della Chiesa. È sempre possibile conciliare le due cose. Ma spesso avviene che l’idea cristiana dell’austerità si imbatte con le seduzioni della natura corrotta, e così la prima intenzione d’una semplice familiare allegria finisce per svanire in un lontano ricordo. Che cosa, per esempio, possono avere in comune con le gioie permesse dalla Chiesa nelle case dei suoi figli, quelli che lasceranno passare l’intera Quaresima senza accostarsi ai Sacramenti? E quegli altri che si preoccuperanno di ricorrere alle dispense, per mettersi più o meno al coperto dalle imposizioni della Chiesa, come potranno preludere alla festa di Pasqua con tante festicciole, in periodo durante il quale il peso dei loro peccati, lungi dall’alleggerirsi, diventerà ancora più pesante?

Potessero queste illusioni avere minore influenza sulle anime, e potessero queste ritornare per quanto riguarda i legami della carne e del sangue, alla libertà dei Figli di Dio che sola può restituire all’uomo la sua prima dignità! I veri cristiani non devono mai dimenticare, che nel tempo quaresimale la Chiesa si priva perfino dei suoi canti di letizia spirituale, per farci intendere più sensibilmente la durezza del giogo che Babilonia fa pesare su di noi, e rinnovarci nello spirito cristiano tanto facile ad affievolirsi. Se doverose convenienze trascineranno, in questi giorni, i seguaci di Cristo nel vortice dei profani divertimenti, vi portino almeno un cuore retto e sempre preoccupato delle massime del Vangelo. Come fece santa Cecilia, quando risuoneranno nelle loro orecchie le note d’una musica mondana, cantino a Dio nei loro cuori dicendo “Custoditesi puri, o Signore, e che niente alteri la santità e la dignità della vostra abitazione in noi”. Evitino soprattutto di autorizzare, partecipandovi, le danze, dove fa naufragio il pudore; esse saranno materia di più severo giudizio per quelli e quelle che le promuovono. Infine meditino le energiche considerazioni di san Francesco di Sales: “Mentre la folle ubriachezza dei divertimenti mondani sembrava aver cancellato ogni altro sentimento che non fosse quello di un piacere futile e troppo spesso pericoloso, innumerevoli anime continuavano ad espiare eternamente, nel fuoco dell’inferno, le colpe commesse in simili occasioni; in quelle stesse ore, servi e serve di Dio sacrificavano il sonno per andare a cantare le sue lodi ed implorare la sua misericordia sopra di voi; migliaia di vostri simili morivano d’angoscia e di tristezza nel loro misero giaciglio; Dio e i suoi Angeli vi guardavano attentamente dal cielo; e il tempo della vita passava, e la morte s’avvicinava a voi con un passo che non retrocede” (Introduzione alla Vita devota, III parte, c. 33).

L’adorazione delle Quarantore
Per tutto questo giustamente conveniva, che i tre ultimi giorni ancora esenti dal rigore quaresimale, non passassero senza offrire un adeguato alimento al bisogno di emozioni che tormenta tante anime. E ci ha pensato con materno intuito la Chiesa, ma non secondo i desideri di frivoli passatempi e di vane soddisfazioni: ai suoi figlioli devoti essa prepara un diversivo potente, che è nello stesso tempo un mezzo per placare lo sdegno di Dio provocato da tali eccessi.

Durante questi tre giorni viene esposto sugli altari l’Agnello, che dall’alto del suo trono di misericordia riceve gli omaggi degli adoratori che lo riconoscono per loro re; accetta il pentimento di coloro che rimpiangono ai suoi piedi d’aver servito, in passato, un altro signore; si offre al Padre per gli altri peccatori che, non contenti di trascurare i suoi benefici, sembrano di aver deciso di oltraggiarlo in questi giorni più che in qualsiasi altro tempo dell’anno.

