venerdì 29 aprile 2022

Gerhard Müller, Lectio Magistralis sulla Pace e la Guerra ad Anagni.

Un recente testo sulla "cultura della pace" del prefetto emerito della dottrina della fede, da registrare, ma non senza le dovute precisazioni su alcune derive conciliariste, per le quali vi rimando alla nota in calce, che riguarda un rilievo più immediatamente necessario. Noto con rammarico che altri divulgatori non ci fanno neppure caso... e invece un certo conservatorismo non è meno dannoso del modernismo perché risultano meno evidenti le dissonanze rispetto all'insegnamento costante della Chiesa. Ci sarà spazio per altre possibili osservazioni.

Lectio magistralis del cardinale Gerhard Ludwig Müller in occasione della consegna del Premio Internazionale “Bonifacio VIII per una cultura della pace”
pubblicata da Kath.net

Al di là del complesso contesto storico, l’oltraggio di Anagni, subìto da Bonifacio VIII il 7 settembre 1303, riveste un significato simbolico. In linea di principio, si tratta della relazione tra autorità spirituale e potere secolare o, come diremmo oggi, della relazione tra religione e politica. Più concretamente, qui abbiamo a che fare con la tensione tra la coscienza, luogo in cui siamo responsabili davanti a Dio, e il potere politico, che è orientato verso interessi temporali. A seconda del punto di vista ideologico, lo “schiaffo” che Sciarra Colonna avrebbe dato al Papa, viene rimpianto come il momento in cui termina il potere medievale del Papa, oppure applaudito come l’ascesa dello Stato laico, che dichiara la sua autonomia anche sulla legge morale naturale e persino sulla libertà religiosa. Questa forma di sovranità, che con Niccolò Machiavelli dichiarò la ragion di Stato autorità ultima, si percepisce sia nel modo in cui l’assolutismo monarchico si rapportò con i suoi sudditi, che nel burocratismo spietato imposto ai cittadini delle cosiddette democrazie popolari.

Tuttavia, da allora la storia occidentale ha fortemente smentito la teoria della sovranità statale assoluta. L’autorità sovranazionale del papato aveva trasmesso agli stati cristiani, emersi dall’eredità dell’Impero Romano, la coscienza della loro unità nella responsabilità davanti a Dio. Mentre la politica dell’equilibrio, il balance of power, non ha potuto impedire né le catastrofi delle guerre dinastiche di successione del XVIII secolo, né le guerre colonialiste rivoluzionarie e di liberazione del XIX secolo, e tanto meno le due guerre mondiali imperialiste scatenatesi nel XX secolo.

In molti paesi la Chiesa stessa divenne sia vittima che promotrice del nazionalismo sfrenato e dell’espansionismo ideologico, lasciandosi strumentalizzare in nome della ragion di Stato. Basti pensare al gallicanesimo, al febronianesimo o alla sciocca propaganda che tentò di reinterpretare la prima guerra mondiale come battaglia finale tra il cattolicesimo francese e il protestantesimo tedesco. E oggi, noi cristiani siamo giustamente scioccati dall’infame interpretazione della guerra di aggressione contro l’Ucraina come difesa dell’ortodossia russa contro la decadenza occidentale[1].

In realtà, le dispute medievali tra l’imperatore e il papa non riguardavano il potere temporale rivendicato dai papi, ma l’affermazione del primato della morale sulla politica. L’amore per il prossimo e la solidarietà dei popoli vengono prima degli interessi che mirano al potere nazionale, all’influenza imperiale e – in un modo puramente materialista – alle riserve di gas e petrolio.

Nei tempi moderni, con i cambiamenti culturali e le condizioni sociali completamente mutate, i papi, nel campo della politica internazionale, hanno adempiuto in modo convincente al loro ruolo di mediatori di pace e guardiani della legge morale naturale. Se i politici dell’Entente e delle potenze centrali della prima guerra mondiale, prigionieri dalla loro cieca volontà di potere, avessero accettato l’iniziativa di pace lanciata da Papa Benedetto XV, milioni di persone non avrebbero perso la vita e la loro salute in modo così insensato, e, durante la seconda guerra mondiale, le forze bolsceviche e fasciste non avrebbero potuto far sprofondare le nazioni in una catastrofe ancora peggiore.

