Riprendiamo da Settimo cielo un articolo del cardinale Walter Brandmüller pubblicato nel 2002 sulla rivista tedesca “Die Neue Ordnung”, dal titolo “Nazionalismo o universalismo liturgico?. Non ho potuto fare a meno di inserire una nota finale in riferimento ad alcune affermazioni della premessa.
Qui l'indice degli interventi precedenti e correlati su Traditionis custodes.
A pochi giorni dalla sua pubblicazione è ancora presto per misurare gli effetti del motu proprio “Traditionis custodes” con cui papa Francesco ha praticamente messo al bando la messa in rito antico: se cioè le nuove disposizioni aiuteranno a fare la Chiesa più unita, o al contrario a dividerla ancora di più. [...] L’attuale controversia sul rito è analoga alla controversia sull’interpretazione del Vaticano II. Chi legge questo Concilio come una rottura inaccettabile della tradizione cattolica, rifiuta anche il rinnovamento della liturgia generato dal Concilio stesso. Mentre al contrario Benedetto XVI scriveva, nella lettera di accompagnamento a “Summorum pontificum”: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.
Per papa Joseph Ratzinger “le due forme dell’uso del rito romano” non erano né alternative né contrapposte. Anzi, potevano e dovevano “arricchirsi a vicenda”. Come lui stesso ha mostrato costantemente al mondo nell’atto di celebrare. (1)
Va comunque tenuto conto che di fatto la grandissima maggioranza dei fedeli cattolici resta estranea a questa controversia. Per essi, la “vecchia” messa di cui odono parlare è semmai la messa in latino, la lingua che il Concilio Vaticano II non ha affatto abolito ma ha stabilito di voler conservare come lingua propria della liturgia, sia pure contemperata dall’uso delle lingue nazionali specialmente nelle letture.
Poi in realtà le lingue nazionali l’hanno fatta da padrone e il latino è praticamente scomparso dalla liturgia, dopo esserne diventato per secoli la lingua sacra.
Invano si appellarono a Roma, nel 1966 e nel 1971, perché il latino nella liturgia fosse salvato, personalità come Jacques Maritain, Jorge Luis Borges, Giorgio De Chirico, Eugenio Montale, François Mauriac, Gabriel Marcel, Harold Acton, Graham Greene, Agatha Christie e tanti altri.
Per i più si è trattato di una variazione puramente linguistica. Ma non è così, come mostra il cardinale Walter Brandmüller, 92 anni, già presidente del pontificio comitato di scienze storiche, nella riflessione che segue, tratta da un articolo da lui pubblicato nel 2002 sulla rivista tedesca “Die Neue Ordnung”, dal titolo “Nazionalismo o universalismo liturgico?”.
La lingua liturgica non è fatta solo di parole
di Walter Brandmüller
Fino al Concilio Vaticano II, del messale latino-tedesco del benedettino Anselm Schott sono state fatte ben 67 (!) edizioni. Attraverso quel libro, generazioni di cattolici hanno imparato a conoscere, vivere e amare la liturgia della Chiesa. Ciononostante, quanti si oppongono oggi al latino come lingua della liturgia continuano instancabilmente a obiettare che, a parte i pochi che sanno il latino, nessuno la comprende.
Questa argomentazione ha una storia, perlomeno a partire dall'Illuminismo. Quasi contemporaneamente, però, si confrontò con quella stessa argomentazione anche Johann Michael Sailer, ritenuto uno tra i personaggi più importanti per il superamento degli eccessi dell'Illuminismo nella Germania cattolica.
Certamente anche Sailer auspica una liturgia in tedesco. Al tempo stesso, però, ritiene evidente che in fondo la questione della lingua liturgica non è decisiva, poiché “la messa ha una lingua fondamentale, una lingua madre, che non è né il latino né il tedesco, né l'ebraico né il greco; in breve: non è una lingua fatta di parole".
Sailer individua questa lingua fondamentale della messa nella espressione totale della religione. Lo afferma nel 1819, ma il suo è ancora adesso un punto di vista molto moderno; oggi si parla di comprensione complessiva, che è molto di più della semplice comprensione razionale e rispetto a essa penetra in strati più profondi dell'uomo. Se nella vita e in tutto l'aspetto esteriore dell'uomo la celebrazione liturgica viene vissuta come autentica espressione totale della religione, allora – sostiene Sailer – la lingua non è più così importante. Piuttosto, è molto più importante che “chiunque voglia riformare la funzione religiosa pubblica, inizi col formare sacerdoti illuminati, santi".