L’idea di offrire una riparazione alla divina Maestà per i peccati degli uomini, proprio nel momento che se ne commettono di più, e di opporre all’ira del divin Padre il proprio Figliolo, mediatore fra il cielo e la terra, fu ispirata fin dal XVI secolo al cardinale Gabriele Paleotti, Arcivescovo di Bologna, contemporaneo di san Carlo Borromeo ed emulo del suo zelo pastorale. Quest’ultimo adottò subito nella sua diocesi e provincia una pratica così salutare. Nel XVIII secolo, Prospero Lambertini, volle continuare le tradizioni del Paleotti, suo predecessore, ed esortò il popolo alla devozione al Ss. Sacramento nei tre giorni di Carnevale. Salito poi sulla cattedra di san Pietro col nome di Benedetto XIV, arricchì il tesoro delle indulgenze a favore dei fedeli che, durante tali giorni, avrebbero visitato Nostro Signore nel mistero del suo amore ed implorato il perdono dei peccati. Tale favore, prima limitato alle chiese dello Stato Romano, fu da Clemente XIII, nel 1765, esteso a tutto il mondo; e così la devozione comunemente chiamata delle Quarantore, divenne una delle più solenni manifestazioni della pietà cattolica.

Siamo dunque molto solleciti ad approfittarne. Allontaniamoci, come Abramo, dalle profane influenze che ci assediano e cerchiamo il Signore Dio Nostro: riposandoci un po’ dalle libere dissipazioni del mondo, veniamo a meritare, ai piedi del Salvatore, la grazia di passare attraverso quelle che sono inevitabili senza attaccarvi il cuore.

I misteri di questo giorno
Consideriamo ora gli altri misteri della Domenica di Quinquagesima. Il passo evangelico contiene la predizione del Signore agli Apostoli della Passione che doveva fra poco soffrire a Gerusalemme. Un tale solenne annuncio prelude ai dolori della Settimana Santa. Accogliamo questa parola nelle nostre anime con ogni tenerezza e riconoscenza, e decidiamoci a metterci a disposizione del Signore, come fece Abramo.

Gli antichi liturgisti segnalavano inoltre la guarigione del cieco di Gerico come simbolo dell’accecamento dei peccatori. Il cieco riacquistò la vista perché sentiva il suo male e desiderava guarire. La santa Chiesa vuole che sentiamo lo stesso desiderio e ci assicura che sarà esaudito.

Messa
La Stazione è nella Basilica Vaticana di S. Pietro.
Questa scelta pare risalire all’epoca in cui si leggeva ancora in questa domenica la narrazione della Legge data a Mosè, considerato dai primi cristiani di Roma il tipo di san Pietro. Avendo poi la Chiesa rimandata la lettura dell’Esodo nel periodo della Quaresima, e sostituendo quel racconto col mistero della vocazione di Abramo, la Stazione romana restò nella Basilica del Principe degli Apostoli, che fu pure figurato da Abramo nella qualità di Padre dei credenti.
EPISTOLA (1 Cor. 13, 1-13). – Fratelli: quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, sono come un bronzo che suona e un cembalo che squilla. E quando avessi la profezia, e conoscessi tutti i misteri ed ogni scienza, e quando avessi tutta la fede, fino a trasportare i monti, se non ho la carità, sono un niente. E quando distribuissi tutto il mio per nutrire i poveri e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità, nulla mi giova. La carità è paziente, è benefica; la carità, non è invidiosa, non è insolente, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa male, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non verrà mai meno. Le profezie passeranno, cesseranno le lingue, la scienza avrà fine: perché imperfettamente conosciamo e imperfettamente profetiamo; e quando sarà venuta la perfezione ciò ch’è imperfetto dovrà sparire. Quando ero bambino parlavo da bambino, avevo gusti da bambino, pensavo da bambino; ma fatto uomo non ho smesso le cose che eran da bambino. Ora noi vediamo come in uno specchio in modo enigmatico; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco parzialmente, ma allora conoscerò come io sono conosciuto. Rimangono per ora tutte e tre: fede, speranza e carità, ma la più grande di queste tre virtù è la carità. Elogio della carità.
Oggi la Chiesa ci fa leggere il magnifico elogio che fa san Paolo della carità, la virtù che insieme racchiude l’amor di Dio e del prossimo, ed è luce delle anime nostre. Se esse ne sono prive, vivono nelle tenebre, e tutte le loro opere sono impregnate di sterilità. Lo stesso potere dei miracoli non potrebbe garantire la salvezza a chi non ha la carità, senza di cui le opere apparentemente più eroiche potrebbero da se stesse costituire un’insidia.