Il 24 agosto 1939, Papa Pio XII dichiarò in un radiomessaggio: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». E nella sua indimenticata enciclica Pacem in terris (1963), Papa Giovanni XXIII affermò che Dio è il fondamento di ogni ordine morale e il garante dello sviluppo dei popoli verso la pace e una prospera convivenza. Giovanni Paolo II aveva ragione quando avvertì gli americani impegnati nelle  guerre del Golfo, visto che la distruzione di vite umane e beni materiali supera di gran lunga i successi ottenuti nella lotta contro il terrorismo internazionale. E ora ha ragione anche Papa Francesco nel suo avvertimento alla Russia in merito alla guerra di annientamento scatenata contro l’Ucraina. Oltre a giustificare dei crimini di guerra con la falsa pretesa di liberare il paese confinante da nazisti e da oligarchi mafiosi, la perdita di vite umane e il danno recato al proprio paese e a tutti i popoli d’Europa e del mondo, non fanno che confermare la parola di Gesù che afferma che «tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52).

E così siamo giunti, dal nostro punto di partenza storico, nel bel mezzo di un presente angosciante, in cui dobbiamo, con profonda serietà, risollevare la questione della relazione tra morale e politica. Una politica priva di una bussola religiosa e morale che guida verso una misura che supera l’umano nella trascendenza o nel Dio personale, conduce l’umanità nell’abisso dell’autodistruzione militare o nella morte per noia, in un paradiso terrestre del consumismo materialista. A cosa serve che gli ambientalisti impediscono l’estinzione degli orsi polari in Groenlandia, se poi allo stesso tempo ai bambini nel grembo materno negano l’elementare diritto umano di venire al mondo?

La narrativa liberale e socialista secondo la quale la Chiesa e i papi sarebbero sempre rimasti indietro rispetto alle conquiste dei tempi moderni, perché avrebbero rimpianto la perdita del loro potere secolare nel Medioevo, è altrettanto falsa quanto il tentativo di Hegel di contrapporre il protestantesimo quale religione della libertà, al cattolicesimo come “religione della non-libertà” (Encyclopaedia § 552). Infatti, l’alternativa alla comprensione cattolica dello Stato, la cui autorità fondata sul diritto naturale rimane limitata al solo bonum commune temporale, è la deificazione dello Stato, che Hegel, nello Stato prussiano, vedeva già realizzata. Abbiamo visto le terribili conseguenze di questa speculazione sgangherata. Se i papi, all’inizio della Rivoluzione Francese, erano scettici riguardo alla dichiarazione dei diritti umani e civili, non era perché ne rifiutassero la sostanza, ma perché questi diritti mancavano di giustificazione nella natura metafisica dell’uomo: mancanza che apriva le porte all’arbitrio e all’abuso che hanno accompagnato il Grande Terreur e le più importanti ideologie politiche del XX secolo.

Nonostante tutte le rotture storiche e i fallimenti umani, l’insegnamento della Chiesa viene attraversato da un filo rosso che conduce da Pietro a Papa Francesco. La legge fondamentale della storia del mondo, che sta al di sopra di tutto e sostiene ogni cosa, consiste nella verità che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, creando l’uomo e la donna, con il conseguente susseguirsi di generazioni fino al Giudizio Universale e alla vita eterna, nella contemplazione di Dio “faccia a faccia”.

Il papato è sopravvissuto allo schiaffo di Anagni, così come a tutte le precedenti persecuzioni e le successive prove inflitte dai governanti di questo mondo. E questo perché, nella persona del Papa, la promessa del Figlio di Dio sull’indistruttibilità e infallibilità della Chiesa è visibile e solida come una roccia in balìa della risacca delle maree.