La comprensione vera, complessiva della liturgia – e ciò vale anche per la realtà in assoluto – non è solo un processo intellettuale. La persona, in fondo, non è fatta solo di ragione e volontà, ma anche di corpo e sensi. Quindi, se di una liturgia celebrata in un linguaggio sacrale non si comprende ogni singolo testo – escludendo naturalmente le letture bibliche e l'omelia –, comunque l'intero evento, il canto, le suppellettili, i paramenti e il luogo sacro, ogni qual volta danno adeguata espressione alla celebrazione, toccano in modo molto più diretto la dimensione profonda dell'uomo di quanto possano fare le parole comprensibili. Diversamente che ai tempi di Sailer, oggi ciò è molto più semplice, poiché chi assiste alla messa conosce già la struttura del rito e i testi che ricorrono nella liturgia, perciò quando partecipa a una messa in latino sa abbastanza di che cosa si tratta.
Che il latino debba essere respinto come lingua liturgica perché non viene compreso non è quindi un'argomentazione convincente, tanto più che, malgrado tutte le difficoltà relative alla traduzione, la liturgia in lingua volgare non deve essere abolita. Solo che, come dice il concilio Vaticano II, non dovrebbe essere abolito nemmeno il latino [vedi].
Qual è invece la situazione della “participatio actuosa” [vedi], ossia della partecipazione attiva dei fedeli alla celebrazione liturgica? Il Concilio prescrive che il fedeli devono essere in grado di cantare o recitare le parti che spettano loro anche in lingua latina. È una richiesta eccessiva? Se si pensa a quanto sono familiari le parole dei testi dell'ordinario della messa, non dovrebbe essere difficile riconoscerli dietro le parole latine. E quante canzoni inglesi o americane vengono cantate e comprese volentieri nonostante siano in una lingua straniera?
In fondo, “participatio actuosa” significa molto di più che un mero parlare e cantare insieme: è piuttosto il fare propria, da parte del cristiano che partecipa alla funzione, la stessa disposizione intima del sacrificio al Padre, nella quale Cristo compie il suo dono di sé al Padre. E per questo serve in prima linea quella che Johann Michael Sailer ha definito lingua fondamentale della messa.
Il messale latino sotto questo aspetto è necessario anche dal punto di vista pratico: il sacerdote che si reca in paesi dei quali non conosce la lingua dovrebbe avere la possibilità di celebrare anche lì la santa messa, senza essere costretto ad acrobazie linguistiche indegne di una liturgia. È bene ricordare anche i casi sempre più numerosi in cui sacerdoti provenienti dall'India, dall'Africa e così via svolgono il loro servizio in parrocchie tedesche. Al posto di una pronuncia imperfetta della lingua tedesca, sarebbe preferibile un latino pronunciato correttamente, come forma più adeguata alla liturgia. In breve: al messale romano in latino bisogna augurare di poter essere presente in ogni chiesa.
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Nota di Chiesa e post-concilio
1. Sto approfondendo questo tema (pubblicherò a breve) proprio in relazione alle recenti affermazioni del card. Sarah sul "reciproco arricchimento" del Ritus Romanus e del Novus Ordo di Paolo VI e sulle distorsioni attribuite alla "cattiva applicazione del concilio". Stralcio qui alcune osservazioni.
Allo stato dei fatti non può non mettersi in risalto l’evolversi in negativo della “Riforma della riforma" che non ha mai voluto eliminare il Novus Ordo, ma ridare ad esso una dignità ed una sacralità che purtroppo non gli sono proprie sia per i tagli selvaggi subìti dalla struttura del rito che veicolano una ecclesiologia antropocentrica, sia per effetto della progressiva diluizione del sacrificio del Signore con l’enfatizzazione della “mensa della Parola” e del convito fraterno.
Se è un bene che per far rivivere il senso del sacro Benedetto XVI avesse riproposto l’orientamento dell’azione liturgica, la Croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, una certa cura dell’arte sacra, restava e resta pur sempre il nodo vero da sciogliere, e cioè: se in luogo del convivio fraterno non si ripropone chiaramente il Sacrificio di Cristo, che è il cuore della nostra Fede e il vero culto da rendere a Dio primaria funzione della Chiesa da cui tutto il resto scaturisce, cambieranno solo alcuni elementi formali, ma non cambierà la sostanza. E questo può avvenire solo tornando a quello che Klaus Gamber chiama il Ritus Romanus.
I gesti liturgici introdotti da Benedetto XVI sono innovazioni formali, che hanno dato maggiore sacralità e dignità alla celebrazione, ma non incidono su alcuni “vizi” di fondo della sua struttura, che sembrerebbero restare immutati e senza più alcun riferimento neppure alla cosiddetta “Riforma della Riforma”.
Pouttosto è da temere il rischio che la Messa tradizionale, definita “mai abrogata”, venga sfigurata con il pretesto dell’“arricchimento reciproco”! Meminisse horret l’idea di una contaminazione di un tesoro che ci è pervenuto intatto nella struttura essenziale - pensando soprattutto al Canone Romano - dal Sacramentario Gelasiano, ricordando il rispetto di Papa Damaso per la Vetus latina, prima ancora che dalla sorgente Gregoriana e dalla solenne consegna a tutto l’Occidente latino di san Pio V.