Chiediamo al Signore questa luce; per quanto ci venga accordata anche quaggiù, ci è riservata senza misura nell’eternità. I giorni più splendenti che possiamo godere in questo mondo non sono che tenebre in paragone degli eterni splendori, dove, in presenza della realtà per sempre contemplata svanirà la fede; nell’istante che cominceremo a godere di quel possesso la speranza verrà a mancare del suo oggetto; solo regnerà l’amore; ed è questo il motivo della sua sovraeccellenza sulle altre due virtù teologali.

Ora, se il destino dell’uomo redento e illuminato da Gesù Cristo sta tutto qui, nel regno della carità, dobbiamo meravigliarci che egli debba lasciar tutto per seguire un tale Maestro? Purtroppo vi sono cristiani, battezzati in questa fede e in questa speranza, e che ricevettero le primizie di quest’amore, i quali s’ingolfano in questi giorni nei più grossolani disordini, anche se possono apparire raffinati e delicati. Si direbbe che abbiano fatto un patto con le tenebre tanto si sforzano d’oscurare l’ultimo raggio della luce divina che sta in loro.

La Carità, se regna in noi, ci deve rendere sensibili all’oltraggio che fanno a Dio questi nostri ciechi fratelli, e portarci nello stesso tempo a sollecitare si di loro la sua misericordia.
VANGELO (Lc. 18, 31-43). – In quel tempo: Gesù, presi in disparte i dodici, disse loro: Ecco noi ascendiamo a Gerusalemme e s’adempiranno tutte le cose predette dai Profeti riguardo al Figlio dell’uomo; egli sarà dato nelle mani dei gentili, sarà schernito e flagellato e coperto di sputi. E, dopo averlo flagellato, lo uccideranno; ma risorgerà il terzo giorno. E quelli nulla compresero di tutte quelle cose, ed il senso di esse era loro nascosto e non afferravano quanto veniva loro detto. Or avvenne che mentre egli s’avvicinava a Gerico, un cieco stava seduto lungo la strada a mendicare; e sentendo passare la folla, domandò che cosa fosse. Gli dissero che passava Gesù Nazareno. Allora egli gridò: Gesù, figlio di David, abbi pietà di me. E quelli che precedevano gli gridavano di tacere. Ma lui a gridar più forte che mai: Figlio di David abbi pietà di me. Allora Gesù, fermatosi, comandò che gli fosse menato. E quando gli fu vicino, gli domandò: Che vuoi ch’io ti faccia? E quello: Signore, esclamò, che ci veda. E Gesù gli disse: Guarda, la tua fede ti ha salvato. E subito ci vide e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, visto il miracolo, lodò Dio. Cecità e luce spirituale.
Abbiamo sentita la voce di Cristo annunciante la Passione, la stessa voce che sentirono gli Apostoli, i quali accolsero la confidenza del loro Maestro, ma senza comprendere nulla perché essendo ancora imbevuti dei pregiudizi del loro popolo contro le sofferenze del Messia, non potevano comprendere il vero senso della sua missione di Salvatore. Tuttavia non lo lasciano e continuano a seguirlo.

Adoriamo con amore la divina misericordia, che ci volle separare, come Abramo, da quel popolo abbandonato; seguiamo l’esempio del cieco di Gerico, alzando la voce al Signore, perché c’illumini sempre di più: Signore, fate che io veda; ecco la sua preghiera. Già ci concesse la sua luce: ma ci gioverà ben poco, se essa non risvegliasse in noi il desiderio di vederci sempre di più. Dio promise ad Abramo di mostrargli la terra a lui destinata: che si degni mostrare anche a noi la terra dei viventi. Soprattutto preghiamolo, secondo la bella espressione di sant’Agostino, che si mostri a noi affinché lo amiamo e di mostrare noi a noi stessi perché cessiamo d’amarci.

Preghiamo
Esaudisci con clemenza, o Signore, le nostre preghiere e, dopo averci sciolti dai lacci dei peccati, preservaci da ogni avversità.
da: P. GUÉRANGER, L’anno liturgico. – I. Avvento – Natale – Quaresima – Passione, trad. it. P. GRAZIANI, Alba, Edizioni Paoline, 1959, pp. 451-458.

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