La Chiesa è convinta che il mistero dell’uomo si chiarisca soltanto alla luce del Verbo incarnato (Vaticano II, Gaudium et spes 22) [2]. E proprio perché la Chiesa non è una qualsiasi organizzazione umanitaria (ONG), ma «in Cristo il sacramento della salvezza del mondo», il Concilio Vaticano II ha potuto definire, all’inizio della “Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”, il rapporto tra l’autorità spirituale e il potere temporale, con la seguente terminologia odierna: «Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo [e cioè la vocazione divina; GS 22] e la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d’instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione. nota! Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito» (GS 3).

La relazione tra la Chiesa cattolica e gli stati moderni viene mediata dalla costruzione di una “cultura della pace” e di una cultura della vita, come disse Papa Giovanni Paolo II. Essa inizia con il rispetto della dignità di ogni essere umano come persona, nota2 dal concepimento alla morte naturale, e trova il suo completamento nella nostra vocazione alla «libertà della gloria dei figli di Dio» (Rom 8,21). - Fonte
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Note di Chiesa e post-concilio
1. Su questo punto, senza giustificare la guerra, c'è una complessità di cui tener conto. Sorvolando sull'appena sfiorata decadenza dell'occidente, la "guerra di aggressione" (riflessioni iniziali qui, il resto in questo indice) ha degli antecedenti e poteva essere evitata da chi ne ha gettate le premesse, alimentato situazioni e provocazioni, mentre continua a buttare benzina sul fuoco sulla pelle degli ucraini e di una Europa succube non solo per ragioni storiche e geopolitiche ma anche perché rimasta senz'anima, avendo rinnegato le sue radici greco-romane fecondate dal cristianesimo.
1. Il riferimento al documento conciliare Gaudium et spes 22 configura una delle tante deviazioni conciliari, già confutate in più occasioni; ma anziché rimandare ai link (repetita iuvant e per comodità di lettura) trascrivo qui di seguito alcune chiose.
GS, 22 dichiara che Gesù con l'incarnazione si è «in qualche modo» unito a tutti gli uomini. Ma ciò trae in inganno perché, se è vero che il Verbo ha assunto la natura dell'uomo Gesù, che è comune alla natura umana, essa non è quella di tutti gli uomini, ma quella dell'uomo Gesù di Nazareth. Ed è nella sua Persona divina e aderendo ad Essa che noi riceviamo la salvezza e l'adozione a figli. Infatti l'Incarnazione riguarda l'Uomo-Gesù e coinvolge gli uomini a condizione che essi Lo accolgano e credano nel suo Nome perché sono «coloro che lo accolgono e credono nel suo Nome [che] diventano figli di Dio" (Giovanni, Prologo 12-13).
Altrimenti che senso ha la Chiesa, il suo essere corpo mistico di Cristo, oltre che Popolo di Dio in cammino, e sua portatrice fino alla fine dei tempi? E che fine fanno 2000 anni di Magistero, ma soprattutto ciò che dice il Vangelo?
Possiamo forse escludere quanto hanno stabilito i Concili di Efeso e Calcedonia? Cioè l'assunzione della sostanza umana individua e perfetta di Gesù di Nazareth da parte del Verbo, oltre all'unione e la distinzione delle due nature. Per questo non possiamo far derivare da quell' «in qualche modo» questa conclusione: « non tutti chiamati ad essere presenti nel Verbo incarnato come la nostra Fede ci ha sempre proposto, ma il Verbo presente in tutti, essendosi egli in tutti incarnato, sia pur in un modo indefinibile ». Un vero e proprio ribaltamento.
Con l'affermazione di GS 22 avallata da queste recenti esternazioni si dovrebbe dedurre che il Verbo, consustanziale al Padre secondo la divinità, si sarebbe unito alla natura peccaminosa di ogni uomo! E che fine fa il dogma dell’Immacolata Concezione? E quello del peccato originale?
L'affermazione porta infatti a dedurre che la “incarnazione in ogni uomo” ha significato ontologico, costituendo una vera e propria impronta divina perenne nella natura di ogni uomo. Non lo dice esplicitamente, ma è a questo che porta, con un’ambiguità - o, meglio, vera e propria variazione - che getta nella confusione la dottrina ortodossa dell’Incarnazione, rendendola incerta e divinizzando l’uomo. Del resto anche il CCC, 467: «... Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi». (M.G.)

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