Si tratta di un problema che riguarda la Chiesa tutta e non un papa rivoluzionario ad oltranza e "liturgisti" come quelli di Sant'Anselmo.
Ciò di cui c’è innanzitutto bisogno è colmare lo iato generazionale che ha cancellato i significati autentici e il vero spirito delle origini della Liturgia - non quello supposto ed enfatizzato dalle innovazioni selvagge e da quelle arbitrarie - e viverla sempre più consapevolmente e profondamente per quanto ci è dato, perché si tratta di un tesoro e di una Grazia inesauribili.
Resta ancora da chiedersi cosa potrà fare un dicastero nel quale operano consulenti decisamente progressisti e, quindi, con incoercibile avversione verso il culto “tradizionale”.
Dove sta andando la nostra Chiesa? Da un lato aumenta la consapevolezza e anche l'interesse per il rito antico, Benedetto XVI non aveva fatto mancare i suoi richiami; ma, sul piano “pastorale”, i segnali sono ormai drammatici.
Quanto al pericolosissimo oblio del carattere sacrificale della Messa cattolica, esso conduce lentamente ma inesorabilmente all'eresia. Cito Michael Davies, da tenere a memoriale per le evidenti analogie:
“nel nuovo rito anglicano della messa, quello del Prayer book del 1549, non troveremo affermate delle eresie, ma omesse verità di fede essenziali. Le omissioni, il “taciuto”, in liturgia è sempre grave, perché rinunciare ad affermare con completezza e chiarezza tutte le verità di fede implicate, può portare a un vuoto di dottrina nei sacerdoti e nei fedeli che nel futuro apre il campo all'eresia: in parole semplici oggi sei cattolico con una messa eccessivamente semplificata, domani senza saperlo ti ritrovi protestante perché la forma della tua preghiera non ha nutrito più la tua fede. Ecco cosa dicono i vescovi cattolici inglesi: “Per dire le cose brevemente, se si compara il primo Prayer Book di Edoardo VI con il messale (cattolico), vi si scoprono sedici omissioni, il cui scopo era evidentemente quello di eliminare l’idea di sacrificio”
Ma è una consapevolezza che nella Chiesa appartiene solo a chi è legato alla Tradizione, mentre la massima concessione che viene fatta a chi tenta di argomentare le ragioni della crisi epocale che ha nella Liturgia la sua più drammatica espressione, è quella di una "cattiva applicazione del concilio" insieme alle istanze di "reciproco arricchimento" evocate anche dal cardinal Sarah.
Ma da cosa può esser determinata concretamente una cattiva applicazione se non dalle 'variazioni' contenute nei suoi documenti e subdolamente applicate attraverso la nuova pastorale da tutti i papi fino ad oggi, col frutto maturo, ma anche anomalo, di Bergoglio?
E sono decenni che nella Chiesa è negata ogni possibile argomentata critica, mentre siamo arrivati al punto che la Traditionis custodes dispone apertis verbis :
- "I libri liturgici promulgati dai Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano" (art.1);
- e che il vescovo "accerti che i gruppi [legati alla Messa tradizionale] non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici;" (art.3 § 1. )
Certe cose vanno dette e tenute ben presenti sul nascere. Non dobbiamo, non vogliamo e non possiamo distogliere l’attenzione dalla minaccia reale, che è quella di una contaminazione progressiva del Rito usus antiquior provvidenzialmente tornato alla luce. E nemmeno dobbiamo dare per scontato che certe innovazioni debbano accadere comunque e nei termini ancora una volta distruttivi e non semplicemente secondo uno sviluppo organico, l'unico proprio della Liturgia.
Gli innovatori, anche attuali, vedono la Liturgia - come pure la Tradizione - con criteri storicistici, che le concepiscono entrambe in evoluzione a seconda dei tempi; ma non ha senso parlare di evoluzione, perché la liturgia e la tradizione non possono evolvere in senso storicistico, nel senso di subire mutazioni profonde che ne snaturano il senso principale e allontanano sempre più dalle radici; mutazioni indotte per stare al passo coi tempi o paradossalmente col pretesto di un supposto, enfatizzato, impossibile ritorno alle origini di conio protestante, già stigmatizzato come “insano archeologismo liturgico” da Pio XII nella Mediator Dei.
Oggi appare ben chiaro come tutto l'impianto delle innovazioni e l'apparato concettuale che lo sottende sia fondato, già in nuce, su un'idea rivoluzionaria di Chiesa di conio vaticansecondista, antropocentrica e non più cristocentrica, le cui variazioni - ormai vere e proprie rotture - si fanno sempre più audaci ad ogni tappa successiva, in continuità esclusivamente all'interno del loro nuovo impianto paradigmatico, ma senz'alcun legame, e quindi in discontinuità, col magistero perenne ritenuto obsoleto per definizione. Ribadisco di seguito considerazioni che non mi stanco di ripetere finché non ci sarà chi di dovere che ne tragga le conseguenze pratiche per poter ripareggiare la verità.
Oggi appare ben chiaro come tutto l'impianto delle innovazioni e l'apparato concettuale che lo sottende sia fondato, già in nuce, su un'idea rivoluzionaria di Chiesa di conio vaticansecondista, antropocentrica e non più cristocentrica, le cui variazioni - ormai vere e proprie rotture - si fanno sempre più audaci ad ogni tappa successiva, in continuità esclusivamente all'interno del loro nuovo impianto paradigmatico, ma senz'alcun legame, e quindi in discontinuità, col magistero perenne ritenuto obsoleto per definizione. Ribadisco di seguito considerazioni che non mi stanco di ripetere finché non ci sarà chi di dovere che ne tragga le conseguenze pratiche per poter ripareggiare la verità.
Il nocciolo del problema è che oggi, a partire dal concilio 'pastorale', nessun papa si è più pronunciato, né - per come stanno ora le cose - più si pronuncerà ex cathedra (e dunque impegnando l'infallibilità). E ciò anche in virtù del nuovo paradigma di 'tradizione vivente' in senso storicista che assegna la facoltà di riformare la Chiesa alla Chiesa del presente, secondo la ratzingeriana ermeneutica della riforma intesa come rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa che cambia ad ogni epoca, commisurata alla cultura del tempo e realizza la lettura del Vangelo sulla base di quest'ultima, anziché viceversa. Per cui, mentre da un lato il card. Burke può dire che l'esortazione Amoris Laetitia non è Magistero perché non riafferma l'insegnamento costante della Chiesa e non implica adesione de fide - e altrettanto dicasi per Querida Amazonia et alia - dall'altro il papa ha potuto decretare la pubblicazione negli AAS dei criteri interpretativi dell'AL dei vescovi argentini, e della lettera papale loro indirizzata, spuri rispetto all’insegnamento costante della Chiesa. E così i modernisti possono affermare che l’AL et alia è Magistero e come tale vanno accolti e il credente vi si deve adeguare.
A livello individuale una coscienza ben formata sa a Chi deve obbedire e su cosa fondarsi. Ma finché non si recupererà la giusta collocazione del soggetto-Chiesa rispetto all'oggetto-tradizione, la confusione continuerà a regnare sovrana con gravi conseguenze per la salus animarum.
Tornando al Concilio e ai suoi nefasti effetti, tra lo spirito con cui si è intrapresa la celebrazione della ventunesima Assise ecumenica ed i sedici documenti maturati al suo termine c’è una logica perfetta: il rifiuto, infatti, degli Schemi ufficialmente preparati, con il quale essa prese l’avvio. E dunque quell'Assise non poteva ingenerare che quei documenti, con quel loro indirizzo, quelle loro aperture, non sempre immediatamente riconoscibili. E da queste, proprio perché tali, non poteva scaturire che un atteggiamento di rottura col passato.
Ciò, ovviamente, non comporta un no al Concilio, del quale ricordo che mons. Gherardini individua quattro distinti livelli, assegnando ad ognuno di essi un diverso valore: 1) quello generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico; 2) quello specifico del taglio pastorale; 3) quello dell’appello ad altri Concili; 4) quello delle innovazioni.
Sul piano generico, il Vaticano II ha tutte le carte in regola per esser un autentico Concilio della Chiesa cattolica: il 21° della serie. La qual cosa di per sé non depone per la dogmaticità ed infallibilità dei suoi asserti; anzi nemmeno la comporta, avendola in partenza allontanata dal proprio orizzonte e, semmai può essere individuata solo negli asserti che coincidono con l'insegnamento costante della Chiesa.
Finché non si potrà prendere atto che gli aspetti ribaltanti dell'eredità conciliare sono i veri nodi da sciogliere - come riconosce anche mons. Viganò che finalmente aveva innescato un dibattito; mentre ora è calata la mannaia della TC - il nostro impegno di riaffermazione della verità secondo il Magistero perenne sarà utile per le anime libere, potrà continuare a defluire come una vena aurea cui attinge chi la trova o come un canale carsico che potrà riaffiorare al termine di questa notte oscura, ma oggi non può avere alcuna efficacia su una realtà così deformata e deformante. E la stessa grave solennità di qualunque possibile correzione canonica, rischia di non ottenere i risultati voluti e sperati. A meno che non intervengano fattori o si destino rette volontà al momento impensabili. (Maria Guarini).
https://infovaticana.com/2021/08/03/el-arzobispo-de-san-francisco-instituye-una-misa-tridentina-mensual-en-la-catedral/
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